Differenze

…. Prende un sacchetto, dal quale estrae due sfere di colore arancione, di uguale dimensione e…
“Chi? Chi ha preso il sacchetto? Dove?”

È irrilevante, chi e anche il contesto in cui è avvenuto, ai fini del messaggio che il racconto trasmette!

Dicevo: prende un sacchetto trasparente, slega il fiocco che lo chiude e ne estrae due sfere arancioni, ciascuna della dimensione di una pallina da tennis.

– ‘Queste sono due arance. La prima appare perfetta: liscia, priva di ammaccature, lucente. È di ceramica, è un soprammobile.

La seconda è un’arancia vera: irregolare nella forma, con qualche zona più matura.’

La sbuccia, getta la scorza e ne stacca uno spicchio. Lo inghiotte. Poi passa il resto del frutto alle persone intorno, chiedendo loro di fare altrettanto.

Nel frattempo deglutisce e mentre gli altri ancora masticano torna alla prima arancia.

La prende come Amleto col teschio e riprende il suo discorso:

– ‘Questa arancia appare perfetta, è come il mondo vorrebbe vederla; ma è inutile, non serve a niente. È un soprammobile.

L’altra arancia invece non c’è più, ma nell’aria potete sentire ancora il suo profumo, e in bocca il suo gusto dolce. È un’arancia vera.

La prima è morta, la seconda è viva’

Un bel tacer non fu mai…?

E’ bastata una frase, una laconica frase pronunciata nel silenzio, per essere risucchiata indietro nel passato, come da un vortice. Essenziale nella sua composizione, soggetto e predicato, nessun complemento: istantaneamente mi sono ritrovata in una circostanza simile.

Non si tratta della stessa situazione identica, ma appartiene comunque alla stessa catena di eventi, solo qualche anello di distanza; e non si tratta nemmeno dello stesso ruolo, ma poco cambia.

La mia reazione però viene fedelmente riprodotta: improvvisamente ho la sensazione di essere presa e scaraventata contro un muro, senza nessun preavviso.

Mi è capitato di girare nei mercati del pesce, non quelli rionali di città, ma quelle esposizioni delle località marine, dove arrivano i pescatori col prodotto fresco: prendono le piovre e le sbattono ripetutamente contro uno scoglio, per tramortirle e ucciderle.

Così mi sono sentita allora: tramortita, incapace di associare le frasi ascoltate alla realtà quotidiana, impossibilitata a dare un senso di verità a quella notizia.

La mia mente annaspa nel tentativo di respingere un duro e drastico cambiamento, cercando di rimanere a galla in uno stato di felicità, rinnegando l’ignoto che sarebbe venuto poi.

Empatia, si dice.

Che non ha nulla a che spartire con la simpatia, tutt’altra storia.

Empatia che probabilmente ha come attivatore qualche dato anagrafico e clinico, nulla di più.

E però no, oggi la piovra non sono io, la mia mente lavora alacremente per dissociarsi dalla sensazione in cui è precipitata, per togliersi di dosso lo sconforto appiccicoso di una brutta notizia.

Ma rimango attonita, incapace di pronunciare qualunque commento.

“Mi dispiace” sento dire in risposta a quell’annuncio.

La voce a fianco a me manifesta in sintesi quello che sto provando io stessa, ma lo dice in maniera talmente concisa e repentina che stride con il contenuto semantico di quelle parole.

Non posso affermare che non corrisponda al vero, non posso dire che non gli dispiaccia veramente intendo.

Ma io non riesco a dirlo, proprio perché è così, proprio perché sto provando dispiacere.

Mi capita spesso, quando sono particolarmente felice o l’esatto contrario, di non riuscire a parlare, a dire nulla.

Perché ho la sensazione che qualunque cosa io dica non sia all’altezza, non possa esprimere adeguata gioia o dolore, e anzi che le parole non facciano altro che sminuire l’intensità di un emozione (“feelings are intense, words are trivial” cantavano i Depeche Mode).

Un bel tacer non fu mai scritto, cita il proverbio: a essere rigorosi un bel tacer non fu mai detto, ma diversi bei tacer sono stati scritti, perché un foglio bianco lascia spazio a una misura nell’espressione che permette di dire il proprio pensiero anche a chi, come me, teme talora il rumore delle parole.

