L’ultimo tortellino

L’atmosfera natalizia e la frenesia che la accompagna si librano nell’aria già dal 32 di ottobre.

Sì, perché non si fa nemmeno a tempo a celebrare Halloween che già ci si sente troppo nella tenebra, e allora su le luminarie, calate i Babbi Natale dai poggioli e si aprano le danze degli acquisti, la corsa all’ho già preso tutto mi mancano due pensierini.

Ci sono quelli che mordono il freno come i purosangue allo start, e vivono il mese di novembre come un noioso apostrofo tra le parole estate e Natale.

In ogni casa l’avvicinarsi della scadenza 25 dicembre vive i suoi rituali: a casa mia si concretizzava nella preparazione dei tortellini.

Ma cosa dico preparazione? Era una vera e propria produzione industriale! Non appena si girava l’ultima pagina del calendario eccolà, tutti precettati, non si esce più la sera, bisogna fare i tortellini.

Quanti? Tutti quelli che si può!

Perché? Questa è una domanda alla quale ho provato a dare delle risposte, nessuna di queste esaustiva.

Perché sono buoni; perchè li mangiamo al la sera del 24 in brodo, al pranzo del 25 al sugo e il 26 come avanzano; perché abbiamo un regalo pronto per chiunque passi a trovarci; perché li mettiamo in freezer che sono sempre buoni.

La tradizione affondava le radici nel passato remoto, ossia prima della mia nascita, quando la nonna lavorava nel ristorante da Pasquale. Aveva appreso l’arte e ne aveva fatto un lavoro da casa: c’è chi infila le perle dei braccialetti, chi cuce pezze di pellame e chi a cottimo annoda tortellini.

Mia nonna preparava, per professione, tortellini per tutte le panetterie del circondario. E quando prendi il ritmo per un’attività poi vai avanti per inerzia, anche quando l’attività cessa.

La catena aveva inizio con l’arrivo di mezzo prosciutto crudo che serviva come base per il ripieno. Parallelamente un numero imprecisato di uova fresche veniva sgusciato in un fontanone di farina bianca.

La polvere si sollevava quel tanto che serviva ad impastarsi coi tuorli, poi la nuvola precipitava in una pagnotta gialla che veniva lavorata e rimaneggiata.

Quando la consistenza era omogenea ne venivano affettate grossolanamente delle parti e faceva il suo ingresso in campo la pastamatic.

Rispetto alla produzione degli gnocchi, rigorosamente l’ultimo venerdì di carnevale, quella dei tortellini mi piaceva di più: le mani rimanevano meno appiccicose (le patate lesse sono un collante portentoso), nè subivo il fastidio della farina perché con le uova si amalgama meglio, nè si odorava la grappa.

Mi piaceva un sacco mangiare la pasta cruda, con una scusa fagocitavo tutti i ritagli.

“Basta che ti fa male!” mi ammonivano.

“L’ultimo pezzetto dai” che poi non era mai l’ultimo.

Eh perché l’ultima non era mai nemmeno la sfoglia che veniva stesa, c’era sempre un altro po’ di ripieno da finire.

Una task force quella che serviva: chi tirava la pasta, chi la stendeva sulla tavola e con la rotellina zigrinata creava i quadretti, chi distribuiva il ripieno dentro i quadretti, centrale sennò sborda!

E poi al via scatenate l’inferno, tutti ad annodare, super velocemente che la pasta si secca e non si chiude più, e si rischia che i tortellini si aprano durante la cottura.

Ricordo che i primi anni i tempi erano ancora più lunghi, e quindi la frenesia maggiore, perché la macchinetta veniva azionata a manovella; solo più tardi era comparso il motorino.

Eh ma si sente la differenza, a manovella erano più buoni, dicevano i nostalgici.

La fetta di impasto doveva passare una volta sull’1, due volte sul 3 e due volte sul 5; i numeri indicano la distanza tra i rulli.

Mi raccomando stessa trafila per tutte le fette, sennò si sente la differenza.

L’operazione di chiudere il tortellino era ogni volta oggetto di diatriba: guarda me, guarda che ti mostro come si fa, così e non così, quello tuo è rovescio.

Che poi si sente la differenza.

In effetti ciascun tortellino conservava l’impronta di chi lo aveva formato: un po’ come tutti gli ombelichi, o i padiglioni auricolari, o le punte del naso si somigliano ma non ne trovi due di uguali, così la conformazione anatomica del tortellino riportava alla dimensione delle dita, e alla manualità, di chi lo chiudeva.

