Mi piace *

Mi piace leggervi su fb; mi piace perché nel giro di pochi post posso essere in tutta Italia: sono al carnevale di Venezia, sono incolonnata in tangenziale a Milano, sono in attesa della metro a Roma, sono all’aperto sotto il sole di Palermo, e in qualche caso sono anche all’estero. Mi piace perché posso sentire tutte le parlate, tutti i dialetti.

Mi piace sentirmi in fila al catasto, in tribunale, alla fine di un turno ospedaliero, in riunione con un cliente rompiballe, al termine di un ricevimento scolastico dei genitori, in piscina ad insegnare ai ragazzi a nuotare.

Mi piace arrivare a risultati importanti nello sport e allo stesso tempo apprendere i rudimenti.

Mi piace ritrovarmi (nel punto di vista di) senza figli, o con un neonato, un adolescente, un figlio adulto lontano.

Mi piace essere in vacanza, essere al mare, essere in montagna, visitare una città d’arte.

Mi piace ubriacarmi con i vostri drink, partecipare alle vostre cene e serate danzanti.

Mi piace viaggiare con voi, per lavoro e per diletto.

Mi piace condividere la gioia della vicinanza dei vostri familiari.

Mi piace incazzarmi assieme a voi, sdegnarmi, gioire, informarmi, divertirmi, sorridere.

Mi piace.

(Questo post ha purtroppo perso un po’ di forza se riferito al contesto di fb per cui era stato scritto, ma ne aggiunge moltissima se considerato riferito ai blog, dove oltre alla realtà quotidiana potrei aggiungere i racconti di fantasia, le fotografie, le poesie, le proprie creazioni, le recensioni di libri, film, serie televisive, i racconti della propria infanzia… un altro post insomma).

Il gioco dell’oca della spesa (versione in prosa de ‘Al supermercato’)

1. Partenza: parcheggia la tua auto nel primo posto a disposizione, dopo aver maledetto tutti i portatori sani di Smart che ti hanno fatto credere che c’era un posto a pochi metri dall’ingresso e invece no.

2. Con la tua moneta da un euro procurati un carrello. Non hai la moneta? Salta un turno oppure ripiega su uno di quei cesti con le ruote.

5. Riponi nel tuo cestello quelle tre o quattro cose che avevi messo in lista.

7. Le cose della tua lista non trovano già più posto in quel cestino che sembrava così profondo? Appoggiale sul substrato di altri item extra che si sono aggiunti alla lista lungo il percorso. Oppure infilale sottobraccio: se ti cadono torna indietro di tre caselle a recuperarle.

9. Stai fermo un turno nella corsia dei giocattoli dove tuo figlio fa una sceneggiata per l’ultimo paw patrol che manca alla sua collezione.

12. Il banco degli affettati è molto affollato? Prendi il numerino e vai avanti di tre caselle.

18. Il contatore del banco degli affettati ha progredito in maniera repentina e il tuo bigliettino è carta straccia: torna indietro di cinque caselle.

20. Finalmente tocca a te per prendere quell’etto di prosciutto cotto, ma salta fuori la compagna delle medie della salumiera che con la scusa di salutare la sua amica si fa affettare mezzo porco: salta tre giri.

25. Alla casella numero 2 avevi l’euro (tiè) e ora spingi un carrello degno di tale nome, peccato per quel fastidioso disassamento delle ruote che lo fa andare come dietro la safety car, un po’ a destra e un po’ a sinistra. Perdi due giri.

28. Cerca il sale (o lo zucchero, o la carta igienica) che ogni volta gli cambiano di posto: torna indietro due caselle.

32. Fermati un po’ allo scaffale dei libri, a rimirare tutti i best sellers in bella mostra: perdi qualche minuto ma la cultura ti fa avanzare di tre caselle.

36. Individua una cassa per pagare: quando ormai tocca a te ti accorgi che la luce è spenta, quello davanti si ricorda che la cassiera aveva avvisato che era in chiusura. Torna indietro tre caselle.

