Bulli & Pupe

Ultimamente ci si ritrova a parlare molto di bullismo: metto ben avanti le mani e dico subito che chiaramente disapprovo su tutta la linea chi ‘soprude’ gli altri.
Chi in qualche modo esercita prepotenza, prevaricazione, derisione nei confronti di chi a suo vedere è più debole, o comunque in posizione di inferiorità, è un meschino, uno che in realtà si trova lui in situazione di debolezza.

Detto questo, da qui ad attribuire ai bulli la responsabilità dei gesti estremi di reazione che alcuni soggetti hanno, a me pare esagerato e inappropriato. Specie se si tratta di cyber-bullismo.

Non voglio giustificare o avallare certi cretini alla cui sconfinata idiozia non si trova limite, e che vanno puniti (e a mio avviso va fatto in silenzio, senza far loro pubblicità). 

Ma se uno commette un gesto estremo lo commette essenzialmente di suo.

Entro certi limiti la presa in giro è fisiologica, tipica dell’età evolutiva. Ed entro certi limiti è una spinta alla maturazione.

L’adolescenza è un’età fragile, e forse alcuni rimangono eterni adolescenti, prolungando la ridarella cronica oltre i 16 anni; ma da qui a trasferire in toto problematiche profonde ad attori esterni a me pare ne passi di strada.

Io stessa sono stata per tanti anni vittima di una sorta di bullismo: essere alti 1 metri e 80 già a dieci anni non è facile. Non è facile per tutta l’adolescenza. 

Ricordo una volta che ho pianto una notte intera perché avevo ritrovato la mia bici con le ruote all’aria, rovesciata da quelli che mi avevano ribattezzata ‘Maura’.

Nessun danno, solo l’avvilimento per uno scherzo idiota, perpetrato da alcuni soggetti che non sapevo nemmeno chi fossero, col senno di poi solo quattro sfigati.

Però ero veramente ossessionata da quel nomignolo! 

Un giorno mia mamma mi aveva mandata a fare una piccola spesa, e aveva scritto la lista su un pezzo di carta, a penna. 

Tra le 3 o 4 voci spiccava ‘bistecche di mauro’, che in realtà erano di ‘manzo’ ma la u si confondeva con la n e tra la r e la z il passo è breve.

Io, dopo aver passato in maniera certosina tutte le vasche di esposizione della carne, sono andata diretta da quello che lavora dietro, contenta di rivalutare un po’ sto nome antipatico: se la mamma diceva bistecche di Mauro, questo Mauro doveva essere una specie di Dio delle fettine di carne.

Grande delusione e molta vergogna per me quando il tizio che aveva abbandonato lo squartamento per rispondere al mio ‘Mi scusi??? Le bistecche di Mauro dove sono????’ con tono impassibile, dopo essersi fatto ripetere la domanda, mi aveva risposto perentorio ‘Io sono il macellaio, e mi chiamo Sereno’.

The wedding day

Tempo di celebrazioni di matrimoni.

Io del mio, che risale ad ormai 15 anni fa, ho un ricordo nitido.

Ricordo di essermi sorpresa in mattinata mentre buttavo le immondizie, dopo che il mio promesso era già diretto verso la sua casa natale, a dirmi ‘ehi, ma oggi è il giorno delle mie nozze…. non si addice ad una sposa andare a buttare il secco!’.

Quindi, dopo essere passata dal parrucchiere per trucco e acconciatura, ho raggiunto quella che già da un anno e mezzo definivo ‘casa dei miei’.
In strada davanti al cancello campeggiava una scritta a caratteri cubitali con il nome mio e del promesso scritti con una vernice ad elevata resistenza (suggerirei all’amministrazione comunale un’indagine di fornitura alternativa per tracciare le strisce pedonali che si cancellano dopo tre pioggie).
La scritta era comparsa nella notte e nessuno, né i miei né i vicini, si erano accorti di nulla.

Mi sono ritirata in quella che era stata, e per l’arredamento ancora lo era, la mia camera. Li mi ero sfilata la tuta da ginnastica bianca (come si addice alla sposa) ed avevo iniziato ad indossare l’abito, ritirato da poco più di una settimana, proprio nel giorno in cui avevano abbattuto le torri gemelle.
Ricordo lo sgomento e l’incertezza che aleggiavano in quei giorni tra la gente.