Quando poi a tavola si ripescavano dal brodo una volta cotti si poteva affermare con un buon margine di sicurezza “Ecco questo lo hai fatto tu, si riconosce!”.

I tortellini annodati andavano disposti in ordine su un canovaccio perché si asciugassero; quello di metterli in fila era compito degli ultimi arrivati, e dei bambini.

Io ne approfittavo per mangiarne qualcuno di crudo, ancora più gustoso della sola pasta.

“Basta Elena che ti fa male!”

“È l’ultimo” rispondevo.

Ma non era l’ultimo, così come non era l’ultimo il tegame di ripieno sui fornelli, pronto per un altro lotto di produzione.

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Questo post nasce dalla raccomandazione “Fatene buon uso!” di un racconto di Priscilla.

X Trofeo master Nuoto Vicenza

Ogni volta la stessa domanda, ogni volta una diversa risposta, un nuovo tassello del puzzle.

Cosa mi entusiasma del nuoto master? Dove trovo la spinta a continuare a praticare il medesimo sport e a cimentarmi nella competizione?

Nel caso della manifestazione di casa la risposta appare ovvia, quasi scontata: l’evento si svolge a pochi km da dove abito, è un’occasione di incontro con tante persone senza nemmeno scomodarsi a fare strada.

Ma non si tratta di ciò, o almeno non è la spiegazione che ho formulato in questo caso.

Il trofeo master Nuoto Vicenza ha compiuto 10 anni, è come se avesse ormai conseguito la licenza elementare.

Mi sembra ieri che la gara di novembre (la squadra partecipa di norma ad una gara ogni mese) veniva scelta tra Bologna e Vimercate, nell’indecisione se affrontare la nebbia verso ovest o leggermente più a sud.

La prima edizione del trofeo era surreale: inverosimile rivedere tutti quei volti nella propria città, e contestualmente disputare la gara in una vasca scorrevolissima.

L’organizzazione è partita con alti standard ed ha progredito verso la perfezione: tabelle di marcia rispettate al minuto consentono a chi come me abita nei pressi di gestirsi le iscrizioni e conciliarle con altri impegni.

Gli anni passano, le prestazioni non sono più quelle delle prime edizioni; ma su un migliaio di gare disputate provate a chiedere ai concorrenti se sono soddisfatti del risultato: risponderà SI la minima parte. Eppure continuano ad essere in tanti gli iscritti, sempre più numerosi, sempre più frequenti le liste di attesa per partecipare.

Tra quei disillusi recidivi io.

Perché?

La risposta questa volta mi è arrivata su due fronti.

Per una delle gare in programma sono ricaduta nell’ultima batteria, la più veloce, cosa che un tempo davo per scontata, ora non avviene sistematicamente.

Mi sono ritrovata in compagnia di ragazze che potevano essere, anagraficamente e senza troppa fantasia, quasi tutte mie figlie.

Una di queste in particolare celebrava il momento come se fosse in gita scolastica, con cori di incitamento alla compagna di squadra che partiva al suo fianco.

Per una volta io non ero l’accompagnatrice: in gita e con lo stesso entusiasmo ci ero anche io, anche se lo davo a vedere in maniera meno eclatante.

La seconda spiegazione, quella più illuminante, me l’ha data la fotografia.

Il giorno seguente all’evento le foto scattate durante la manifestazione sono state pubblicate sul web: foto di amicizia in primo luogo, e di concentrazione, di sforzi, di risultati e di premiazioni.

E poi un primo piano mio, mentre guardavo (lo so io, nella foto non si vede) il cronometro.

Non è il primo piano del mio viso ad avere nulla di particolare, solo essendo il mio l’ho osservato abbastanza approfonditamente da rilevare un dettaglio.

Lo stesso dettaglio che, con un po’ di attenzione, emerge da tutte le foto simili a questa.

Sono vanesia, passerei ore davanti allo specchio a farmi le boccacce, ma in questo scatto rimiro non tanto il volto, quanto il rapimento.

Mentre guardo il tabellone emerge che l’unico pensiero in quell’istante è la ricerca del riscontro, la domanda che tutti si pongono appena toccata la piastra: quanto ho fatto?

È un dialogo con un’entità astratta: è lo sguardo di un bambino che osserva un prestigiatore mentre fa le sue magie.

È lo stupore e la meraviglia di chi guarda un dispositivo elettronico ma in realtà sta attendendo l’oracolo.

