Tempo di celebrazioni di matrimoni.
Io del mio, che risale ad ormai 15 anni fa, ho un ricordo nitido.
Ricordo di essermi sorpresa in mattinata mentre buttavo le immondizie, dopo che il mio promesso era già diretto verso la sua casa natale, a dirmi ‘ehi, ma oggi è il giorno delle mie nozze…. non si addice ad una sposa andare a buttare il secco!’.
Quindi, dopo essere passata dal parrucchiere per trucco e acconciatura, ho raggiunto quella che già da un anno e mezzo definivo ‘casa dei miei’.
In strada davanti al cancello campeggiava una scritta a caratteri cubitali con il nome mio e del promesso scritti con una vernice ad elevata resistenza (suggerirei all’amministrazione comunale un’indagine di fornitura alternativa per tracciare le strisce pedonali che si cancellano dopo tre pioggie).
La scritta era comparsa nella notte e nessuno, né i miei né i vicini, si erano accorti di nulla.
Mi sono ritirata in quella che era stata, e per l’arredamento ancora lo era, la mia camera. Li mi ero sfilata la tuta da ginnastica bianca (come si addice alla sposa) ed avevo iniziato ad indossare l’abito, ritirato da poco più di una settimana, proprio nel giorno in cui avevano abbattuto le torri gemelle.
Ricordo lo sgomento e l’incertezza che aleggiavano in quei giorni tra la gente.
Mi aiutavano a vestirmi le mie testimoni: mi faceva strano perché con loro ero abituata a condividere lo spogliatoio della piscina per cambiarmi, ma normalmente passavo dalla tuta al costume intero, o dall’accappatoio ai jeans; in quella circostanza invece stavo indossando della biancheria di pizzo e un abito da cerimonia solenne.
Anche loro erano elegantissime: G. con un tubino fasciante dorato e A. con un tailleur rosso a pantalone.
Mia mamma, anche lei vestita di rosso, era entrata in camera mia e quando mi aveva vista le era sfuggita dalle mani una boccetta di smalto rosso per unghie, mancando di pochi centimetri la gonna del mio abito: un gran sospiro di sollievo si era levato, preceduto da qualche urlo.
Non saprò mai se le fosse caduto per semplice distrazione o per lo stupore e la commozione che una madre prova di fronte alla propria figlia che si sposa.
L’abito era bellissimo. Avevo raccomandato alla sarta di non trasformarsi in pasticciera: ‘niente meringhe’ avevo ribadito. E lei mi aveva ascoltato, confezionando un vestito di singolare eleganza, senza strascichi né veli né fronzoli. Mi dispiaceva di poterlo indossare un giorno solo, e già stavo pensando a come poterlo riutilizzare; i miei erano rimasti spiazzati quando poi, riponendolo nel loro armadio avevo considerato ‘mi sa che passerà un po’ di tempo prima che lo possa mettere di nuovo’.
Di color panna, era composto da un top a balze, con le spalle completamente scoperte, stile impero lo definiva la sarta; una gonna liscia, aderente e lunga fino ai piedi; un coprispalle di un tessuto impalpabile. Un vero peccato non avere ulteriori occasioni per poterlo sfoggiare, adeguatamente riadattato.
Ricordo l’arrivo del fotografo, un amico al quale non avevo sufficientemente illustrato la composizione del mio nucleo familiare, che ha ritratto mia sorella solo per casualità.
Una volta vestita, avevo radunato gli invitati che si stavano rimpinzando al buffet e avevo intimato loro di sbrigarsi a partire perché il mio futuro sposo mi aveva raccomandato di non arrivare in ritardo, altrimenti avrebbe potuto essere vittima di ripensamenti.
Salire in auto era stato abbastanza agevole, ho ringraziato il buon senso che aveva messo al bando sottogonne voluminose. Lungo il percorso che conduceva alla chiesa tutto mi sembrava nuovo, diverso: eppure era un tragitto che avevo coperto più volte al giorno per tanti anni, dato che era il medesimo che conduceva a scuola e in piscina.
Avevo avuto talmente fretta che ero arrivata in chiesa prima dello sposo, pertanto avevamo fatto un altro giro del quartiere prima di fermarci.