38. Un’altra cassa libera: ma è quella rapida, max 20 articoli, tu ne hai 21. Salta un giro.

39. Prova la cassa automatica: la tua laurea in robotica applicata è desueta, salta un altro giro.

40. Annunciano l’apertura di cassa 2, ce l’hai proprio a fianco, avanza di quattro caselle.

44. Arrivi all’agognato nastro e il cliente precedente, che è stato più veloce di te a raggiungere cassa 2, piazza immediatamente il divisorio tra la sua spesa e la tua, come se la ritenesse radioattiva. Per precauzione salta un turno.

46. Arriva un cliente dietro di te e ti fa la faccina triste per impietosirti che lui ha solo due cose e vorrebbe tanto passarti davanti (una volta uno si è addirittura offeso perché non glielo ho proposto io per prima): guadagnati un pezzetto di paradiso, che non si sa mai, e torna indietro di tre caselle.

48. Hai sistemato l’olio in pole position, il nastro nero riparte di scatto e sbilancia l’equilibrio delle bottiglie: ora ti odiano tutti per quel laghetto di estratto di olive. Salta quattro giri.

50. Hai dimenticato le sporte in macchina: arrenditi alle bio borsette, paga 5€.

52. Nel tentativo di infilare tutto nelle sporte in velocità sudi anche se fuori ci sono 20• sotto zero: quando esci te ne accorgerai, avanza di 6 caselle e congelati.

57. Hai finalmente pagato e imbustato tutto.  Esci dal supermercato, finalmente! A mente sgombra ripensi che dovevi prendere il latte, essenzialmente, ma … non l’hai preso. Per stasera le bambine berranno coca cola. Casella neutra, scojonamento alle stelle.

60. Dove avrò parcheggiato? Sono sicura che era di fianco a una Smart. Gira il parcheggio con il tuo bastimento carico di spesa alla ricerca di un’auto che risponda al tuo telecomando. Rimani un giro fermo.

63. Finalmente ritrovi l’auto parcheggiata: apri il portellone posteriore per riporre le bio sporte che nella ricerca del mezzo si sono decomposte sotto la pioggia, e hai le dita tutte segnate dagli unici due manici che hanno resistito interi. Dove metterai gli acquisti adesso che il bagagliaio si rivela occupato per intero dal passeggino?

(Anche in versione poetica)

Di che colore è il lupo nero?

Dal diario di Sofia spunta un volantino azzurro che titola ‘Lettura di fiabe’. Oltre alla data, ora (un sabato mattina) e luogo dell’incontro (la biblioteca comunale) non emergono altri dettagli.
Alcuni anni fa avevano organizzato un ciclo di incontri in cui spiegavano come raccontare le fiabe ai bambini, e me ne era rimasta la curiosità.

All’epoca non ero riuscita a partecipare, ma le date proposte questa volta mi sono congeniali, così decido di prendere parte, anche perché si tratta di un’oretta, poco ci perdo.
In calce al volantino è scritto che la lettura è adatta ai bambini dell’ultimo anno della scuola materna e dei primi tre anni della scuola primaria, e di portare i colori, che gli animatori intratterranno i bambini.

Suppongo ‘mentre agli adulti si spiega come leggere la fiaba’.

Viola non rientra nel range di età e va al parco col suo papà; Sofia messa di fronte all’alternativa sceglie il parco, così vado da sola.

Mi trovo in mezzo ad un gruppetto di bambini con le loro mamme, e capisco che ho sbagliato a supporre, ma ormai sono lì…

Nella biblioteca comunale tre gentili signore, che per età potrebbero essere le nonne dei bambini, li fanno accomodare; una di loro rimane in piedi davanti ad un leggìo, le altre due si siedono a lato.
Io mi accomodo in ultimo banco assieme ad un’altra mamma che conosco bene.
La tizia dal leggìo inizia proclamando il titolo della fiaba

IL LUPO CHE VOLEVA CAMBIARE COLORE
“C’era una volta un lupo nero che era stanco di essere nero…”.

I bambini ascoltano in silenzio.
Da dietro una lavagna in fondo alla stanza sbuca un uomo, che poteva essere per età il loro nonno; è vestito tutto di nero, con un vestito attillato che mi ricorda molto le tutine di Zelig, la trasmissione di cabaret di qualche anno fa. 

Alla vista di questa figura inaspettata i bambini sussultano.