Non importa se la risposta è quella che si vorrebbe, ciò che conta è che in quel momento siamo esattamente dei bambini in balia del mistero; non fa differenza se babbo natale ci porta i doni o la befana il carbone: il vero regalo è riuscire per mezza giornata a dimenticare la spesa, l’appello all’università, il traffico del rientro, la multa da pagare, le bollette, il rincaro della benzina, le paturnie della suocera e mettersi ad osservare una sequenza di led, agognando una soddisfazione.

È questo il dono più grande che una passione sportiva ci consegna; per un attimo ritorniamo ancora più indietro che alla gita scolastica: per qualche istante regrediamo alla pura fanciullezza, e il cronometro è la finestra che ci permette di affacciarci su quell’epoca.

I rimedi del nonno

Tutti conserviamo qualche trucco, qualche metodo empirico che adoperavano i nostri avi per far fronte a semplici problemi quotidiani, e che ci è stato tramandato.

Alcuni di questi misteri sono stati archiviati nella tomba di progenitori gelosi del loro segreto, altri ci sono stati rivelati nell’avvicendamento generazionale.

Spesso si tratta di soluzioni bizzarre, magari inefficaci oppure misteriosamente funzionanti pur senza una spiegazione razionale alla base.

Mia nonna ad esempio era un’ottima cuoca e pasticcera, nonché abile sarta. Ricordo le sue crostate alla frutta che trasportava in un grande contenitore verde, la pavlova (un tripudio di meringa e panna con frutta), e i biscotti che in italiano sono conosciuti come brutti-ma-buoni ma lei li proponeva come cagatine (l’aspetto rotondo e scuro con innalzamento al centro si presta ad entrambe le nomenclature).

La sua produzione dolciaria era una catena di Sant’Antonio perché se avanzavano albumi non potevano rimanere inutilizzati, quindi forza con la torta di supporto, in cui magari serviva poco lievito allora facciamone un’altra … and so on.

Di tutto ciò a me non ha tramandato un bel nulla; forse, ammetto, per scarsa attitudine da parte mia ad acquisire lo scibile.

Insieme a mio nonno coltivavano un pezzetto di orto, e anche lì non mi hanno contagiata con le loro arti bucoliche, anzi: uno degli ultimi ricordi che conservo del nonno è che mi rincorre dopo che avevo deliberatamente disseminato il terreno con le erbe infestanti che lui aveva appena finito di raccogliere.

Mia nonna sosteneva che dopo un’insolazione si poteva trarre beneficio dal cospargersi di burro; o di un’emulsione di acqua olio e sale; o di yogurt; o di fette di patata; o di pomodoro. Insomma oltre al fastidio dell’eritema bisognava anche schivare anche questa insistenza che non ti dava tregua, peggio delle proposte di un nuovo vantaggiosissimo contratto telefonico.

Quello che voglio raccontare però è un trucco che mi ha insegnato mia mamma una sera prima di una gita alla scuola elementare: pare che il nonno lo avesse imparato durante il servizio di leva.

A dirla tutta i trucchi che il nonno aveva appreso durante il militare si sarebbero  rivelati poco affidabili in altre situazioni; tipo quella volta che siamo andati in vacanza ai laghi di Plitvice, quando ancora era una riserva naturale sconosciuta al turismo italiano.

Campeggiavamo all’interno del parco, che per mantenere quanto più incontaminato il territorio aveva creato pochissimi servizi.

Quindi abbiamo cotto la pastasciutta ed ecco il trucco “non buttiamo l’acqua ma conserviamola per lavare i piatti” così non ne sprechiamo inutilmente; inoltre, dato che ci sono km da fare per raggiungere il lavapiatti, teniamo tutto in ammollo fino a sera.

“Lo faceva il nonno al militare, lo facciamo noi” aveva sentenziato mia mamma; mentre mio papà vuotava la pentola, mia mamma sorreggeva lo scolapasta cercando di raccogliere l’acqua in una terrina.

In teoria una pirofila, in pratica un’esplosione di vetri ovunque: da lì una serie di imprecazioni rivolte al nonno, e la ricerca di uno dei rari punti di erogazione dell’acqua dove correre a lavare i piatti, tra le indicazioni ulaz e izlaz (ingresso e uscita) che sono presto scivolate in stocaz.

Tornando al trucco che voglio raccontare, dicevo che mi è stato rivelato la sera prima di una gita, in cui temevo di non svegliarmi per tempo.

Se lo smartphone vi ha abbandonato, avete gettato le vecchie sveglie o paventate un blackout durante la notte per cui la regolazione dei dispositivi temporizzati potrebbe subire alterazioni, insomma se temete che la sveglia non suoni, questo metodo vi consentirà sonni tranquilli.

