Le mamme ribelli non hanno paura

Giada Sundas ha poco più di 20 anni quando scopre di essere in dolce attesa.

Da qui parte il suo racconto, che è quello di una gravidanza e dei primi anni di vita di sua figlia Mya, gioie e dolori.

Il mio approccio a questa lettura è andato a braccetto con lo scetticismo: Matteo Bussola che presenta Giada Sundas per me è un testimonial indigesto.

Forse alcuni ricordano quanto avessi apprezzato il suo Notti in bianco, baci a colazione, ma una cosa è il libro, altro è il personaggio.

Ma torniamo alla Sundas: la curiosità per la blogger che scrive un libro ha avuto la meglio.

Già dalle prime pagine però ho storto il naso: come descrive lo stato d’animo e le mutazioni a cui è soggetta una donna in gravidanza è esagerato.

E tutto, da pagina 1 in avanti, è eccessivo, ingigantito, sia pure in chiave ironica.

Se io avessi letto certi pensieri e certi resoconti prima di avere le mie figlie mi sarei spaventata, che più o meno è l’effetto che sortivano tutti i racconti delle altre donne già mamme.

C’è questa perversione latente nell’intimorire la nullipara con frasi che iniziano per ‘vedrai / capirai’ che trovo irritante, da sempre e tuttora.

Però Mya è nata esattamente lo stesso giorno in cui è nata Viola, stesso anno. In più la Sundas racconta che fino all’ultimo avrebbe dovuto affrontare un cesareo, per presentazione podalica, come a me è successo con Sofia.

Due piccioni con una fava, all’autrice è andata dritta perché non potevo non leggere: ad ogni pagina mi ritrovavo io, non fosse che per l’epoca dell’esame che racconta in quella pagina.

Come dicevo è tutto enormemente gonfiato: forse sono stata terribilmente fortunata io che, tranne che per gli ultimi giorni, non ho avvertito grosse differenze tra l’essere incinta e il non esserlo; o forse la Sundas racconta le gravidanze di mille donne diverse, sommando nella sua storia unica tutte le varie difficoltà che ciascuna può avere incontrato.

Ci riproduciamo nello stesso modo da millenni, e vale per tutte le donne: non è eroismo, è la natura che ci vuole così e ci mette addosso la forza per superare dei momenti che hanno dell’incredibile; io personalmente ho vissuto il momento della nascita, quella di Viola in particolare, come i miei personali 10 minuti di onnipotenza.

Però qua e là, ogni tot di pagine, mi ritrovavo in pieno, e ridevo, ridevo di gusto.

Non ho sofferto di nausee, di sbalzi d’umore, di attacchi di fame; non mi sono espansa a dismisura. Non ho rinunciato alla cura della mia persona, né ad un minimo di ordine in casa dopo le nascite.

Però mi sono ritrovata a piangere immotivatamente anche io (alla cassa del supermercato sgridata dal cassiere per come avevo disposto la spesa); mi sono ritrovata a trascorrere diverse notti insonni anche io. E convengo anche sulla constatazione che si passano i giorni ad agognare un certo traguardo (la pappa, le parole, lo spannolinamento) per poi rendersi conto che la difficoltá per certi aspetti aumenta.

Ad un certo punto una frase chiave: la Sundas si rende conto che dalla nascita di Mya non è più uscita. Una sera accetta la proposta di un’amica e lascia la piccola al padre, che è genitore al 50%.

Sembra una cosa ovvia ma non lo è: sono in molte, per quel che vedo, a ritenersi titolari del 100% dei diritti e dei doveri. E che si vittimizzano per questo. Forse sottovalutano le capacità del padre, o forse lo hanno sopravvalutato prima che lo diventasse.

Racconta anche che la sera stessa dell’uscita con l’amica, quando è tornata a casa, ha trovato Mya che camminava, e se sulle prime si rammarica di aver perso i suoi primi passi, subito si rasserena perché realizza che i primi passi non sono più importanti di tutti i successivi.

Arriva ad affermare che essere genitori diventa una missione un po’ più semplice quando si smette di perseguire un certo modello di perfezione.

In sintesi una lettura leggera, un racconto ironico, a tratti forzato ma che riserva degli interessanti spunti di riflessione.