Mi aiutavano a vestirmi le mie testimoni: mi faceva strano perché con loro ero abituata a condividere lo spogliatoio della piscina per cambiarmi, ma normalmente passavo dalla tuta al costume intero, o dall’accappatoio ai jeans; in quella circostanza invece stavo indossando della biancheria di pizzo e un abito da cerimonia solenne.

Anche loro erano elegantissime: G. con un tubino fasciante dorato e A. con un tailleur rosso a pantalone.

Mia mamma, anche lei vestita di rosso, era entrata in camera mia e quando mi aveva vista le era sfuggita dalle mani una boccetta di smalto rosso per unghie, mancando di pochi centimetri la gonna del mio abito: un gran sospiro di sollievo si era levato, preceduto da qualche urlo. 

Non saprò mai se le fosse caduto per semplice distrazione o per lo stupore e la commozione che una madre prova di fronte alla propria figlia che si sposa.

L’abito era bellissimo. Avevo raccomandato alla sarta di non trasformarsi in pasticciera: ‘niente meringhe’ avevo ribadito. E lei mi aveva ascoltato, confezionando un vestito di singolare eleganza, senza strascichi né veli né fronzoli. Mi dispiaceva di poterlo indossare un giorno solo, e già stavo pensando a come poterlo riutilizzare; i miei erano rimasti spiazzati quando poi, riponendolo nel loro armadio avevo considerato ‘mi sa che passerà un po’ di tempo prima che lo possa mettere di nuovo’.
Di color panna, era composto da un top a balze, con le spalle completamente scoperte, stile impero lo definiva la sarta; una gonna liscia, aderente e lunga fino ai piedi; un coprispalle di un tessuto impalpabile. Un vero peccato non avere ulteriori occasioni per poterlo sfoggiare, adeguatamente riadattato.

Ricordo l’arrivo del fotografo, un amico al quale non avevo sufficientemente illustrato la composizione del mio nucleo familiare, che ha ritratto mia sorella solo per casualità.

Una volta vestita, avevo radunato gli invitati che si stavano rimpinzando al buffet e avevo intimato loro di sbrigarsi a partire perché il mio futuro sposo mi aveva raccomandato di non arrivare in ritardo, altrimenti avrebbe potuto essere vittima di ripensamenti.

Salire in auto era stato abbastanza agevole, ho ringraziato il buon senso che aveva messo al bando sottogonne voluminose. Lungo il percorso che conduceva alla chiesa tutto mi sembrava nuovo, diverso: eppure era un tragitto che avevo coperto più volte al giorno per tanti anni, dato che era il medesimo che conduceva a scuola e in piscina.
Avevo avuto talmente fretta che ero arrivata in chiesa prima dello sposo, pertanto avevamo fatto un altro giro del quartiere prima di fermarci.

Ricordo il mio stato d’animo di euforia, grazie al quale non ho percepito per nulla il freddo di quella giornata che proprio nel momento in cui dovevo scendere dall’auto per entrare in chiesa ci ha regalato anche qualche spruzzo di pioggerellina autunnale.

Al mio arrivo avevo incontrato tanti volti noti, e mi ero stupita di vedere tutte queste persone messe assieme, dimenticando per un attimo che era ovvio che fossero lì dato che li avevo invitati io.
Mi ero un po’ rammaricata che tutti fossero entrati in chiesa, lasciandomi lì da sola con mio papà, io che avrei voluto andare a salutare tutti e mettermi a fare conversazione con ciascuno.
L’ingresso in chiesa poi però era stato entusiasmante: vedere tutti i parenti e gli amici già piazzati che mi aspettano mi aveva riempito di emozione e io avrei voluto contraccambiare lo sguardo di tutti; a mio papà, di carattere molto più riservato, era toccato il compito di ricordarmi di guardare avanti dove camminavo se non volevo inciampare.

All’altare ad attendermi c’era lo sposo, quello che dopo un’ora da quel momento e per tutti i giorni che seguiranno fino ad oggi, chiamerò mio marito. L’incontro in quella circostanza aveva riservato un po’ di sorpresa in me: perché un abito chiaro? Perché il suo barbiere gli aveva tagliato i capelli lasciandoglieli lunghi? Io che mi aspettavo un uomo in abito scuro gessato e con una rasatura da marine!

La cerimonia si era svolta come da copione, senza grossi inconvenienti se non quello che io, volendo recitare la formula della promessa e non leggerla dal foglietto, ne ho tralasciata una frase.
Ricordo mia nonna che mi continuava a ripetere di non guardarmi in giro, e che dentro di me sentivo che era una posizione poco confacente quella della prima fila, da dove non si poteva avere un quadro generale dei presenti.