La barba e i capelli canuti risaltano sugli abiti che indossa, e forse per dissimulare il contrasto e ricreare il dress code ‘total black’, in testa porta un cerchietto con due orecchie, nere ovviamente.

Il cerchietto è di una misura troppo piccola e gli continua a cadere: mi sa che i cerchietti non vengono prodotti per i nonni lupo, solo per i travestimenti carnevaleschi dei bambini.

Lui cerca continuamente di recuperarlo, perdendo ogni volta un po’ di quell’aura da lupo-nero-e-cattivo.

La narratrice prosegue:

“…. così decide di provare a cambiare colore. Il lunedì intinge una zampa nel secchio di vernice verde e si dipinge tutto di questo colore. Poi si guarda allo specchio …”

Il lupo prende la parola e, fingendo di specchiarsi in un foglio A4 in cui sono scritte le sue battute, con perfetto fare teatrale declama:

“OH no…. sembro una rana gigantesca… Non va per niente bene!”.
Le due ‘vallette’ (quelle che erano rimaste sedute a lato) gli porgono un foglio da appendersi al collo con una macchia di colore verde.
La narratrice prosegue:

“Il martedì si infila un vestito rosso; si guarda allo specchio e dice”
Di nuovo il lupo:

“OH no… così sembro Babbo Natale… e a me non piace nemmeno Babbo Natale… Non va per niente bene!”

Altra medaglia da appendere al collo.
La narratrice prosegue con gli altri giorni della settimana: il mercoledì si copre di petali di rosa che lo fanno sembrare una principessa e

“Non va per niente bene”
Il giovedì fa un bagno freddo e diventa tutto blu; il venerdì si copre di scorze di arancia e assomiglia ad una carota, o da vicino anche ad una volpe.

E non va per niente bene!
Il sabato si ruzzola nel fango e non assomiglia a nessuno, però è tutto puzzolente ed ha anche prurito al corpo.

Alla parola puzzolente i bambini che erano sempre rimasti attenti e in silenzio si mettono a ridere, mantenendo la concentrazione.

Ad ogni colore un nuovo promemoria si aggiunge al collo del lupo.
La domenica il lupo si mette le penne del pavone ed esclama:

“Oh guarda … finalmente…come sono bello!!!” e inizia a pavoneggiarsi.
“Questa volta si che va bene!!!”

Le due vallette, che erano rimaste sedute fino a quel momento, tranne che per la consegna delle medaglie-colore, si alzano e iniziano ad adulare il lupo, carezzandolo dalla spalla lungo la schiena, coprendolo di moine, girandogli attorno.

Questa volta siamo io e l’altra mamma che ridiamo genuinamente.
Il lupo si spazientisce e caccia le pretendenti “No no no… non va per niente bene!”.
Si toglie tutti i cartelli appesi al collo con i vari colori che ha indossato, procedendo in ordine LI-FO (last in – first out).
Quando ritorna ad essere nero esclama:

“Nero! è così che mi piace essere… Nero”.
La storia è terminata e la narratrice la riassume, mostrando le illustrazioni del libro ai bambini, senza fare alcuna considerazione sulla morale.

Poi inizia a porre loro alcune domande, su quale fosse il colore che secondo loro era più adatto al lupo, in che veste lo preferivano.
Una bambina con la voce che sembrava una posata che rintocca su un bicchiere di cristallo interviene:

“Rosa, a me piaceva il rosa”.
Allora l’animatrice le chiede:

“Ma tu… hai paura del lupo?”

“Eh si” risponde la bambina
“Ma lo hai mai visto?”

“Eh… nella foresta” risponde quella un po’ bluffando.

“Ma – aggiunge subito – questo non è un lupo…. E’ un signore!”

Parole di Vicenza (e dintorni): cagnarse

Cagnarse significa litigare; ma è un litigio quasi ferino, tipico di due cani che abbaiano l’uno contro l’altro, magari si azzuffano un po’.

È un acceso scambio di opinioni, uno sbatter di porte, un tenersi il muso per futili motivi.

Così ‘piantare ‘na cagna’ non significa abbandonare un Labrador femmina, ma inscenare un battibecco, suscitando alzate di voce da entrambi i contendenti.