Despacito

Domenica pomeriggio di sole, il mio gene da lucertola fà la voce grossa, mi piazzo sulla sdraio in terrazzo in bikini, cuffiette nelle orecchie, mp3 a palla, occhiali da sole e Kindle in una mano.
Viola dorme, il resto della famiglia sfrutta il divano, io preferisco crogiolarmi all’aperto, al caldo.
Dopo alcuni capitoli di lettura l’orario post prandiale mi concilia il sonno, la mano posa il lettore di epub, gli occhi si chiudono, la mente fluttua tra i pensieri fino ad appoggiarsi su uno di questi, come una farfalla su un fiore: saranno uscite le start list dei campionati italiani master di nuoto, le griglie di partenza? 
Al solo pensiero mi si accelera il battito.

Solo con pensarlo se acelera el pulso.

Silenzio tra una traccia e l’altra, mi figuro sul blocco di partenza, un istante prima dello start, stessa assenza di rumori.

Casualità vuole che la traccia successiva 

Schitarrata

Parte 

O-Yeah… Fonsi… Dirin dirin dirin din din

Alzo il volume in cuffia! 

Conosco gente che ha fretta di essere vecchia, già a 30 anni si atteggia come se avesse raggiunto l’età della pensione.
Disprezzano ‘i giovani’, criticano aprioristicamente tutto ciò che contraddistingue le generazioni successive. 

Muestrame el camino que yo voy

Io credo di soffrire del disturbo opposto, mi sento costretta dalle circostanze a comportarmi da adulta.
Tu, Tu eres el iman yo soy el metal

Viola, quando guardiamo YouTube sulla smartTV, riconosce il video di questa canzone, chiama quello con gli occhiali ‘il mio papà’.

Ho provato a spiegarle che non è lui ma niente da fare. Poi fa anche la sospettosa perché quando compare la donna chiede ‘e lei? Chi è?’; nemmeno per scherzo dice che potrei essere io.
Ogni volta che provo a seguire il testo della canzone e canticchiarlo Viola mi blocca ‘noooo mama, tu non cantare’; finalmente sono da sola ma non ho il testo, ne ricordo solo qualche strofa, però posso cantare e anche sbagliare tanto chi mi sente?

DE – SPA – CI – TO

Le mani mi partono simulando delle onde ritmicamente, tanto sono in terrazza e nessuno mi vede, posso ballare sommessamente no?
Il volume è alto in cuffia, non sento i rumori esterni, ma la sensazione di essere osservata mi spinge ad aprire gli occhi: da una station wagon blu elettrico che fa manovra scende una specie di dea, un terzo dei miei anni e metà dei miei chili, si attacca al muretto dove sono i campanelli.
Appoggia la mano sopra la soglia di marmo e osservo, da dietro i miei occhiali scuri, le sue unghie perfette laccate di nero; da un abitino estivo trapela un reggiseno coordinato. A ben guardare tutto è coordinato: unghie, abito, biancheria, capelli, occhiali da sole. 
Ha l’aria di chi si sente brutto anatroccolo, le manca la scoperta di essere cigno.
Mentre cerca il campanello si accorge di me (ma giuro che stavo cantando solo mentalmente) e mi osserva.

… quiero desnudarte a besos despacito…

Insomma, ormai mi ha vista, inutile che adesso mi finga morta, continuo il mio balletto fatto di mani a serpentello, tanto entrerà no? Le apriranno e lei percorrerà il vialetto lasciandosi la vecchia pazza alle spalle

… que le insegnes a mi boca tus lugares favorito…


Sube sube!



Invece ho sbagliato tutte le mie supposizioni: lei rimane ferma, facendo malamente finta di niente, impaziente che le venga aperto il cancello; fino a che dall’appartamento a fianco esce la sua amica

Sabes che tu corazon conmigo haces BAM BAM

(E sul BAM BAM le mani passano dal serpentello al batticuore)
che percorre tutto il vialetto 
Pasito pasito Suave suavecito
indecisa se sia opportuno salutarmi, rivelando di avermi vista o meno, e comunque cercando di mantenersi seria.
Risalgono entrambe sulla station wagon lasciandomi sulla strofa finale

hasta que las olas griten ‘Ay Bendito’

(In un’intervista alla radio Luis Fonsi spiegava in un italiano spagnoleggiante che Ay Bendito equivale alla locuzione italiana ‘Mamma mia’ e cantava a cappella questa strofa finale)

lasciandomi dicevo su questa strofa con la certezza di aver regalato a due ragazze qualche minuto di ilarità per quella strana vecchia sul terrazzo della casa a fianco.

