Giada Sundas ha poco più di 20 anni quando scopre di essere in dolce attesa.
Da qui parte il suo racconto, che è quello di una gravidanza e dei primi anni di vita di sua figlia Mya, gioie e dolori.
Il mio approccio a questa lettura è andato a braccetto con lo scetticismo: Matteo Bussola che presenta Giada Sundas per me è un testimonial indigesto.
Forse alcuni ricordano quanto avessi apprezzato il suo Notti in bianco, baci a colazione, ma una cosa è il libro, altro è il personaggio.
Ma torniamo alla Sundas: la curiosità per la blogger che scrive un libro ha avuto la meglio.
Già dalle prime pagine però ho storto il naso: come descrive lo stato d’animo e le mutazioni a cui è soggetta una donna in gravidanza è esagerato.
E tutto, da pagina 1 in avanti, è eccessivo, ingigantito, sia pure in chiave ironica.
Se io avessi letto certi pensieri e certi resoconti prima di avere le mie figlie mi sarei spaventata, che più o meno è l’effetto che sortivano tutti i racconti delle altre donne già mamme.
C’è questa perversione latente nell’intimorire la nullipara con frasi che iniziano per ‘vedrai / capirai’ che trovo irritante, da sempre e tuttora.
Però Mya è nata esattamente lo stesso giorno in cui è nata Viola, stesso anno. In più la Sundas racconta che fino all’ultimo avrebbe dovuto affrontare un cesareo, per presentazione podalica, come a me è successo con Sofia.
Due piccioni con una fava, all’autrice è andata dritta perché non potevo non leggere: ad ogni pagina mi ritrovavo io, non fosse che per l’epoca dell’esame che racconta in quella pagina.
Come dicevo è tutto enormemente gonfiato: forse sono stata terribilmente fortunata io che, tranne che per gli ultimi giorni, non ho avvertito grosse differenze tra l’essere incinta e il non esserlo; o forse la Sundas racconta le gravidanze di mille donne diverse, sommando nella sua storia unica tutte le varie difficoltà che ciascuna può avere incontrato.
Ci riproduciamo nello stesso modo da millenni, e vale per tutte le donne: non è eroismo, è la natura che ci vuole così e ci mette addosso la forza per superare dei momenti che hanno dell’incredibile; io personalmente ho vissuto il momento della nascita, quella di Viola in particolare, come i miei personali 10 minuti di onnipotenza.
Però qua e là, ogni tot di pagine, mi ritrovavo in pieno, e ridevo, ridevo di gusto.
Non ho sofferto di nausee, di sbalzi d’umore, di attacchi di fame; non mi sono espansa a dismisura. Non ho rinunciato alla cura della mia persona, né ad un minimo di ordine in casa dopo le nascite.
Però mi sono ritrovata a piangere immotivatamente anche io (alla cassa del supermercato sgridata dal cassiere per come avevo disposto la spesa); mi sono ritrovata a trascorrere diverse notti insonni anche io. E convengo anche sulla constatazione che si passano i giorni ad agognare un certo traguardo (la pappa, le parole, lo spannolinamento) per poi rendersi conto che la difficoltá per certi aspetti aumenta.
Ad un certo punto una frase chiave: la Sundas si rende conto che dalla nascita di Mya non è più uscita. Una sera accetta la proposta di un’amica e lascia la piccola al padre, che è genitore al 50%.
Sembra una cosa ovvia ma non lo è: sono in molte, per quel che vedo, a ritenersi titolari del 100% dei diritti e dei doveri. E che si vittimizzano per questo. Forse sottovalutano le capacità del padre, o forse lo hanno sopravvalutato prima che lo diventasse.
Racconta anche che la sera stessa dell’uscita con l’amica, quando è tornata a casa, ha trovato Mya che camminava, e se sulle prime si rammarica di aver perso i suoi primi passi, subito si rasserena perché realizza che i primi passi non sono più importanti di tutti i successivi.
Arriva ad affermare che essere genitori diventa una missione un po’ più semplice quando si smette di perseguire un certo modello di perfezione.
In sintesi una lettura leggera, un racconto ironico, a tratti forzato ma che riserva degli interessanti spunti di riflessione.