Cagnarsi è appunto l’equivalente di battibecco, tra cani (o tra cane e gatto) anziché tra volatili; è lo scornarsi degli arieti ma con il sonoro.

Cagnare, in forma non riflessiva, significa rigurgitare, rimettere, vomitare e credo sia da attribuire al livore di ciò che si dice ‘cagnandosi’; da qui ‘i cagnetti’, che contraddistinguono oltre che i cagnolini anche i secreti emetici.

Il cagnon invece è il tipico odore del cane, magari dopo una pioggia.

Al supermercato 

Quando vado a far la spesa

ogni volta è una sorpresa:

presto arrivo nel parcheggio

cerco l’euro e … oooh!!! dileggio

non ho i soldi pel carrello!

poco importa prendo quello

è così che afferro un cesto

poca roba, faccio presto!

poca roba occupa spazio

giocoliera pago dazio

fino in cassa mi sospingo

e il cliente avanti guardingo

pone il varco tra il prosciutto

e quel mio scomposto mucchio;

quello dietro a me soltanto

quattro cose ha, e chiede franco

se gli cedo il turno mio

lui fa presto grazie a dio!

pago tutto in furia e fretta

mentre la commessa aspetta

che mi arrenda alla mancanza

delle sporte: dimenticanza!

Anche se è pieno inverno 

Sempre è caldo come inferno
Esco tutta trafelata

Sempre madida e sudata;

torno fuori nel parcheggio

e in un attimo, il peggio:

mi ricordo cosa manca

alla lista mia! Ma stanca

mi ripeto ‘non importa’ 

prenderò un’altra volta.

La vettura mia non trovo 

Sembra sempre un posto nuovo! 
(Seguirá versione ‘in prosa’)

In nomen omen

Ho un ottimo rapporto con il mio nome di battesimo: mi è sempre piaciuto e non ho mai pensato di volerne uno diverso, contrariamente al cognome che invece trovo insulso.

I miei genitori lo avevano scelto in virtù della scarsa attitudine ad essere abbreviato; nonostante ció mio papà per primo mi chiamava Lela, e le amiche non si sono mai astenute dal chiamarmi Ely o Ele.

Elena deriva da Helios, Sole, e significa ‘La splendente’; inoltre Elena era, nella mitologia greca, la donna più bella del mondo. Appare evidente che per una bambina sono motivi sufficienti per essere fiera del nome che porta. Non so se sono splendente di fatto, ma mi piace pensare di esserlo almeno di nome.

Non ho sofferto molto per la diffusione del mio nome, tra i più gettonati negli anni in cui sono nata io, anche se spesso mi sono ritrovata in mezzo ad una nutrita schiera di omonime: nella mia solida autostima Elena ero io, le altre doppioni.

All’età di 14 anni ho conosciuto tale Mila. Per l’esattezza non l’ho proprio conosciuta: non ci ho mai parlato. Ma la osservavo ed era bellissima: aveva un fisico statuario e un seno prosperoso e sodo. In quel periodo avevo deciso che, qualora avessi avuto una figlia femmina, si sarebbe chiamata così.

Ovviamente non avevo fatto i conti con l’oste, cioè il padre di questa bimba che diversi anni più tardi è effettivamente arrivata.

Tra le alternative avevo proposto Berenice, scartato perché troppo lungo, oltre che proprio non piaceva; o Livia, Olivia, Siria… nomi che garantissero insomma quel minimo di ricercatezza e unicità, da non girarsi in quattro ogni volta che si viene chiamate.

Niente, tutti bocciati.

Sofia? Non conoscevo nessuna con questo nome, lo credevo poco diffuso, inoltre mi pareva di buon auspicio (Sofìa è sinonimo di sapere, conoscenza), era breve al bisogno e soprattutto ha passato il vaglio di padre e nonni.

Sofia è stata la risposta definitiva, ma ad originalità anche peggio di Elena.

Qualche anno più tardi l’arrivo di un’altra femmina ha allietato la nostra famiglia; ormai avevo accantonato le velleità di Mila, Livia, Olivia, Siria. Ci ho riprovato con Berenice così tanto per non darmi per vinta. Ho bocciato Anna in prima linea (non me ne vogliano le Anna), un po’ per alcuni elementi fastidiosi che conoscevo che rispondevano a questo nome e un po’ per affermare anche il mio diritto di veto.