Qualcosa

Dovevo aspettarmelo da una che scrive a 4 mani con Gramellini, ma volevo proprio vedere (se come dice il droghiere…).
Si tratta di un libercolo di un centinaio di pagine, letto nel tempo di una seduta dal parrucchiere per il restauro periodico.
La principessa ‘Qualcosa di troppo’ è una tipa sopra le righe: non come tutti i ragazzini Abbastanza, non c’è nulla di mediocre nella sua vita.
Ogni cosa che fa deve essere ‘di più’.
Quando arriva per lei l’età del matrimonio suo padre le presenta 5 pretendenti:
qualcosa di più / di speciale / di blu / di giusto / di buffo.
Con ciascuno di questi le cose partono ‘alla grande’, lei sente una forte vibrazione nella pancia che ritiene inequivocabilmente amore; ma nel giro di breve tempo la misura viene colmata, lei si stanca e chiama a gran voce il cavalier Niente.
Ad un certo punto sembra anche di aver trovato un equilibrio, accettando di condividere le sue giornate su smorfialibro, come fanno i ragazzini abbastanza, standosene rinchiusa in casa ed esponendo su un lenzuolo bianco steso fuori dalla finestra un disegno e alcune parole che descrivano il suo stato d’animo.
Con il cavalier Niente, Qualcosa di troppo condivide il suo tempo migliore.
Il cavalier Niente riesce a farle accettare madama Noia.
Il Cavalier Niente le fa comprendere la differenza tra il vuoto che ha sentito dopo la perdita della mamma e il vuoto che crede continuamente di dover colmare.
Quando Qualcosa di troppo riesce a gestire il suo tempo vuoto, a non voler per forza riempire tutto con qualcosa da fare, ad essere come una bottiglia, capace di rimanere vuota per rendersi disponibile ad essere riempita solamente quando serve, finalmente diventa Qualcosa e trova il compagno con cui sta bene.
Come lettura adolescenziale può anche essere valida, ma mi è apparso abbastanza come un trattato di filosofia spiccia: questo denigrare l’uso dei social implica, secondo me, un uso distorto degli stessi.
Se è comunque vero che è l’uso che ne fa la maggior parte della gente, chi ne coglie il meccanismo è perché ne è parte a tutti gli effetti.

Martina

In tempi di social network conoscere una persona solo per nome vuol dire non conoscerla. E io infatti non la conosco. O si?

Ai tempi in cui insegnavo lei frequentava i corsi di nuoto presso la struttura in cui lavoravo. La vedevo così superba, così altera e non provavo alcuna simpatia, onestamente.

Anni più tardi e qualche km più in là ci siamo ritrovate, entrambe utenti, lei per l’acquagym e io per i master.

Quando io arrivavo lei usciva, era un incrocio di doccia, più che una conoscenza.

Bella è sempre stata bella: le gambe lunghe e snelle, il busto compatto, lunghi capelli biondi e occhi castani; e poi quel difetto della pelle che metteva in risalto i suoi punti di forza, come una modella di Desigual.

Correva l’anno 2008, ottobre. La diagnosi per mia mamma era già entrata a regime, e sembrava quasi troppo pessimistica per lo stato reale delle cose. Quella di mio papà invece era fresca di referto. All’indomani avevamo preso appuntamento con un luminare in materia, che avrebbe dovuto salvarlo e invece ci ha trattate, a noi accompagnatrici, come tre scolarette inadempienti, per non aver conservato i precedenti referti in ordine cronologico. Alla modica cifra di 200€.

Ma questo sarebbe accaduto il sabato mattina. Quel venerdì sera ho fatto una deviazione prima di andare ad allenamento per passare a trovare i miei. E trovarli arrabbiati.

Ogni tanto adesso mi ritrovo a fare da paciere tra Viola e Sofia per motivi futili; quella sera ho dovuto fare altrettanto con loro due che si stavano accapigliando per un’analisi del sangue da portare o non portare al professorone.

Mia mamma piangeva a singhiozzi, mio papà non piangeva ma il suo sconforto era ancor più palpabile.

La devi portare, può essere importante.