Il metodo della sveglia del nonno:

Quando vi coricate, appena prima di chiudere gli occhi, quindi dopo eventuali letture o altre attività, mettetevi seduti sul letto, con le gambe distese e il busto eretto.

Fate il pugno con la mano destra e battete sulla fronte tante volte quante sono le ore che definiscono l’orario del risveglio.

Faccio un esempio: volete svegliarvi alle 7? Bene! Tum tum tum… per 7 volte, assestate 7 pugni sulla vostra fronte.

Poi appoggiate la testa sul cuscino e chiudete gli occhi sereni: buonanotte.

Ci avete ripensato ed è meglio alzarsi alle 6.30? Niente panico! Rimettetevi a sedere sul letto, passate il palmo sulla fronte per cancellare la precedente programmazione (fate swipe per resettare si direbbe oggi); quindi ripartite col mea culpa in fronte TUM TUM … per sei volte più un pugnetto meno energico dei precedenti per segnare la mezz’ora.

E buonanotte ancora.

Ci avete ripensato? No basta, state tranquilli, cercate di riposare e smettete di ricalcolare l’orario, altrimenti vi sveglierete ad ogni ora.

Comunque… con me funzionava!

Sono solo canzonette – Novembre ‘17

Stavo ancora pensando alla Lista delle cose che non ho che a destra e a manca ho sentito perculare questa locuzione, mentre a me evoca pensieri positivi e malinconici insieme.

Ormai è uscita dal loop, è passata l’estate e l’esercito del selfie è tornato sui banchi a scuola o dietro le scrivanie negli uffici.

È il presente, Novembre 2017, un periodo in cui sintetizzo le canzoni in pochi passaggi chiave: di ogni brano del momento mi resta appiccicata una parola, o una frase, o un dubbio, che me la richiamerà a distanza.

Bene, bene, bene… ma non benissimo!

Mi è rimasto dentro dall’estate come un tormentone, mi parte in automatico, ammettere il contrario (bene e basta) appare quasi sfasato, fuori ritmo, inverosimile.

Perché in effetti potrebbe sempre andare meglio.

Versace on the floor

Ai primi ascolti capivo versacci e mi immaginavo un sacco di similes disegnati sul pavimento; poi ho reinterpretato il termine Versace ma ad oggi non so se si intenda il profumo, un abito o Gianni in persona, disteso a terra agonizzante.

Fino all’imbrunire

Giuliano dei Negramaro sfrutta il lavoro minorile e quando il bambino attacca a cantare ‘Torneranno anche gli uccelli / Ci diranno come volare‘ mi riporta di botto a

‘La maestra ci faceva cantare / ma io non riuscivo perché non capivo le parole’.

Stavo pensando a te

Fabri Fibra mi disgusta con il suo passaggio in rima da secondo a senza condom. Anche se titola pensando a te, quindi a me che ascolto, conto che lui pensi ancora a Laura Chi.

Ti fa stare bene

Caparezza ha iniziato a collaborare con la pagina della dottoressa Grazia Arcazzo e ci allerta che

con le mani sporche fai le macchie nere

Scelgo ancora te

A me Giorgia spaventa un po’

Credevo che, sapevo che / Si cade in due e in due ci si rialza

Ma io sono perplessa: perché bisogna cadere in due? Tipo che cammini per strada e uno si inciampa e trascina giù anche l’altro? A me pare una donna pericolosa, non andate a passeggiare con Giorgia, men che meno a sciare!

Fenomenale

Gianna Nannini è un’altra donna pericolosa:

Voglio calpestarti il cuore / Vedere come va a finire

E come potrebbe andare a finire? Con un organo interno spiaccicato sul pavimento!

Che immagine truculenta! Chi pulisce poi?

Oh vita

L’unica parte intellegibile del brano di Jovanotti è

e se è una femmina si chiamerà

Futura

Ops… dove l’ho già sentito questo verso?

E lì parte lo stacchetto sul pezzo di Lucio Dalla: oltre alla citazione anche il riferimento!

Onestà intellettuale fino infondo; io questo nome avveneristico in realtà non l’ho mai sentito utilizzare, di Futura conosco solo un supermercato, ormai chiuso.

Offline

Paola Turci rinfaccia al destinatario del suo brano che

hai dimenticato il gioco del muretto

Io invece non l’ho mai conosciuto, qualche anima pia me lo spiega? Non è mai troppo tardi per imparare a giocare.