A scuola di maquillage

Per me è un mistero: come si fa a truccarsi in modo che le ciglia sembrino le foglie di palma con cui si fanno aria nei paesi tropicali?Intendo che io proprio non ci riesco, pur provandoci.

Quando acquisto i make up mi vengono proposti prodotti miracolosi: di solito mi trovo nell’imbarazzo della scelta tra un mascara super tridimensionale e uno ad effetto aumentato max volume.

Già a sentirne il nome mi sembra di dover decidere se voglio un risultato più Nicoletta Orsomando o Moira Orfei.

Poi arrivo a casa e, nonostante i numerosi passaggi il massimo risultato che riesco ad ottenere è quello di una tredicenne alla festa dell’oratorio.

Forse sbaglio a chiedere, ad acquistare intendo. Ne so talmente poco di cosmetici che un giorno sono entrata in profumeria in cerca di un prodotto da spennellare sugli zigomi per dare un po’ di colore sopra il grigio invernale.

Non ricordo il termine esatto, se ho chiesto della terra o cosa altro.

Il commesso ne sapeva mille volte più di me e ha iniziato ad interrogarmi: terra? 

Si terra da mettere col pennello, cipria insomma, rispondo.

No! col pennello si applica il fard, la cipria col piumino…. E sotto che tipo di crema adopera? Che fondotinta? Che correttore? 

Oddio, io veramente vorrei solo una cosa da spolverare così, tanto per darmi un po’ di colore….

Una volta raggiunto un compromesso sul tipo di polvere (ma il commesso era molto contrariato che io saltassi tutti i passaggi precedenti), è iniziato il dibattito sulla tonalità di colore: lo vuole più bronzo o naturale? Ma che tenda più al rosso o al mattone?

E dopo ancora un’altra dissertazione sul fatto che dovesse avere delle componenti glitter o piuttosto se dovesse opacizzare.

Insomma volevo poi chiedere il mascara ma ero così mortificata da non aver passato l’esame che sono fuggita via.

Però poi, quando anche riuscissi a farmi le ciglia da femme fatale, una volta che ci indosso sopra gli occhialini da piscina, non è che devo nuotare con le pennellate sulla lente?

L’ornitologa

  Provo a mantenere la promessa, fatta nella premessa, di raccontare il qui ed ora.
Ho due bimbe, più o meno piccole (è sempre un dato relativo). 
E se ogni scarrafone è bello a mamma sua, io sono mamma scarafissima. 

Le gioie che mi stanno dando in questi giorni sono quelle tipiche della loro età, immagino.

Sofia, 6 anni, ha perso ieri uno degli incisivi superiori, i famigerati ‘denti davanti’.

Da poche settimane ha iniziato ad affrontare la giornata come fanno i grandi: basta storie per svegliarsi, basta biberon, basta capricci mattutini. Ora si punta la sua sveglia, e quando questa suona si alza, scende le scale, si arrangia a lavarsi e vestirsi, fa la colazione a tavola.

A molti può sembrare una cosa ovvia e normale. Nella nostra routine familiare fa la differenza tra battaglie donchisciottesche contro l’orologio, a seguito delle quali io mi sento sfatta come un tortellino cotto nel brodo caldo, e un momento colazione modello Mulino Bianco.

La cosa che mi fa molto strano è che ieri era in fasce e oggi è praticamente un componente adulto della famiglia. 

E io mi sono trovata con la trasformazione già avvenuta, senza quasi accorgermene.

L’altra, la piccolina, Viola, ha 20 mesi. Sta sviluppando un sacco di conoscenze, un po’ alla volta aggiunge paroline al suo vocabolario, storpiandone un discreto numero. 

Così il sapone diventa ‘papone’ e la pancia si chiama pancciia.

Conosce anche diverse altre parti del corpo umano: l’ochhietto, il culetto, i pinini (piedini), la bocca. Confonde il naso col mento, sarà per via della forma appuntita.

E poi riconosce gli animali: in principio erano tutti bau, qualunque essere vivente diverso dall’uomo. Andavamo in piazza dove ci sono i piccioni ed erano tutti bau.

Ho ripetuto all’infinito che quelli erano piccioni.

Poi anche con l’uso dei libricini ha iniziato a distinguere un sacco di forme viventi. Dal pulcino al tucano.

Però un conto è vederli disegnati, altro è vederli dal vero.

È così coi primi caldi che ci è entrata in casa una mosca lei continua a rincorrerla chiamando ‘picccciioone’.