Il paziente sono io e decido io: questa è vecchia di anni e non serve a niente.

Muro contro muro, come se fosse quello il punto.

Ne sono uscita disfatta e raggiunto lo spogliatoio della piscina mi sono svestita del ruolo di mediatrice e sono scoppiata a piangere.

Poche le donne a quell’ora; un’amica mi chiede cosa succede, le rispondo che i miei hanno poco tempo ancora per stare insieme e lo passano a litigare. Sono affranta come poche altre volte mi è capitato di esserlo, perché alla morte ci si rassegna ma finché si è in vita bisogna vivere, rifletto.

Martina non dice niente, o forse sì ma non lo ricordo. Però mi guarda, con uno sguardo che è molto di più: è un abbraccio, è una consolazione, è un ‘ti ho ascoltata / ti ho capita’. La settimana successiva si informa di come va.

Da quella sera in cuor mio siamo diventate amiche, anche se io di lei so solo come si chiama. Ma ogni volta che ci incrociamo e ci salutiamo io mi sento bene.

Di incidenti ne accadono molti e finché alle vittime non dai un nome sono sempre ‘cose che succedono’.

Io in questo momento non riesco a non pensare a quella sera, alla forza che mi ha trasmesso e che vorrei poterle restituire.

Parole di Vicenza (e dintorni): la s-c

Dopo il successo di s-ciapo e la pioggia di richieste che ne è conseguita (due sono una pioggia no?), oggi ritorno alla mia rubrica dialettale con un gruppo di vocaboli che contengono la coppia di consonanti s-c.

Abbiamo già citato il mas-cio, detto anche porseo (maiale, porcello).

Non abbiamo però detto che al maschile la parola che porta S-C in principio, pur iniziando con la S regge l’articolo il / un e non lo / uno.

Esempio:
el s-ciopo o un s-ciopo è lo scoppio, anche sineddoche di fucile, attrezzo che emette lo scoppio;

el s-ciantiso è la scintilla; mia nonna chiamava s-ciantisi quelle candeline scoppiettanti che a volte si mettono sulle torte.

L’aggettivo s-ceto deriva da schietto e significa appunto schietto, sincero (‘dighelo s-ceto = diglielo onestamente’); oppure significa puro, non contaminato (vin s-ceto è il vino non allungato con acqua).
La s-cianta è la scheggia; trattandosi di una quantità molto piccola di materiale, la s-cianta si intende anche come una piccola parte di qualcosa; tipicamente è quanto avanza in un piatto di portata (ghi n’è vanzà ‘na s-cianta, chi xe che lo vole? ne è avanzato un pochino, chi lo vuole?); in realtà la s-cianta non è un quantitativo troppo esiguo, perché trova spazio per il diminutivo s-ciantinea, piccola s-cianta.
Dopo il temporale il tempo se s-ciara, cioè si rischiara.
El s-ciocco non è lo sciocco, altrimenti detto stolto, ma lo schiocco (s-cioccare i dei = schioccare le dita; tirare un s-ciocco = essere colpiti da attacco cardiaco, spesso in senso figurato, inteso come non sopportare più la fatica, arrendersi).
Da s-ciocco deriva anche s-cioccarola, che identifica l’organo sessuale femminile, ma di cui non riesco a ricostruire l’etimo.

L’amore addosso

Non ho mai letto un Harmony ma me lo immagino più o meno così.
Quello di Sara Rattaro è un racconto inverosimile.
E’ la storia di una relazione extraconiugale, anzi due, una matrioska di tradimenti.
La protagonista, Giulia, narra in prima persona la sua storia d’amore con Federico, nata a causa del tradimento che Emanuele, il marito, le perpetra, o almeno così crede.
Ma è anche la storia del tradimento della madre di Giulia nei confronti della figlia, e di Giulia nei confronti della sorella.
La trama coinvolge tempi e luoghi diversi, e non si segue agevolmente il filo logico, se non dopo aver letto tutto il libro.
Il racconto soffre del limite che non produce emozioni, si limita a riferire i fatti accaduti.
Io ad un autore chiedo: non descrivermi un’emozione raccontandomela, fammela provare!
Dimmi di che colore aveva il manico la tazzina del caffè con cui ti sei scottata la lingua, e quanto zucchero ci avevi messo, non limitarti a dirmi che ti sei scottata.
Aggiungi dei dettagli che rendano il racconto realistico; fammi vivere il momento che hai vissuto tu, ricrealo in me, trasmettimi le sensazioni che hai provato.
Invece niente.
Troppi sono i fatti raccontati, una cronaca remota di accadimenti che hanno dell’incredibile e che vengono sciorinati uno dietro l’altro senza far gravare il peso dei dettagli su ciascuno. Un resoconto sterile di un uragano.
Ogni tanto ci sono delle frasi scritte in corsivo, avulse dalla narrazione, vorrebbero essere dei pensieri conclusivi dell’episodio narrato suppongo, ma puzzano tanto di bozze per status che il lettore diligente potrebbe condividere sui social.