Dopo la cerimonia qualche foto di rito sul posto e altre più scenografate a Monte Berico, assieme ai testimoni; non so per quale motivo, né se ce ne fosse uno, ma ricordo di aver riso tanto durante quegli scatti.
Arrivati al ristorante ci eravamo accorti che non erano mai arrivati i fiori che avevamo ordinato; gli invitati si erano consolati spazzolando tutti gli stuzzichini serviti come aperitivo, tanto che non era rimasto nulla per gli sposi (ma credo che del dettaglio dei fiori non si fossero proprio accorti).

Anche la cena si era svolta come da copione, e gli sforzi prodotti per designare le tavolate e assegnare la posizione a ciascun ospite si erano rivelati proficui; qualche anno più tardi una versione particolare di quell’esercizio, con le cifre al posto dei nomi e cognomi, sarebbe stata commercializzata su larga scala con il nome di sudoku.

Unico neo il taglio della torta, avvenuto in privato per scattare foto migliori, e che aveva generato un po’ di rammarico in mia mamma: ma come già tagliata? Aveva esclamato vedendosi recapitare un piatto con una fetta e rendendosi conto di aver perso un momento a suo giudizio importante.

Dopo la cena i parenti più anziani ci avevano salutato ed erano rimasti solo i più giovani, nella sala interrata, a cantare e ballare insieme, fino a che il gestore del locale ci aveva caldeggiati verso l’uscita, aveva acceso le luci e iniziato a riassettare.

Così come durante il giorno non avevo avvertito il freddo né la fame, nonostante fossero ormai le due di notte non avvertivo né stanchezza né sonno.

La giornata solenne si era conclusa con il ritorno e l’ingresso a casa assieme allo sposo, che esaudiva il mio desiderio di farmi varcare la soglia tenendomi sollevata come si vede nei film.

Nella cultura odierna il matrimonio è indissolubile quanto il nescafè, sarebbe ipocrisia sostenere il contrario. In alcuni contesti questo è considerato un male e in altri un bene, non sta a me né è mia intenzione giudicarlo.
Nonostante questa premessa, rimane comunque indimenticabile una giornata dedicata a condividere con le persone più care la gioia e l’entusiasmo riposti in una promessa ufficiale di continuo sostentamento reciproco e di accettazione a vicenda delle diverse abitudini, nei giorni e negli anni a venire.

Per le persone che ho avuto vicine quel giorno, e che tuttora lo sono, sento che il fatto che sono qui a raccontare ciò che ricordo vale più delle bomboniere che non ho distribuito.

L’arcobaleno

L’arcobaleno è l’emblema della felicità.
La leggenda vuole che alla fine dell’arcobaleno, dove la sua coda tocca terra, ci sia una pentola piena d’oro; ma tutti sappiamo che l’arcobaleno è solo un effetto ottico pertanto la coda esiste solo a distanza, ed è impossibile raggiungerla ed arraffare la pentola piena d’oro.
Ecco: la felicità è così, riusciamo a vederla solo da lontano, non riusciamo a trovarci immersi dentro, se non per rari e fugaci istanti.
Sembra che sia più facile rendersi conto di aver vissuto un momento felice quando si osserva una fotografia o si rievoca un fatto in una chiacchierata tra amici.

Ma NEL momento sembra quasi osare troppo.
Abbiamo momenti positivi che sottostimiamo, salvo poi ricordarli con rimpianto.

Viviamo con il rammarico di non essere altrove; immaginiamo continuamente che in altri paesi si stia meglio di quello in cui viviamo, che altre realtà siano migliori della nostra.
Che gli altri posti di lavoro funzionino meglio, che le altre scuole siano più formative, che il nostro prossimo abbia (in senso generale) più di quello che abbiamo noi, o che abbia quantomeno maggior fortuna, che si diverta di più.
Per ritenerci soddisfatti, per poter dire di aver raggiunto un obiettivo, il traguardo è sempre un pochino più in là.
Stiamo sempre a rincorrere un qualcosa che si sposta, che è nel futuro, o nel passato, o in un luogo fisicamente lontano.
E in questo anelito non ci accorgiamo che la bellezza dell’arcobaleno è vedere l’arcobaleno, e ciò è possibile solo da distante, ma in realtà è proprio lì davanti a noi, ci siamo immersi.

Dei ricordi mi fa male scoprire di quando ero felice e non me ne accorgevo.