Pachidermi e Pappagalli

Gabbani canta

E Marilyn ed Elvis vivono alle Hawaii

Hanno aperto un bar che si chiama Star, fanno affari d’oro

Proprio una gran fantasia per i nomi dei locali, useranno il dado per fare i risotti o il ragù per condire la pasta?

V come Vulcano

La mia conterranea Francesca Michielin, salita sul carrozzone in corsa di Fedez, canta

c’è il bar dell’indiano profuma di te (o di the?)

e io me la raffiguro a Firenze, nei pressi del viadotto dell’indiano, vuoi che non ci sia un bar nei paraggi?

Katchi

Questa è in assoluto la mia preferita

She give me Katchi! All night long

E io continuo a canticchiarla

Doo wop a doo wop, shoopi doobi Doo wop

La ragazza nella nebbia

“Hai letto ‘La ragazza nella nebbia’?” mi chiede un’amica una sera a cena.

No.

Mi suggerisce questo thriller che ha, dice, dei risvolti interessanti per come tratta il tema delle indagini.

Lo inizio stancamente, senza capire molto, come se nella nebbia mi ci sentissi io; lo continuo perché a questo punto sono un po’ la protagonista.

Lo stile è scorrevole, ma la storia complicata: continui andirivieni nel tempo, fatti accaduti prima e dopo del giorno X, personaggi non troppo distinti, avvolti anch’essi nella nebbia.

Senza capire nemmeno cosa esattamente è accaduto.

Nel momento in cui sono stata abbastanza coinvolta ho iniziato a vedere le locandine del film tratto dal romanzo, in prima visione nelle sale cinematografiche.

Ho dato un’accelerata: volevo finirlo prima che qualcuno me lo raccontasse.

Il mio interesse è diventato travolgente, tanto che alla fine temo di averlo letto troppo in fretta.

Non voglio rivelare i dettagli, dirò solo che è un giallo in cui si narra di Anna Lou Kastner, un’adolescente con uno stile di vita morigerato, che non fa ritorno a casa; e delle indagini per individuare il colpevole della sua scomparsa.

Quanto frutta un delitto? Quale indotto genera un crimine?

Avveniva un crimine ogni 7 secondi. Tuttavia, solo ad un’infinitesima parte di essi venivano dedicati articoli di giornali, servizi nei notiziari, intere e seguitissime puntate di talk show.

In questi casi fortunati i mass media giocano un ruolo chiave nello svolgimento delle inchieste, perché pilotano l’opinione pubblica e di conseguenza le risorse che l’amministrazione sceglie di destinare alle indagini.

Basta una piccola azione per scatenare fenomeni di emulazione di massa, agli stessi a cui sembrava non importare nulla del caso in pochissimo si trasformano in protagonisti.

Un mastodontico seguito si muove: troupes televisive, giornalisti, avvocati, squadre scientifiche. I ristoratori locali, sull’orlo della chiusura, vivono una nuova affluenza.

La popolazione si ritrova sul palcoscenico di un teatro che può trasformarsi in un vero e proprio trampolino di lancio per una inaspettata popolarità.

Quanto pesa l’immagine dei testimoni nella loro credibilità? Esiste un giusto indennizzo per un innocente ritenuto colpevole? Quella che emerge in ultima analisi è comunque la verità o un compromesso legato alle facoltà di difesa del singolo?

A queste ed altre simili questioni tenta di dare una risposta l’autore, perdendo talora di vista la fluidità e la coerenza della narrazione.

Ho letto molte recensioni che celebrano il finale, ritenendolo un capolavoro di inventiva e straordinarietà; alcuni invece si definiscono scettici, giudicandolo affrettato.

Io ritengo che sì, sia un po’ forzato ma sicuramente sbalorditivo; ma reputo anche che la forza della narrazione non risieda tanto nelle vicende, nel mero susseguirsi dei fatti: secondo me gli accadimenti sono un pretesto per indurre il lettore a riflettere su altri temi.

Noi tutti facciamo parte, nella realtà quotidiana, dell’opinione pubblica: noi tutti leggiamo i giornali, navighiamo sul web, guardiamo la tv. Davanti ad episodi di cronaca, non avendo elementi diretti, giudichiamo in base a ciò che ci viene riferito.

Siamo sicuri che quanto ci perviene sia la verità? E qualora lo fosse, ci rendiamo conto che la stessa può venirci presentata distorta da filtri e viziata da inerzie che la trascinano in direzioni fuorvianti?

Nel racconto ho riscontrato possibili riferimenti a fatti di cronaca realmente accaduti, per certi versi poteva adattarsi a casi famosi: UnaBomber, il delitto di Cogne, o quello della val Brembana.