Carpe Diem in tutte le lingue del mondo

Ho trascorso la giornata in polling.Mi sono messa in modalità ‘ascolto attento’ e sapevo che prima o poi sarebbe arrivata, che prima o poi alla radio sarebbe passato ‘Kiss’.

Tra ufficio e spostamenti in auto trascorro parecchie ore al giorno ascoltando la radio, doveva capitare, questione di statistica.

Ho beccato Purple Rain su radio Dj lungo il tragitto di andata; poi in ufficio i comandi passano al mio collega, che sta sempre attaccato a radio Padova.

E niente, quelli di radio Padova avevano le idee un po’ confuse, perché hanno passato Stevie Wonder, Michael Jackson e Terence Trent d’Arby. Ma Prince no.

Però avevano passato Purple Rain prima che arrivassi, e nel pomeriggio a forza di attendere mi si è collegato il riproduttore mentale interno e ho iniziato a canticchiare ‘Alphabet street’.

A me Purple Rain è quella che piace meno.

Una volta uscita dal lavoro ho ripreso lo zapping furioso in auto.

Prima però ho voluto fare una sosta: da un mese osservavo un albero dalla fioritura prosperosa, e volevo fotografarlo.

Accosto e scendo, ma qualcosa è scemato nella sua opulenza: buona parte dei fiori sono caduti e sull’asfalto c’è un tappeto di piccoli petali color viola acceso: Purple Rain.

Dovevo farlo prima, di fermarmi a scattare, ormai il meglio è passato.

Bisogna prenderle al momento le occasioni, bisogna farle le telefonate, bisogna spedirli i messaggi, bisogna dirle le cose carine, bisogna incontrarle le persone.

Bisogna farlo prima che l’albero sfiorisca, prima che cada pioggia viola, Purple Rain.

Vabbè riparto, e riparte la mia ricerca.

Niente, ancora niente.

Ma la serata non è finita, e Baglioni fa il suo capolino. Stavolta ripete che la vita è adesso.

È adeeeeesssooooo. È adeessssooooooo.

Hai anche ragione, ma io vorrei la sensualità di Kiss.

Passa anche Bruno Mars, a completare la sequenza dei cantanti di colore.

Poi dopo cena altro tragitto, verso la piscina.

Becco di nuovo (riferito a ieri) ‘sign of the Times’.

È pazzesca questa canzone per almeno due motivi: il primo è l’incipit che parla di AIDS ai tempi dell’AIDS (una grave malattia dal nome breve); il secondo è l’opera d’arte che fa coi bassi.

E conclude con ‘hurry before it’s too late: let’s fall in love, get married, have a baby’.

Che in italiano fa ‘la vita è adeeeesssssooooo’.

Ma ha tutto un altro sapore.

Per finire sulla strada del rientro sono ormai a casa che…. Siiiiii

‘Women not girls rule my world….’ : è lei.

Alzo il volume a manetta, nonostante la sintonizzazione lasci parecchio a desiderare…… Eeeeeee…..

No, tagliano prima che dica Kiss.

Vabbè, San YouTube per fortuna ci sei tu!

  

Qui ed ora – Capitolo I

Alla fine ho ceduto alle lusinghe, o ci provo quantomeno…
“Ma perché non scrivi un libro?”

Perché non ho fantasia, e non saprei da dove cominciare… Poi sono troppo perfezionista, e continuerei a smontare e rimontare la stessa storia.
“Ma perché non apri un blog?”

Beh… Dai uno dai due e dai tre, a un certo punto …. Guardo in rete e non sembra troppo difficile.

Anzi, sembra che sono rimasta l’unica al mondo senza un proprio profilo.

Così ci provo.

E da dove comincio? L’inizio è sempre ostico, poi tutto va in discesa (o si ferma lì, tutt’al peggio).

Comincio da dove sono, dal qui e ora.

Il passato emergerà pian piano, le aspettative si riveleranno col tempo.

Il fatto di avere uno spazio proprio ha aspetti positivi: è come essere in platea, con i propri spettatori, anziché in piazza in mezzo alla folla. E poi mi dà modo di raccogliere i miei pensieri e le mie idee in modo ordinato, anche per me stessa.

Per contro so di raccontarmi al buio, senza necessariamente ricevere riscontro o conoscere con lo stesso livello di approfondimento chi vorrà leggere me.

Due facce della stessa medaglia.

E poi non si sa mai…