(Federica Caladea)

Probabilmente perchè la consapevolezza di stare proprio dentro l’arcobaleno, in questo momento e in questo posto, è pericolosa: potrebbe generare la paura di doverci un giorno, d’un tratto, da un momento all’altro, uscire.

Fidelity card ed altre plastichine

‘…già un’altra guerra in sala riunioni…’ canta Ligabue in G come giungla.
In effetti le riunioni lavorative ben si prestano ad essere paragonate ad un campo di battaglia: sembrano la guerra a dimostrare, a chiacchiere, quante cose si sanno fare; per dirla colorita ‘la guerra a chi lo ha più lungo’.

E visto che le chiacchiere son gratis, giù di colpi di scena, sparate, digressioni.

Ci si diverte un mondo insomma. Fino a che passa un aereo, in senso figurato intendo: ovvero viene evocato nella mia memoria un ricordo divertente con cui viaggiare per qualche istante, fino a che il discorso che ha deragliato ritorna sui binari.

Dicevo che appunto in riunione si discuteva: argomento tessere fedeltà; quelle carte plastificate che ormai anche il negozietto all’angolo ti dà per illuderti che raccogliendo dei punti avrai un premio.

Per ognuna di quelle che si conservano nel portafogli sappiate che c’è gente che fa riunioni di ore per decidere come far viaggiare i dati annessi, dove memorizzare i punti, come gestire l’intero flusso informativo.

E se manca la connettività? In assenza di rete internet c’è il rischio che un cliente presenti una tessera di un altro gruppo, e non lo si riconosce.

Tipo che vai all’Esselunga e ti fai caricare i punti sulla tessera della Coop.

Ma chi vuoi che si metta a fare simili operazioni?

Eh… Succede! Ed ecco il mio aereo:

Diversi anni fa uscita dal lavoro mi sono fermata al bancomat per prelevare contante.

Inserire la tessera.

Fatto.

Inserire la tessera. 

Come? Se te l’ho appena data?

Morale: il distributore di denaro si era tenuto in ostaggio la mia carta bancomat.

Pazienza. (Mica tanta, ma non avevo alternative)

Torno a casa e l’allora compagno (ora marito) si allarma: ci sono dei sistemi che ti intercettano la tessera e ti filmano mentre digiti il codice e ti svuotano il conto.

Inutile spiegargli che il codice non l’avevo nemmeno ripescato dalla mia memoria, che non c’era nessun marchingegno strano.

Gli piacciono i film di spionaggio e torniamo immediatamente allo sportello.

Inserire la tessera. 

Eh no fermi tutti, ok un bancomat ma due… Mica siamo scemi… Prendi qua! E infila la tessera della videoteca.

Mangiata. 

Inserire la tessera.

Ok e ora? Ora boh, lunedì mattina (perché ovviamente questo genere di cose accade il venerdì sera) verremo in orario di apertura allo sportello.

Armiamoci e partite, che il bancomat in ostaggio è intestato a me.

Il lunedì mi presento all’apertura dello sportello. Davanti a me altri clienti con lo stesso problema, tutti di fretta e tutti piccati.

Viene il mio turno e il povero impiegato, anche se non sono ancora le nove, è sfinito.

Chiedo la stessa cosa di tutti i miei predecessori: la restituzione del bancomat.

Ero l’ultima della fila, ero anche la più giovane dei contestatori, e soprattutto avevo l’aria meno incazzata.

L’impiegato si rilassa: inizia a compilare il modulo che dovrò firmare e si giustifica:

“C’è stato un malfunzionamento purtroppo… Ma poi … Poi anche la gente … Cosa ha in testa? Insieme a tutti i bancomat abbiamo trovato un mucchio di tessere del supermercato! Ma come si fa? Dico io… Come si fa? Cosa credevano? Di poter prelevare con queste?”

Sospende il suo agitare le mani per aria e mi mostra un pacchetto di tessere, dello stesso formato del bancomat, riportanti i loghi dei supermercati più noti, marchi di abbigliamento, circoli sportivi.

È trafelato, sconvolto, sotto evidente pressione. “Ma” si appiglia alla sventatezza dei clienti “pensi… Guardi qua… C’è perfino uno che ha inserito la tessera della videoteca. Della videoteca…! Robe neanche da credere!”

Sta scaricando addosso a me tutta la tensione che ha accumulato con i clienti precedenti; mi ha presa per la sua confidente, ma in realtà sta parlando a se stesso a voce alta. Si trova ad essere il capro espiatorio di una clientela che fa esperimenti con la sua macchinetta spara soldi.