Cosa sappiamo in realtà oltre a quello che ci è stato riferito? Eppure ci siamo fatti delle opinioni a riguardo, dentro di noi abbiamo maturato giudizi di parte.

E se le cose fossero andate diversamente, o magari proprio così ma con retroscena di cui restiamo all’oscuro?

Siamo tutti vittime e carnefici.

Lo cantava Umberto Tozzi e deve averlo ripreso Donato Carrisi per scrivere questo libro.

Sogno o son desta?

Questa non è un’esercitazione! Ripeto: questa non è un’esercitazione.

Io non faccio sogni premonitori, i miei sono dei veri e propri trailer, quasi spoiler direi, mi tolgono la suspense.

Ho appuntamento in un ufficio pubblico per le 9.30 della mattina; per non sprecare la mezza giornata che sono costretta a prendermi libera dal lavoro, ci aggancio altre due commissioni: il cambio pneumatici prima e un altro appuntamento dopo.

Calcolo gli orari in modo da avere tempi morti minimi per ospitare piccoli imprevisti.

E’ ovviamente un conteggio aleatorio, direi proprio spannometrico, perchè tante sono le variabili in gioco.

Il sonno della notte precedente non è profondo, forse a causa di un allenamento molto intenso la sera prima, ma come in una perfetta partita a tetris al risveglio riesco ad incastrare tutti i preparativi e muovermi entro i limiti imposti dalla tabella di marcia.

Arrivo al tribunale alle 9.00, con mezz’ora di anticipo; per essere precisi il biglietto del parcheggio riporta le ore 8.58.

L’incontro dura un’oretta, come stimato, e io sono ancora perfettamente on-time.

Quanto mi piace quando tutto l’ingranaggio gira!

Scendo al parcheggio per recuperare l’auto e decanto la lungimiranza dell’amministrazione comunale che offre la possibilità di evitare la fila alla torretta, basta avvicinare la carta di pagamento contactless alla sbarra di uscita.

La persona che è con me non è munita di contactless: paga il ticket la modica cifra di 4€.

Sticazzi!!! è arrivata all’appuntamento in orario, quindi mezzora dopo di me, il che significa che a me ne verranno richiesti almeno 5.

La nostra attenzione viene calamitata da un cartello che avvisa che ‘ai clienti del supermercato verrà rimborsato il parcheggio, per una spesa di almeno 10€ e nel limite temporale di 2 ore’.

Un rapido sguardo all’orologio: sono le 10.44, ho tempo fino alle 10.58: posso farcela!

Entro sera dovrei comunque fermarmi a comperare il latte, e di lì arrivare a 10€ non è difficile.

Salgo al supermercato, quasi vuoto a quell’ora del mattino, e depongo in un cestino il latte, lo yogurt e altre due cose.

Mi fiondo in cassa ma una coppia di anziani col carrello ricolmo mi batte al fotofinish: pazienza, farò in tempo ugualmente.

La signora indossa un tutore alla gamba e si sorregge con una stampella, a fare il carico del nastro è l’uomo, che poi è lo stesso che deve anche imbustare, seguendo attentamente le direttive della moglie.

Oltre alla cliente, anche la cassiera ha un handicap, non riesce a sollevare un braccio, quindi fa fatica a passare la merce.

Il conto dei miei predecessori procede a rilento, ma io ho poca roba, aspetto; e mal che vada, pazienza, io sono sana e di questo mi rallegro, pagherò 5 € di parcheggio, va bene.

Sticazzi ma va bene.

Nello scannerizzare prodotto per prodotto la cassiera si accorge che la cliente ha appiccicato il prezzo del sedano sui fagiolini boby, così spedisce il marito in missione a ripesare.

Confido che possa distinguere un sedano da un fagiolino, sono le 10.52, ho ancora tutto il tempo: inspira espira inspira espira.

Finalmente l’uomo torna, imbusta il tutto, paga e … scusate un attimo, la cassiera se ne va.

La fila si ferma, dietro di me altri ignari attendono che rientri in postazione.

Torna dopo un minuto che pare un’eternità, con il nuovo rotolo di carta per il registratore di cassa.

Cambia il rotolo, finalmente fa il mio conto, 13€ e rotti quindi – SI – ho diritto al timbro…. controlla l’ora di ingresso, SI sono le 9.55, ‘dovrebbe farcela!’ mi incoraggia.

Afferro la bio sportina carica di 5kg di spesa e scendo al parcheggio.

E qui il tetris inizia a inghipparsi.