Ricordo il mio stato d’animo di euforia, grazie al quale non ho percepito per nulla il freddo di quella giornata che proprio nel momento in cui dovevo scendere dall’auto per entrare in chiesa ci ha regalato anche qualche spruzzo di pioggerellina autunnale.
Al mio arrivo avevo incontrato tanti volti noti, e mi ero stupita di vedere tutte queste persone messe assieme, dimenticando per un attimo che era ovvio che fossero lì dato che li avevo invitati io.
Mi ero un po’ rammaricata che tutti fossero entrati in chiesa, lasciandomi lì da sola con mio papà, io che avrei voluto andare a salutare tutti e mettermi a fare conversazione con ciascuno.
L’ingresso in chiesa poi però era stato entusiasmante: vedere tutti i parenti e gli amici già piazzati che mi aspettano mi aveva riempito di emozione e io avrei voluto contraccambiare lo sguardo di tutti; a mio papà, di carattere molto più riservato, era toccato il compito di ricordarmi di guardare avanti dove camminavo se non volevo inciampare.
All’altare ad attendermi c’era lo sposo, quello che dopo un’ora da quel momento e per tutti i giorni che seguiranno fino ad oggi, chiamerò mio marito. L’incontro in quella circostanza aveva riservato un po’ di sorpresa in me: perché un abito chiaro? Perché il suo barbiere gli aveva tagliato i capelli lasciandoglieli lunghi? Io che mi aspettavo un uomo in abito scuro gessato e con una rasatura da marine!
La cerimonia si era svolta come da copione, senza grossi inconvenienti se non quello che io, volendo recitare la formula della promessa e non leggerla dal foglietto, ne ho tralasciata una frase.
Ricordo mia nonna che mi continuava a ripetere di non guardarmi in giro, e che dentro di me sentivo che era una posizione poco confacente quella della prima fila, da dove non si poteva avere un quadro generale dei presenti.
Dopo la cerimonia qualche foto di rito sul posto e altre più scenografate a Monte Berico, assieme ai testimoni; non so per quale motivo, né se ce ne fosse uno, ma ricordo di aver riso tanto durante quegli scatti.
Arrivati al ristorante ci eravamo accorti che non erano mai arrivati i fiori che avevamo ordinato; gli invitati si erano consolati spazzolando tutti gli stuzzichini serviti come aperitivo, tanto che non era rimasto nulla per gli sposi (ma credo che del dettaglio dei fiori non si fossero proprio accorti).
Anche la cena si era svolta come da copione, e gli sforzi prodotti per designare le tavolate e assegnare la posizione a ciascun ospite si erano rivelati proficui; qualche anno più tardi una versione particolare di quell’esercizio, con le cifre al posto dei nomi e cognomi, sarebbe stata commercializzata su larga scala con il nome di sudoku.
Unico neo il taglio della torta, avvenuto in privato per scattare foto migliori, e che aveva generato un po’ di rammarico in mia mamma: ma come già tagliata? Aveva esclamato vedendosi recapitare un piatto con una fetta e rendendosi conto di aver perso un momento a suo giudizio importante.
Dopo la cena i parenti più anziani ci avevano salutato ed erano rimasti solo i più giovani, nella sala interrata, a cantare e ballare insieme, fino a che il gestore del locale ci aveva caldeggiati verso l’uscita, aveva acceso le luci e iniziato a riassettare.
Così come durante il giorno non avevo avvertito il freddo né la fame, nonostante fossero ormai le due di notte non avvertivo né stanchezza né sonno.
La giornata solenne si era conclusa con il ritorno e l’ingresso a casa assieme allo sposo, che esaudiva il mio desiderio di farmi varcare la soglia tenendomi sollevata come si vede nei film.
Nella cultura odierna il matrimonio è indissolubile quanto il nescafè, sarebbe ipocrisia sostenere il contrario. In alcuni contesti questo è considerato un male e in altri un bene, non sta a me né è mia intenzione giudicarlo.
Nonostante questa premessa, rimane comunque indimenticabile una giornata dedicata a condividere con le persone più care la gioia e l’entusiasmo riposti in una promessa ufficiale di continuo sostentamento reciproco e di accettazione a vicenda delle diverse abitudini, nei giorni e negli anni a venire.
Per le persone che ho avuto vicine quel giorno, e che tuttora lo sono, sento che il fatto che sono qui a raccontare ciò che ricordo vale più delle bomboniere che non ho distribuito.