Scrolla la testa, in segno di disappunto, e mi porge il modulo da firmare, restituendomi il bancomat.

Mi accomiata, ancora scusandosi per l’inconveniente.

Ora tocca a me. Rimango immobile, chiedendomi se abbia davvero senso chiedere la restituzione di quella tessera, in cui sono caricati un po’ di soldi, l’equivalente del noleggio di 3 o 4 film.

L’uomo mi guarda, ripetendo i saluti. Penso che non veda l’ora di chiudersi in ufficio e ascoltare il silenzio, di sedersi tranquillo alla sua scrivania e immergersi in una delle attività automatiche, inserire dati e compilare pratiche, niente a che vedere con le relazioni col pubblico.

“Ehm… Quella tessera, quella della videoteca… Sarebbe mia”.

Allenamento a far la faccia di bronzo.

Gli esordi

Una vetrina di eccezione per il mio post del giorno

http://nuotounostiledivita.it/pensieridicloro/gli-esordi/

Di seguito il testo integrale:

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In uno dei libri che ho letto quest’estate (Edoardo Albinati – La scuola cattolica, nemmeno ultimato per la verità) l’autore racconta, nella parte iniziale, del suo percorso scolastico.

Nella scuola che frequentava era prevista l’ora di nuoto, per un paio di volte alla settimana.

Ne ha un ricordo brutto, pesante: ricorda il freddo, l’umidità, la cattiva sensazione legata allo svestirsi, un po’ perché rimani scoperto al freddo e un po’ per la scarsa accettazione del proprio fisico in via di sviluppo, paragonato a tutti gli altri fisici in via di sviluppo.

Lo riteneva umiliante, si vergognava di rimanere lì, tutti i corpi svestiti ed esposti: chi sfoggiava una cassa toracica segnata da un evidente costato, chi qualche rotolo di ciccia, chi un colorito verdognolo.

Poi la ginnastica prenatatoria, e poi tutti dentro: dice che sì, era bello distrarsi dalla monotonia dei banchi, ma superato il momento dell’ingresso in acqua e l’euforia degli schizzi, diventava faticosissimo. Faticoso avanzare, faticoso muoversi, faticoso respirare.

Io non ho assolutamente un ricordo così negativo dei miei inizi, anzi non ricordo di aver mai fatto tanta fatica, almeno fino a che non ho iniziato gli allenamenti intensivi.

Ricordo sì un’insegnante terribile, di nome Flaminia, che faceva battere le gambe a secco, durante quei minuti della ginnastica prenatatoria, seduti a terra in appoggio sui gomiti, per un paio di interminabili minuti.

Non so se fosse più duro mantenere gli addominali in tensione o sopportare le scanalature delle mattonelle che si imprimevano sull’avambraccio vicino al gomito. A chi appoggiava le gambe arrivava un urlo da soprano, di ripartire immediatamente.

Questa Flaminia non è mai stata la mia insegnante ma sono dovuti trascorrere almeno trent’anni prima che incontrassi un’altra persona che si chiamasse così e che potesse farmi rivalutare completamente il nome, perché secondo la locuzione ‘in nomen omen’ per me Flaminia significava temibile urlatrice.

Ricordo Armando, che seguiva la pre agonistica con molta simpatia: un insegnante che faceva lavorare molto i bambini ma scherzava anche tanto con loro, e infatti io mi ero auto promossa nella sua corsia, senza attendere che mi dicessero ‘tu passi in quel gruppo là’.

Armando è tuttora uno dei pilastri portanti nell’organizzazione del nuoto a Vicenza e nel Veneto.

Avevo un costume intero rosso, che lateralmente portava due fasce, bianca e blu, su entrambi i fianchi.

In testa la cuffia di lattice, ogni settimana una diversa perché non riuscivo a tenerne da conto: tempo due volte che la usavi e diventava una palla appiccicosa, e nel tentativo di aprirla si lacerava.

Invidiavo molto quei bambini che la tiravano fuori dalla sacca tutta imborotalcata, che sembrava sempre nuova.

Addirittura ce ne era uno (ma questo non lo invidiavo per nulla) che arrivava da casa in bicicletta, seduto sul sellino dietro a sua mamma, già con la cuffia in testa.

Gli occhialini invece, quelli li perdevo, in maniera abbastanza sistematica.

La società in cui ho fatto tutti i corsi fino all’ingresso in agonistica si chiamava ANV, acronimo di Associazione Nuoto Vicenza.