Inizio a girare girare girare in cerca dell’auto.

Con una mano sorreggo la borsetta, pregando che il manico non ceda (tra l’altro piove e l’aria è carica di umidità), con l’altra protendo il telecomando dell’auto: ogni tre passi pigio il pulsante di apertura nella speranza di vedere apparire un bagliore che localizzi il mio mezzo; mi sento un rabdomante in cerca di acqua nel deserto.

Speranza vana, percorro in cerchio quattro giri del parcheggio come su una pista di atletica, guarda in su guarda in giù, dai un bacio a chi vuoi tu ma l’auto non c’è.

Diceva bene la mia mamma che l’auto deve essere gialla o rossa, per individuarla da distante a colpo d’occhio: invece la maggior parte delle auto sono nere, o grigie, come di nero o grigio erano vestiti tutti su in tribunale, e solo io indossavo una giacca a vento rosa.

Sono ormai le 11.00 e io inizio a prendere in seria considerazione di essere vittima di un furto, anche se è poco plausibile.

E comunque ormai l’obolo di 5€ al comune è d’obbligo.

Mi sovviene il sogno di qualche giorno addietro, forse se inizio a piangere a dirotto mi sveglio, ma sono tutta sudata e ho il braccio fiacco per aver trascinato il fardello, sento le dita segate: il dolore è fisico, non può essere un sogno.

Mi fermo, e anzichè piangere inizio a ridere, ridere fragorosamente; nel ridere guardo a terra, se qualcuno mi vede può pensare che io sia pazza!

BINGOOOO!!!

Le striscie che delimitano i posti auto sono bianche, dove avevo parcheggiato l’auto io erano blu.

Pollicino ma chi sei??? all’improvviso realizzo dove ho parcheggiato: al piano di sotto!

Tutta allegra travolgo un simpatico nonnetto vittima del mio stesso errore che sta girando con meno energia ma più oculatezza.

Gli suggerisco la soluzione, c’è un altro piano sotto, e mi ringrazia cordialmente: ho fatto anche la mia buona azione quotidiana!

Risalgo con la scala mobile fino al piano 0 e scendo con l’ascensore, -2, premo il pulsante con senso di trionfo.

Le porte si spalancano e di fronte a me un ragazzo con la sacca per la palestra attende che io scenda prima di salire.

‘No no, io scendo ancora al piano di sotto’ lo scoraggio.

‘Ancora? Più giù di così non si va!’ mi risponde esterrefatto.

Desolata osservo la scena davanti a me, è lo stesso parcheggio che ho appena girato 4 volte.

Poi osservo meglio: mi ero lasciata trarre in inganno dal questuante che sta alla torretta, fratello gemello di quello del -1.

Esco dall’ascensore, ecco le strisce blu, ecco la mia auto.

Ed ecco anche la sbarra che pur essendo le 11.03 non esige un ulteriore pagamento e me ne esco, con la spesa fatta, con 5€ in tasca in più e perfettamente in orario per l’appuntamento delle 12.00.

I colori dell’autunno

Le foglie rosse sono il mio punto di contatto con l’autunno: mi dànno l’idea della resistenza, del tentativo estremo di rimanere colorati quando tutto scivola verso il grigiore.

Sono un grido di insurrezione all’egemonia del verde-giallo, al quale io mi unisco.

Le ore calde e luminose fanno ormai delle comparsate, io ho fiducia in loro, credo ancora che la componente estiva prevalga su quella invernale, scommetto su un abbigliamento non troppo pesante.

Anche le foglie rosse si vestono da estate, restano variopinte, e poi magari soffrono come me.

Mi sintonizzo con la tonalità aranciata, con le zucche, i cachi, i tramonti.

So che a breve arriverà il giorno in cui le foglie si rassegnano al grigio monotóno, o al bianco mantello della neve, e io indosserò piumino e anfibi.

Ammiro il carnevale dei marciapiedi resi sdrucciolevoli dalle foglie cadute, ma lo preferisco a quelli in cui lastre di ghiaccio ialine tendono insidie analoghe.

Fatemi uscire di qua

L’appuntamento è per le 18.00; alle 17.35 sono già al casello di uscita, perfettamente in orario, anzi ho un sufficiente margine di gestione degli imprevisti.

Il telepass sibila, la sbarra si solleva ma anziché il bivio direzionale sulla statale trovo di fronte a me una moderna stazione della metropolitana a quattro piani, sorta probabilmente nella notte.

Intraprendo curve paraboliche senza l’adeguata combinazione di velocità e rapporto marcia; sbando, rinculo, rimbalzo contro il guard-rail.