13 motivi per non guardarlo

Ero scettica se guardare 13, un po’ perchè non amo le serie tv  (disillusa da LOST, tutta quell’attesa dietro la magica sequenza di numeri che…. non significava niente); un po’ perchè il tema trattato, il bullismo tra adolescenti, veniva affrontato a partire da un suicidio, e temevo di dover assistere a scene crude o raccapriccianti.

Non esiste una sola ragione per suicidarsi, figuriamoci se ne esistono 13 (si tratta eventualmente di un problema clinico chiamato depressione).

Ma dato che il bullismo è un problema concreto ed attuale ho accettato questo compromesso narrativo per seguire l’analisi che la serie ne fa.

Ho già avuto modo di raccontare la mia esperienza personale con il fenomeno, sia da adolescente che da adulta, i cretini sono ben rappresentati nel genere umano.
Hannah Baker, pur essendo morta, è la protagonista della serie; il coprotagonista maschile è Clay Jensen, nelle cui mani finiscono le audiocassette in cui Hannah ha registrato il suo messaggio di addio.
Clay è il classico bravo ragazzo.
Oltre a loro due a condurre lo svolgimento c’è Tony, che riveste il ruolo del grillo parlante di pinocchio, con le sembianze di Ricky Martin.

La trama si svolge con una fitta alternanza di flashback e attualità; per distinguere l’uno dall’altra bisogna guardare il cerotto sulla fronte di Clay, pestato nel primo episodio: se ha il cerotto si tratta di attualità, altrimenti di ricordi.

Più difficile è distinguere dalla realtà quando Clay sogna o vaneggia.
In molti momenti ho provato noia. Tutto ruota attorno alle audiocassette: chi le detiene, chi le ha già ascoltate, come occultarne l’esistenza; mi ricorda molto The ring, quel film horror che ‘quando vedi la video cassetta muori’ e ricevevi la notifica per telefono col messaggio ‘sssettteggiorniiiiii’.

Ho trovato la storia poco credibile: se si voleva stimolare la riflessione sul mancato dialogo tra genitori e figli non si doveva mettere una ficcanaso perennemente in tacco 12 come la madre di Clay, o un padre che lo rimbrotta perché a 18 anni beve il caffè.

Poco realistico il gesto estremo pianificato così minuziosamente da incidere ben 13 racconti; alla fine Hannah dimostra anche un minimo ripensamento ma no, ormai ha impiegato tutto quel tempo a raccontare al registratore e gli ultimi accadimenti non le risollevano il morale come lei si aspetterebbe.

Per esigenze logistiche ho dovuto guardare gli episodi la sera tardi, a volume basso, quando il resto della famiglia dormiva. Ho prestato poca attenzione a certi dettagli, ho colto l’effetto Werther grazie al quale i suicidi si sono moltiplicati, ma un po’ perchè i personaggi si rassomigliavano parecchio, un po’ perchè la storia si sovrapponeva tra passato e presente, non ho capito chi altri si è suicidato, o ci ha comunque provato.

Negli ultimi episodi ho avuto la conferma di quanto temevo dalle prime puntate: le scene raccapriccianti ci sono state.

Giudizio sintetico: osceno! Il suicidio viene presentato come soluzione ai problemi; Hannah si suicida ‘per colpa’ degli altri, presunti amici che l’avrebbero tradita o delusa.

MA DE CHEEEEE????

Quello di cui si parla non è bullismo, sono seghe mentali che ogni adolescente si trova ad affrontare, sono momenti di crescita oltre ai quali i cretini continueranno ad essere cretini, a volte anche piccoli delinquenti o criminali, altre semplicemente delle persone che non hanno capito il nostro stato d’animo esattamente come anche Hannah non ha capito il loro.