Come materiale di supporto c’erano delle tavolette spesse e strette sulle quali campeggiava a tutta diagonale la scritta, quasi palindroma: se gli insegnanti avessero ecceduto nel farmi ripetere gli esercizi di gambe, con sostegni di questo genere, non sarei mai andata oltre il corso estivo.

E invece ho proseguito fino a contrarre questa malattia inguaribile che è il nuoto, che non riesco più a smettere di praticare.

… e buonanotte!

La sera, salvo casi più unici che rari, ci sono da mettere a dormire le bimbe. Spesso in questo ci alterniamo, io e il loro papà, per consentirci l’un l’altro degli spazi individuali.

È un momento intenso perché si somma la stanchezza di tutta la giornata alla pretesa, comprensibile, di ciascuna di avere il genitore lì accanto, fisicamente, nel momento della chiusura contatti col mondo.
Eppure, per quanto impegnativo, è un momento che a me dà una soddisfazione incredibile: quanta sconfinata fiducia si ripone nell’altro, in quello che ti sta vicino, che ti veglia, tanta fiducia da lasciarsi andare completamente e sentirsi comunque protetti.
Inizialmente non vorrebbero cedere: la luce accesa, un’altra storia, mille domande senza risposta, qualche improrogabile dimenticanza da supplire, impellenze fisiologiche immaginarie.
Poi chiudo la luce: in pochi minuti sento le membra che si rilassano, il respiro che si fa più profondo, la pace.
Quando Viola dormiva ancora nella culletta non ci si poteva coricare al suo fianco. Allora mi mettevo in piedi accanto al lettino, lei afferrava la mia mano con la sua manina e se la portava vicino al viso, inducendomi ad accarezzarla: abbozzava lei stessa un movimento ondulatorio e me lo imprimeva. Un ancestrale bisogno di coccole.

Poi c’è stato il periodo delle canzoni: la dondolavo cantandole Popov e prima che il cosacco scivolasse nella neve fino al Don era addormentata.

La sentivo pesantissima, le manine mollavano la presa e cadevano lungo i fianchi, quindi la appoggiavo.

Ora deve ripetere almeno 3 volte la pipì, poi ti chiede la pipa (il ciuccio), la tartaruga (il peluche), ti chiede giù, che significa giù accanto a lei (adesso nel letto è fattibile di coricarsi al suo fianco) e parte.
Sofia è più grande ma manifesta ugualmente il bisogno di vicinanza.

Ultimamente si è fatta più autonoma e, piuttosto che sentire le urla di sua sorella, preferisce rimanere sola; dopo vieni da me però.

Ma dopo è già andata.

Anche lei ha avuto le fasi: c’è stata quella delle storie inventate; io, che a fantasia per le storie sto messa a zero o giù di lì, ho iniziato con la storia della pastasciutta.

Ovvero sciorinavo nei minimi dettagli tutto la ricetta per cucinare la pasta in bianco, dal far bollire l’acqua fino a versare tutto nello scolapasta, più il condimento (olio o burro, ben due varianti).

Poi, mutuando dal film di Cenerentola il personaggio di Ella, abbiamo creato una tribù delle sue amiche; ogni sera un’avventura diversa, basata sul vissuto della giornata, interpretato dalle nostre immaginarie ragazze.

Quindi siamo passate alle letture delle favole classiche, ma le mie astuzie di tagliare qua e là per finire prima hanno avuto vita breve, perché le conosceva a memoria e se ne accorgeva.

Quindi siamo passate ai libricini, Mia & Me o Tea Stilton.

Poi è arrivata la fase dei grandi perché.

Ora ha iniziato persino a leggere da sola.

Denominatore comune di tutti i sistemi è lo stop, tempo scaduto, si spegne la luce, non si parla più, ti rispondo domattina Sofia.

Allora lei si rivolta su se stessa 4 o 5 volte, mi abbraccia e crolla.
La modalità più complessa è il tandem: a volte gioco di sponda rimbalzando da una cameretta all’altra; altre volte tengo Viola in braccio e Sofia coricata nel suo letto mi tiene la mano.

Per consentire una posizione rilassata ad entrambe faccio dei contorsionismi che manco Zlata, in piedi ma semi seduta sul nulla.

Allora mi impongo di contare fino a 100. Anzi parto da 100 e scendo, che psicologicamente è più facile, sembra meno.

Ma se riesco a fare 100 vasche posso fare anche 100 istanti di contorsionismo.