Così non se ne veniva fuori: abbiamo quindi interpellato Sofia, chiedendo come avrebbe voluto chiamare la sorellina.

La prima risposta è stata Shakira, che se Berenice vi aveva fatto sorridere ora sganasciate pure.

Poi Sofia ha estratto dal cilindro Viola, nome di una compagna dell’asilo.

Viola non ha avuto rivali ed è stata subito approvata, un plebiscito di SI.

Qualche mese dopo la scelta, ma ancora prima che Viola nascesse, avevo avuto l’illuminazione che poteva essere anche Azzurra. Però ormai alea iacta erat.

Viola è un fiore, è uno strumento musicale ma soprattutto è un colore. Tutto ciò che è di colore viola, ora, ‘appartiene’ a Viola: viola di Viola è il suo motto.

‘Oggi voj mettere la maglia viola’ comanda dall’alto dei suoi 90 cm; alla domanda ‘a che gusto vuoi il gelato Viola?’ risponde ‘viola’.

Viola ha gli occhi azzurri, di un azzurro intenso che non passa inosservato. Capita spesso che degli sconosciuti si fermino ad ammirare ‘che begli occhi ha questa bambina’.

Ogni scarrafone si sa come funziona, ma statisticamente, dato il numero e la frequenza degli apprezzamenti, posso anche riportarlo come dato di fatto.

Però non sarei mai arrivata a pensare che 

“Signora… ma che occhi celesti incredibili ha sua figlia… l’ha chiamata Celeste vero?”

Ho dovuto giustificarmi adducendo il preteso che non lo potevo sapere prima che nascesse!

WordPress for dummies

Un anno fa aprivo questo blog. Già da diverso tempo pubblicavo cose scritte di mio pugno (tastiera) sulla bacheca di facebook, ma volevo uno strumento che mi consentisse di mantenere in ordine la mia produzione e una visibilità maggiore.

Mi sento di affermare che ‘credevo fosse più facile’, su tutti i fronti.

Nello specifico una delle criticità è stato l’uso di wp stesso; per questo scrivo qui, ad uso e consumo di chi può avere interesse, alcune cose che ho imparato cammin facendo. Le avessi trovate io…!

Premessa doverosa è che io uso wp principalmente da mobile (smartphone o tablet).

WP è un raccoglitore di articoli.

  • Gli articoli si possono salvare in bozza e pubblicare in un secondo momento. Se non specificate ‘In questo momento’ all’atto della pubblicazione, ma fate semplicemente ‘Pubblica’, Wp li proporrà nella timeline al momento del primo salvataggio, nel mio caso a volte anche mesi prima. Inutile dire che in questo modo non li leggerà nessuno.
  • Un consiglio: salvate spesso ma non troppo. Mi è capitato di aggiornare e tornare dentro il pezzo senza ritrovare le mie modifiche. Se vi mettete a scrivere e aggiornate nuovamente … perderete tutto quanto scritto prima. Gli ci vuole un po’. Al contrario mi è successo di esaurire la batteria senza aver salvato e una volta ripristinato il livello di batteria ritrovare tutto.
  • Le statistiche: non aprite quella porta! Le statistiche sono un generatore di ansia da prestazione.
  • Potete avere anche scritto l’incipit dei promessi sposi ma se non avete seguaci difficilmente qualcuno vi leggerà: per avere interazione ci sono due strade, che vanno in parallelo. La prima è usare i tag, in modo da essere inseriti in gruppi di articoli simili al vostro; la seconda è commentare gli altrui post, e iniziare così dei reciproci scambi di opinioni.
  • È possibile impostare automaticamente la condivisione su altri social, ma il risultato è deludente, spesso si perdono le fotografie: meglio pubblicare da zero su ciascuno, se si desidera maggiore visibilità.
  • A volte wp dà forfait: sul più bello si chiude; quando rientri si avvicina come per chiedere scusa e ti propone di fare pace inviando un crash report.
  • Il profilo WordPress ha una modalità di accesso di tipo admin (basta aggiungere /admin in coda all’url del profilo), disponibile da browser e non da app; in questa sezione si possono configurare alcune funzionalità, gestire lo spam, visualizzare l’elenco completo dei follower.
  • Questa è la chicca migliore, quando l’ho scoperta mi sono gongolata per tre giorni: si possono seguire anche siti che non stanno sotto WordPress, basta andare su Lettore -> Followed sites  -> Gestisci e scrivere l’Url del sito da seguire.