Risparmiate il vostro tempo: non guardatelo!

5 + 5

 5 + 5 = 10

Così mi suggerisce Google mentre ricerco un’immagine per questo post.

Ho ricevuto la nomination per un tag intitolato 10×10, in cui si chiede quali sono le 10 cose a cui non potremmo rinunciare, ovviamente oltre quelle che sono necessarie a prescindere dai nostri gusti.

Io ho pensato di rispondere a modo mio, elencando 5 cose per me importantissime, ed altre 5 che per la maggior parte delle persone lo sono, io posso rinunciarvi senza nessuno sforzo, anzi.

I 5 must (= come fate a vivere senza?)

  1. Il Mondomaster: riassumo in una parola ciò che include la piscina, gli allenamenti, le gare, la gente che ci ruota attorno. Ammetto che è una dipendenza patologica.
  2. Il mondo blogger: per me scrivere è diventato un bisogno primario, così come leggere i blog altrui, ricercarne di nuovi, mantenere i contatti stabiliti finora.
  3. La discoteca: non più tutte le settimane per sopravvenuti impegni prioritari, ma semel in anno una boccata di ossigeno.
  4. Wikipedia: quando non so una cosa, o non so a chi credere, mi rifugio lì.
  5. Le granite con le fragole: patrimonio dell’umanità.

I 5 chevvenefate???

  1. Nutella: provate a smettere di mangiarla, si sta bene lo stesso. Una volta disintossicati la troverete stucchevole, eccessivamente dolce.
  2. Calcio: non lo dico per fare l’anticonformista, a me del calcio non importa una beneamata mazza, il nulla più totale. Sono appena consapevole che ogni 4 anni si giocano i mondiali, di cui non seguo nemmeno la finale neppure se gioca l’Italia.
  3. Climatizzatore in casa: in auto ok, in ufficio per forza, ma a casa? No a casa no! Aprite le finestre, create corrente, respirate aria vera.
  4. Tatuaggi: posso anche riconoscere che ne esistono di graziosi, ma sul mio corpo no, nella maniera più assoluta. Cambierei abito 4 volte al giorno, figuriamoci se posso tenermi addosso qualcosa per il resto della mia vita.
  5. La televisione: soporifera, inutile, massificante schiavitù da cui sono assolutamente libera.

Il tag originale chiede di nominare 10 o più persone; io chiedo a voi: quali sono i vostri originali 5 + 5?

(Sempre 10, grazie Google).

Parco Cavour

Appena cinque giorni prima che nascesse Viola, piena estate 2014, avevamo trascorso una giornata al parco acquatico Cavour, di Valeggio sul Mincio. 

Si tratta di un’enorme area immersa nel verde, sorella del parco Sigurtà, stessa zona, ma con piscine e scivoli al posto di saliscendi e coltivazioni floreali.

Delle attrazioni che sfruttano la forza di gravità mi era rimasto il desiderio, perché per ovvi motivi quel giorno avevo preferito godermi le vasche ‘pianeggianti’.

È un parco acquatico adatto ai più piccoli, a differenza del più adrenalinico Caneva Sport, meta delle mie prime uscite fuori porta da post adolescente, o del più famoso Acquafan.

Gli scivoli non hanno pendenze importanti, per la maggior parte sono piuttosto bassi e tranquilli. Inoltre ci sono vasche ferme, a temerarietà zero.

Siamo ritornati con Viola, a breve treenne.

Il primo approccio è stato con la piscina oasi, ricavata su un fondo di ghiaia fine, con un’isola artificiale al centro. Viola stava aggrappata fissa alla mia spalla, teneva appena i piedi in ammollo, e dovevo cantare una canzone di pirati in loop perché si sentisse a suo agio.

Poi ci siamo spostati sull’attrazione fatta a forma di vascello, dove alcuni forzieri si riempiono di acqua e quando colmi si rovesciano addosso a chi sta sotto; una scaletta a chiocciola ti porta alla selezione di tre scivoli di diverse pendenze. Per Viola la scelta migliore è stata di ripercorrere la scala al contrario.

Ci siamo quindi spostati verso quello che era stato il mio rammarico maggiore tre anni fa: lo scivolo ghiaccio. È uno dei due scivoli più alti che il parco ospita, ricreato in un’atmosfera da iceberg: l’attesa lungo la scala per la salita è suggestivamente fresca. 