90 le domande si fanno più rade.

75 sento sbadigliare.

48 pesano un quintale

27 sono andate ma se mollo adesso se ne accorgono

12 … È fatta!!!!

Un gancio in mezzo al cielo

Non serve essere esperti sciatori per conoscere i tipi di impianti di risalita. Tra questi esiste lo ski-lift, per tratte brevi: corre parallelo alla pista, ti ci attacchi al volo, la corda di acciaio si allunga (magari l’assistente ti aiuta ad afferrarla) e ti trasporta su fino in cima alla pista da cui scendere.

A volte mi si materializzano in testa di questi ganci in mezzo al cielo (me li immagino così quelli di cui canta Baglioni) e i miei pensieri si lasciano trainare per un tratto.

Ad esempio, mentre leggevo la parte iniziale (autobiografica) di OnWriting, l’autore Steven King narra che suo fratello, quando erano ancora piccoli, lo aveva portato in un bosco; a Stevie era occorso un bisogno, di ‘spingere’.

Il fratello maggiore gli aveva risposto che erano troppo lontani da casa, la facesse lì dietro un albero.

“Ma come farò a pulirmi?” aveva espresso le sue perplessità pratiche il piccolo Steve.

“Usa delle foglie, ce ne sono ovunque”

Il caso voleva che vicino a Steve si trovasse una pianta tossica, e l’operazione gli fosse costata una brutta irritazione alla zona perianale.

Il buon Steven King in questo passaggio è l’ausialirio che mi allunga lo ski-lift: afferro il gancio e ripenso ad un episodio accaduto una ventina di anni fa.

Vivevo con i miei genitori e mia sorella di quattro anni di meno, che frequentava il liceo o forse ancora la scuola media.

La prof. di scienze le aveva assegnato un esperimento da fare a casa: preparare una soluzione di acqua e idraulico liquido (idrossido di sodio!) e metterci dentro un foglio di carta stagnola.

E lei aveva preparato diligentemente la soluzione, tenendo addosso i guanti, facendo attenzione a non spandere.

Nel giro di poco il foglio di alluminio si era disciolto: oooooooohhhhh (stupore).

Fine dell’esperimento, gaudio per la riuscita: dove si butta il tutto? Ovviamente non c’è destinazione più adatta della tazza del cesso.

Tazza sulla quale io poco dopo sono andata ignara a sedermi.

Sentivo anche un po’ pizzicare ma chissà… Ad un certo punto il bruciore diventa insostenibile: mi alzo e chiamo aiuto per la casa (sarà così che i format dei quiz televisivi hanno ideato l’aiuto da casa?).

La spiegazione arriva candida: qualche schizzo durante lo smaltimento dell’esperimento deve essere rimasto sull’asse.

A volte non serve andare nel bosco per provare il brivido dell’avventura!

Cronaca nera .dot *

Leggo la cronaca locale (ma anche quella nazionale): è morboso, lo so, ma viene diffusa in maniera così capillare che è difficile non lasciarsi coinvolgere.

Credo che chi scrive gli articoli abbia un template di word in cui sostituisce i nomi degli sventurati e dei luoghi in cui si sono verificati i fatti e … PAF ecco pronto l’articolozzo.

Io però faccio finta di non saperlo, e leggo il tutto, avidamente e diligentemente, da principio a fine.

Quando viene raccontato un incidente d’auto, vorrei tanto che qualcuno mi smentisse, non manca MAI la locuzione ‘per cause in corso di accertamento’.

E io che sono pignola e rigorosa mi aspetto che nei giorni successivi venga pubblicato il seguito: un’appendice in cui tutto ciò che è rimasto in sospeso venga precisato e completato.

Mi immagino i carabinieri che misurano i segni della frenata sull’asfalto, i RIS che analizzano la viscosità del deposito sul manto stradale, gli ispettori di polizia che indagano tra i superstiti e raccolgono testimonianze, i sanitari che analizzano il sangue per rilevare la presenza di agenti tossici.

E mi aspetto che il giorno dopo esca un altro articolozzo in cui lo stesso giornalista, vada a compilare il template intitolato ‘completamento cause incidente’ e ci spieghi perchè Mario o Giuseppe o Roberto quella sera hanno affrontato la curva ad elevata velocità finendo contro il guard rail.

Magari anche con un grafico che illustri il fenomeno fisico, ma forse è esigere troppo.