Probabilmente ho elencato un mucchio di cose ovvie, ma molte altre, altrettanto ovvie, per me sono ancora dei misteri.

Carpe Diem in tutte le lingue del mondo

Un anno fa esatto aprivo il blog, vorrei ripostare uno dei miei primi articoli, a cui sono parecchio affezionata.

Pensieri in patchwork

Ho trascorso la giornata in polling.Mi sono messa in modalità ‘ascolto attento’ e sapevo che prima o poi sarebbe arrivata, che prima o poi alla radio sarebbe passato ‘Kiss’.

Tra ufficio e spostamenti in auto trascorro parecchie ore al giorno ascoltando la radio, doveva capitare, questione di statistica.

Ho beccato Purple Rain su radio Dj lungo il tragitto di andata; poi in ufficio i comandi passano al mio collega, che sta sempre attaccato a radio Padova.

E niente, quelli di radio Padova avevano le idee un po’ confuse, perché hanno passato Stevie Wonder, Michael Jackson e Terence Trent d’Arby. Ma Prince no.

Però avevano passato Purple Rain prima che arrivassi, e nel pomeriggio a forza di attendere mi si è collegato il riproduttore mentale interno e ho iniziato a canticchiare ‘Alphabet street’.

A me Purple Rain è quella che piace meno.

Una volta uscita dal lavoro ho ripreso lo zapping…

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Top of the pop *

Lo scorso anno, oggi, pubblicavo questo post fuori dal blog, che poi mi sono decisa ad aprire.

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Riccione, 26 giugno 2009

Mi sveglio di soprassalto nella stanza dell’albergo in cui alloggio, in occasione dei campionati italiani master di nuoto: dalla stanza accanto alla mia alle ore 7 spaccate proviene il jingle della sigla del Tg, che apre con la notizia della scomparsa di Michael Jackson.
Nello stesso periodo la città è popolata di anziani in villeggiatura, e la mia compagna di stanza immagina una vecchietta che soffre d’insonnia (e anche un po’ di sordità) intenta ad ascoltare le prime notizie del mattino a tutto volume; visibilmente contrariata da quella sveglia così poco zen, inizia a picchiare i pugni sul muro intimando un po’ di silenzio.
Anche io avrei volentieri dormito altri 10 minuti, ma comunque mi sarei dovuta alzare.

Di lì a poche ore avrei disputato i migliori 100 stile della mia carriera da master, forse anche per questo ricordo così bene quel giorno.
Per tutta la mattina però, e poi per alcuni mesi sporadicamente, ho continuato a pensare a quell’uomo, alla sua esistenza bizzarra: dalla provenienza da una famiglia numerosa, al gruppo canoro coi fratelli, al suo cambiamento di colore della pelle, al suo regno incantato Neverland, alle accuse di pedofilia.

E alla sua prematura scomparsa.
Billy Jean, Beat it, Bad, Thriller hanno ripetuto le radio per mesi e mesi.

Con Beat it ritornavo al saggio di aerobica, con Bad agli ultimi anni del liceo, con Thriller ai passetti all’indietro (il moonwalker) riprovati in discoteca.
Quando scompare un cantante dobbiamo aspettarci un periodo più o meno lungo di full immersion nei suoi brani più famosi (lunga vita ad Alessandra Amoroso).
Poi ci sono anche dei ritorni inspiegabili di cantanti che per qualche misteriosa coincidenza, pur non avendo pubblicato nulla di recente, si sentono piuttosto spesso. Mi è capitato con i Bronski beat prima, con Claudio Baglioni poi.
Sulle prime mi preoccupo quando risento una canzone di qualche anno addietro.

Poi mi ci sono assuefatta.