La discesa prevede 6 corsie parallele su un appoggio morbidissimo, da percorrere seduti o distesi. Lo avessi affrontato allora, considero mentre scendo, avrei potuto espettorare Viola con un colpo di tosse una volta giunta a valle, perché la sensazione era proprio quella che l’acqua mi si fosse incanalata in ogni orifizio a gran velocità: naso, bocca e poi a scendere.

Dopo questa avventura Sofia ha voluto soffermarsi in un’area per i più piccoli: un cartello riporta la dicitura ‘Area adatta a ragazzi di età compresa tra 0 e 15 anni, di normale peso e corporatura’.

Mentre sorveglio Sofia osservo un papà che scende lo scivolo tenendo in braccio il figlio: 15 anni inequivocabilmente superati da quella volta, e ancor più inequivocabilmente fuori dai parametri di corporatura e peso ‘normali’.

Lo scivolo, grazie ai fattori cautelativi che si applicano in ogni calcolo di struttura, ha retto; ma il papà non aveva fatto i conti con il fondale molto basso che lo attendeva: arrivato in velocità ha impattato con i talloni e facendo ‘cao-leva’ * ha barcollato un bel po’ per non investire il figlio intrappolato tra le sue gambe.

Viola dimostra che quando distribuivano il coraggio lei era in fila per l’appetito, rifiutando anche questi scivoli.

Sofia mi chiede di salire su una struttura chiamata Kamikaze, dalla quale la rimandano giù a scala perché non ha ancora compiuto 10 anni. A me invece lasciano scendere senza riserve. Sono tre corsie metalliche, piuttosto spigolose: scelgo quella centrale e arrivo rapidamente a valle, dopo un saltino nel vuoto a metà percorso che mi ha fatto rimpiangere il confort dello scivolo ghiaccio e lasciato un’ammaccatura sulla schiena. Deve essere il motivo per cui non c’era fila di persone in attesa.

Dopo una sosta per la merenda, consumata in una zona all’ombra su un tappeto erboso fittissimo, ritorniamo all’acqua: è la volta di un percorso su zattere successive a cui approdare con equilibrismi dipendenti dalla propria abilità: salti, aiuto delle corde, passi lunghi e calibrati. Da qui altri tre tipi di scivoli e più sotto una spiaggia artificiale con un’attrazione adatta ai piccolissimi.

Ritorno alla sorveglianza su Viola e la persuado a provare almeno uno di tutti gli scivoli disponibili: è uno scivolo perfettamente analogo a quelli del parco giochi, quasi asciutto. Raggiunta la consapevolezza che il gioco non è oltre le sue possibilità si lancia in un altro scivolo, stavolta con delle curve che le fanno guadagnare un minimo di velocità. È quasi ora di tornare a casa quando si rende conto di quanti altri scivoli ci sono: ora vuole provarli. Entra finalmente in acqua fino alle ginocchia, si piega verso avanti e mi chiede: “mamma… come si fa a nuotare?”.

Gioia inesprimibile per me questa sua nuova curiosità, rovinerei ogni ricordo cercando di descriverla.

Ma il parco non è solo un parco acquatico: ci sono i tappeti salterini, gli spettacolini, il truccabimbi; aree per giocare a pallone; un laghetto con le anatre; si può scegliere di sostare all’ombra, o sotto l’ombrellone, oppure in una delle spiaggie artificiali.

Ci sono bar e tavole calde. Insomma, non manca nulla per trascorrere una giornata estiva con la famiglia.
* cao-leva: espressione dialettale per indicare il rischio di ribaltamento attorno ad un fulcro.

A nudo *

Ieri sera per raggiungere la piscina, come ogni altra sera, ho attraversato la città. Non pioveva mentre procedevo con l’auto.

Mi sembrava di vederla sotto un’altra luce: come un pulcino bagnato, con tutte le piume compattate contro il corpo, incapace di muovere le ali perché troppo pesanti, anche se all’apparenza di un volume inferiore rispetto allo stato asciutto.

Come una persona che conosci bene e che un giorno trovi in piscina, coi capelli bagnati, molto più vera, più se stessa di come si è abituati ad incontrarla.

Mi è sembrata una città messa a nudo.