Invece no! In tanti anni mai un caso. Nemmeno un trafiletto in cui si dica ‘vi ricordate quell’articolo della settimana scorsa? Quello in cui la signora Iolanda in bicicletta è rimasta investita all’altezza di viale Boston, riportando lesioni giudicate guaribili in quattro giorni? Beh, l’automobilista non è riuscito a frenare perchè si era girato a guardare una bella gnocca’.
A questo punto inizio a credere che si tratti di una maledetta frase fatta per dire che non ci sono motivi oggettivi che spieghino l’accaduto, è successo e basta.
Ma non sarebbe più onesto non dire nulla?

(* post decongelato)

Social life *

Non è vero che Facebook porta ad isolarsi… Anzi! Mi capita di incontrare (fisicamente intendo) sempre più spesso persone bramose di raccontare i fatti loro a perfetti sconosciuti come se fossero vecchi amici…Secondo me i social network portano una certa disinibizione nelle nuove conoscenze.

La scorsa settimana durante una cena al ristorante la tizia del tavolo dietro che mi attacca bottone per via delle bimbe e mi racconta perché e per come lei i figli non li ha avuti.

Oggi alla cassa del supermercato una cliente che aveva comprato una scorta di copri-water spiegava a Ninfa, la cassiera con un vestito talmente corto che mia nonna avrebbe detto che si era dimenticata di mettere la gonna, che li prendeva per darli al bimbo in piscina perché aveva la fobia dei bagni pubblici.

(* post decongelato)

La scuola cattolica

Mi aveva incuriosito per essere tra i più venduti del momento questo libro, e per promettere di analizzare un fatto di cronaca accaduto svariati anni fa da vicino.
Ero rimasta un po’ perplessa vedendo che contava circa 1300 pagine.

Ma visto che i precedenti libri (della vacanza) li avevo divorati contavo di farcela, di poterlo leggere se non tutto almeno una buona parte durante le vacanze, in modo che poi il residuo lo potessi completare una volta a casa.
Il libro di cui parlo si intitola ‘La scuola cattolica’ e dovrebbe analizzare il vissuto dei protagonisti del delitto del Circeo negli anni precedenti il macabro evento.

Dal risvolto di copertina avevo inteso che l’autore aveva frequentato le scuole assieme a loro, mi ero fatta l’idea di una narrazione su che genere di personaggi fossero costoro e come fossero arrivati a commettere un crimine così efferato.
Ho iniziato, da brava bambina, pagina dopo pagina, a leggere con attenzione.

Presto stanca dell’onanismo delle prime 100 pagine, che nemmeno gli esordi di Fabio Volo erano così monotematici, ho adottato la lettura trasversale: leggere una parola circa ogni due o tre righe per vedere se entro la pagina c’è qualcosa che meriti di essere letto.
Indipendentemente da quanto sia costato il libro, il tempo che ho dedicato alla lettura della parte iniziale mi sembrava un grosso spreco per non arrivare poi alla fine.

Quindi ho proseguito.

Ho avuto forti dubbi quando mi sono resa conto che forse nemmeno l’autore stesso ha riletto il suo pistolone visto che a un certo punto si domanda se un certo episodio lo aveva già raccontato.

Anche il fatto che l’autore dichiari di odiare la piscina e il nuoto ha creato un altro scoglio.
Una volta terminata la vacanza ero appena al 15% di avanzamento.

Allora ho fatto una cosa di cui un po’ mi vergogno: ho guardato le soluzioni.

Mi spiego: punta dalla curiosità di vedere la faccia dell’autore, dato che più volte si definisce belloccio, sono andata a cercarlo su Google.

E non corrisponde ai miei canoni di belloccio.

Ma non è questo di cui mi vergogno: dato che ero su Google, ho cercato le opinioni dei lettori su Qlibri.
Ho letto scetticismo sul come un’opera simile possa aver vinto il premio strega; parlano di vaneggiamento narcisistico dell’autore e riportano i commenti di un critico letterario che dichiara di aver abbandonato la lettura incompleta, e di aver conosciuto molti altri che hanno fatto altrettanto. 

Ora: vuoi che sia proprio io a finirlo?
Se la vita è troppo breve per disconnettere ogni volta le chiavette USB prima di rimuoverle, non lo è forse per leggere libri sgradevoli?
Ritengo un disonore abbandonare la lettura di un libro, perché i giudizi si esprimono alla fine, e perché per apprezzare le cose belle bisogna conoscere anche quelle brutte.
Ma questo no, è troppo, non ce la posso fare.