Lo scorso mese pareva pieno di ‘ganci in mezzo al cielo’ e tutte le notti erano quelle ‘blu dei benzinai’.
Questa settimana imperversa la colonna sonora di Grease, e quel ‘Yes I’m sure down deep inside’ era ormai diventato il mio mantra.
Fino a che stasera risalgo in auto e sento ‘is it silly no? When a rocket ship explodes and everybody still wants to fly’…. Inizio a cantare a squarciagola ‘Siiiign of the Times’ incurante delle proteste di Sofia che, arrivate a casa ormai rassegnata, canticchiava anche lei lo stesso brano.
Ci sono canzoni che si legano a un evento, a un periodo particolare. Altre invece sono trasversali, eclettiche, multi occasionali.
“You don’t have to be beautiful to turn me on” è senza tempo e sfocia inevitabilmente nel più falsetto dei falsetti in taratarataratà … KISS.
Ma da qui ad immaginare, cosa scoperta alcune ore più tardi, che anche Prince se ne fosse andato, no, non ci arrivavo.
Due cantanti accomunati da molti fattori (l’anno di nascita, il colore della pelle, il genere musicale) e sempre presentati come antagonisti, anche nel modo di andarsene (o meglio nel modo in cui io ho scoperto che se ne sono andati) hanno fatto la differenza.
Una differenza che riflette un po’ quello che è stato il loro modo di essere: chiassoso e appariscente il primo, elegante e discreto il secondo.
Ciao Prince

Nessuno si salva da solo

Ho completato la lettura di questo libro di Margaret Mazzantini, che racconta una separazione.

Procedo a scrivere come un elefante in una cristalleria perché su questo tema, quanto mai attuale e sentito, ho conoscenze solo per interposta persona, più o meno da vicino, ma non direttamente, sempre ‘dietro al finestrino’.

Delia e Gaetano, fino a uno ieri non troppo remoto, erano marito e moglie.

Ora si sono divisi ma si incontrano per scambiarsi alcune consegne: hanno due figli, Cosmo e Nicola, e devono organizzarsi per gestirli; lo fanno una sera al ristorante.

Il libro si incentra lì: se fosse un film si svolgerebbe in un’unica scena, più un numero imprecisato di flashback e flashforward.

(Ho scoperto dopo aver scritto il pezzo, ricercando un’immagine, che il film è stato già prodotto).

L’io narrante rimbalza tra Delia e Gaetano, ripetendo anche le stesse situazioni da due punti di vista differenti. Non c’è ordine cronologico nel flusso dei pensieri dei due. Ricordi personali di infanzia si intrecciano con quelli freschi del giorno precedente, racconti di vita familiare dell’uno sorvolano i dettagli della vita lavorativa dell’altro. Emergono in questo quadro anche le figure dei rispettivi genitori e delle loro personalità.

Lo stile è semplice, asciutto: frasi brevi a volte prive del predicato, solo soggetto e complemento, come piace a me.

La terminologia è concreta, talora triviale: fica, scopare, sborare vengono buttati in mezzo alla frase, senza circonlocuzioni complesse, ma senza scadere nella volgarità, anzi il discorso si mantiene ad un livello superiore, non c’è un fabiovolizzamento della storia.

In alcuni punti rileggo un po’ quegli incontri carnali e istintivi di Timoteo ed Italia, protagonisti di ‘Non ti muovere’.

Diversamente dal classico approccio al tema della separazione, dove l’io narrante usa sedersi dalla parte della ragione e definire l’altro un mostro, in questo racconto non esiste un punto di vista preferenziale, non è Delia a sfogarsi o Gaetano ad accusare la ex moglie.

Sembra quasi che tra loro, o almeno da parte di uno dei due, esista ancora un briciolo di legame, soffocato da sentimenti negativi prevaricatori. Non c’è una vittima o un carnefice, ciascuno viene presentato con la sua quota di responsabilità.

Nella seconda metà del libro si leggono i fatti che sono avvenuti in concomitanza della separazione, ma non c’è un chiaro nesso di causa-effetto.

Come un pittore impressionista l’autrice picchetta la tela, in questo caso le pagine, con piccole macchioline di vita vissuta o di ambizioni e aspettative che nell’assieme danno vita al quadro.

E io, per esprimere il giudizio complessivo, sento la necessità di allontanarmi dal quadro ed osservare più a distanza l’insieme.