Sono un esemplare atipico, per molti aspetti della mia vita. Me lo sento dire piuttosto spesso: “eh, ma tu non fai testo”.
Probabilmente risiedo oltre il 3 sigma, quel frammento di gaussiana che ai fini rappresentativi va scartato dal campione.
Nel ruolo di madre ad esempio non mi rifletto in nessuna delle colleghe-mamme.
Non sto qui a precisare cosa osservo di incongruo, anche perché non ho ancora capito cosa sia giusto o sbagliato, nè forse esiste una divisione.
Il rapporto madre / figlio non è un cliché a cui rispondere, ma una relazione tra due esseri umani legati da un vincolo molto molto speciale.
Anche essere sorelle, o fratelli, è una relazione speciale, ma non mi sono mai imbattuta in gruppi fb in cui la gente chiedesse pareri su questioni improbabili.
Non ho mai letto libri che spieghino come essere una brava sorella, nè sentito organizzare convegni a tema.
Ogni caso è a sè, e così tra genitori e figli.
Quanto la faccio lunga… torno al dunque.
Le mie figlie hanno iniziato a frequentare l’asilo nido molto presto, a pochissimi mesi di vita, e io sono rientrata al lavoro.
Lavoro sicuramente per necessità ma anche perché ritengo che sia un modo per tenere la mente attiva e rimanere dentro il giro della normalità adulta: isolarsi con un bambino per alcuni può essere meraviglioso, a me spaventa un po’.
Fatico ad immaginare una giornata, anzi una sequenza di giornate, ad esclusivo tu-per-tu con un piccolo; e non oso pensare al poi, quando i figli crescono e ci si trova a reinserirsi nella quotidianità, un autobus in corsa dal quale preferisco non scendere.
Pure per il bambino non è il top ritrovarsi 24/7 con la stessa figura di riferimento, specie se quella figura sono io.
Ho anche ripreso tutte le mie attività (gli allenamenti, una pizza con le amiche ogni tanto…) in tempi molto rapidi.
Non è un vanto e nemmeno motivo di vergogna, è quanto è accaduto.
Tutto questo preambolo per dire che adesso che Viola ha iniziato la scuola materna non ci siamo arrivate da un rapporto simbiotico ed esclusivo durato tre anni, ma eravamo già abituate al distacco giornaliero, anche prolungato.
Nonostante ciò il passaggio c’è stato: un nuovo ambiente, con bambini diversi, insegnanti sconosciute, routine da assimilare.
La mia pregressa esperienza in tema di inserimento è stata pessima: Sofia ha iniziato la frequenza a gennaio, è stata catapultata in un gruppo ormai formato dal precedente settembre, la accompagnava una mamma destabilizzata da un tornado di eventi.
Sofia non ha pianto i primi due o tre giorni, ma poi il momento del saluto è stata un’agonia per tutti i tre anni, con tragediette in due atti tutte le mattine.
Con Viola siamo partite bene: abituata ad andare al nido accompagnata dal papà, alla materna ce la porto io.
Ho tempi leggermente più larghi al mattino e questo le consente di prepararsi con comodo; il che significa che mi fa impazzire con i vestiti che non vuole mettere senza che io perda la calma.
Ha tutto un suo rituale da seguire, che parte con il saluto dalla finestra a Sofia, prosegue con la spremitura di abbondante dentifricio sullo spazzolino e dintorni per poi passare a sfilarsi il pigiama ed alternare gli indumenti a super-mega-coccole con rincorsa da metà sala: pronti via, la maglia e poi una super-mega-coccola; pronti via i pantaloni e poi una super-mega-coccola; pronti via i calzini e poi una super-mega-coccola. Una coreografia che si ripete ogni mattina, e guai a contrariarla: gli antiscivolo con le scarpe non vanno? No, ma proviamo lo stesso. No, non vanno, si arrende ogni volta.
A volte avanza anche un po’ di tempo per mezzo cartone animato o un piccolo ballo sulle note di ‘andiamo a comandare’.
Da parte mia ho anche imparato qualcosa eh…! Tipo che se lei vuole l’elastico per capelli viola, in realtà le va bene anche quello azzurro, basta che sia lei a sceglierlo.
Le specifiche dettate dai treenni non corrispondono necessariamente a ciò che significano in realtà: sono solo dei piccoli tiranni che si inventano qualche capriccio;
basta far credere loro di assecondarli, ecco il trucco.
I primi due tre giorni il distacco è stato duro: con tutta quella confusione di genitori presenti non vedeva ragione valida per cui proprio io dovessi andarmene.
Poi un po’ alla volta le presenze adulte si sono rarefatte e abbiamo consolidato una nostra routine.
Una volta giunta sulla soglia della scuola materna lei vuole salire in braccio, anche se ha camminato per tutto il tragitto e siamo ormai arrivate. Riponiamo il giacchino nell’armadietto e andiamo a cercare la sua maestra.
Il passaggio avviene da braccio a braccio ed è anticipato dalla deposizione del ciuccio e da due baci che lei dice di volermi dare, in realtà glieli do io.
Poi si lancia tra le braccia della maestra; lo fa come un vero e proprio tuffo: prende fiato, chiude gli occhi, trattiene un po’ il respiro, e mi fa ciao con la manina.
Il suo gesto dà l’idea di voler minimizzare l’urto, l’impatto con la giornata, nella quale immergersi.
Io evito di indugiare, mi volto e me ne vado.
In realtà anche io trattengo il respiro e mi tuffo oltre il salone, sforzandomi di non guardarmi alle spalle. Percorro il corridoio quasi in apnea fino al portone di uscita, salutando i volti che incrocio e ricacciando giù un po’ di magone; risalgo in auto riponendo l’ennesimo oggetto di transizione che ha voluto a tutti i costi portarsi dentro per poi cedere e riconsegnarmelo all’atto del saluto. Un poco mi si stringe il cuore al momento del distacco.
Butto tutto sul sedile posteriore: pupazzi, giochini, succhietti; poi se li ritroverà la sera quando torno a prenderla, che mi corre incontro esultante a braccia aperte, e il mio cuore torna ad allargarsi.