I sensi di marcia sono sovvertiti, due corsie vanno e una viene, nessuno rispetta le frecce direzionali della segnaletica orizzontale.

Abbandono l’auto in favore di una modalità di spostamento più snella: trovo la mia vecchia bicicletta rossa, quella che usavo per il tragitto stazione – aula universitaria.

Le gomme sono un po’ sgonfie, i freni chissà se funzionano ma il tempo stringe.

Continuo a salire e scendere tra i quattro piani, senza trovare una via di uscita da questo inferno.

Incontro un’amica, le chiedo di aiutarmi ma deve andare al lavoro, non puoi chiamare tuo marito? suggerisce.

Eccolo lì, che cammina tranquillamente, fumando una specie di sigaro. Non c’è tempo per discutere di cattive abitudini, non faccio nessuna osservazione, gli chiedo di accompagnarmi, le 18,00 si stanno inesorabilmente avvicinando.

Acconsente, a parole, ma di fatto incontra un amico, si siedono al bar ed ordinano due birre, iniziando una fitta conversazione densa di intesa.

Decido di contare esclusivamente sulle mie forze: salgo (o scendo?) di nuovo un piano, questa volta correndo a piedi. Estraggo lo smartphone, apro Google Maps, sono le 17,55… posso ancora farcela, arriverò in ritardo ma almeno arrivo: Eureka!!! Il GPS mi ha illuminato, ho capito da che parte andare.

Nell’entusiasmo appoggio l’iPhone e inizio a correre, correre, correre: al primo bivio non ricordo già più da che parte andare, faccio per controllare il cellulare ma l’ho abbandonato. Torno indietro per recuperarlo ma ovviamente non c’è più.

Non so che ore sono ma ormai sicuramente sono fuori tempo limite, non so dove mi trovo, ho perso l’auto, la bici e anche il telefono, oltre che chiaramente l’appuntamento importante.

Inizio a piangere: un pianto disperato, fatto di singhiozzi interminabili, un pianto liberatorio che dà spazio a tutta la mia incontenibile angoscia; sussulto con vigore tra un singhiozzo e l’altro, urlo fortissimo, lacrimo copiosamente.

Fino a che sobbalzo sul letto, apro gli occhi ed esalo un sospiro di sollievo: è solo un sogno!

XXI Trofeo Rovigonuoto

Cattedrali nel deserto, o white elephants in inglese: sono grandiose opere i cui costi non sono compensati dai benefici che dànno.

Ogni volta che viaggio lungo il prolungamento sud della Valdastico è a questo che penso: un’autostrada nel deserto, che percorro in totale solitudine, valicando una sequenza di ponti strallati; anche il navigatore mi considera un puntino solitario nel grigio, e la nebbia gli dà conferma.

È proprio grazie alla strada scorrevole e galeotto il ritorno dell’ora solare, che mi concede un’ora di sonno in più, che riesco a raggiungere il polo natatorio di Rovigo in meno di un’ora, e sufficientemente presto per riscaldarmi nella vasca di gara.

L’apertura della vasca ricorda un po’ il buffet di aperitivo dei matrimoni: appena vengono scoperti i vassoi si fanno tutti riguardo, poi basta che un invitato si serva e tutti gli altri si precipitano come i lanzichenecchi; così la vasca, si tuffa il primo temerario e nel giro di pochi attimi pare di essere tra le corsie del Toys al pomeriggio del 24 dicembre.

Non è facile alzarsi al mattino presto per andare a disputare una gara, pur sempre faticosa. Non ricordo perché ogni volta poi ritorno dalle manifestazioni con tanto entusiasmo, ma mi concedo la fiducia, una valida ragione ci sarà.

L’autunno avanza, le giornate si accorciano, le temperature si abbassano, l’umidità regna sovrana: si stava tanto bene sotto la coperta a dormire, perché ho puntato la sveglia alle 6.00? Non ho spiegazioni plausibili.

Ho dimenticato tutto dalla scorsa stagione: non ricordo nemmeno come distribuire le energie per gestire la distanza dei 200m; dovrei tenere un diario delle sensazioni che provo in gara, ricollegarle alle rilevazioni cronometriche, capire quando attaccare una gambata più energica e quando invece non lasciarsi sopraffare dalla fatica.

La gara di Rovigo apre la stagione del nuovo anno agonistico ed è una festa ritrovare un po’ tutti, riabbracciare le amicizie incontrate negli anni, con cui condivido la passione del nuoto.

Per me è un nuovo anno più speciale degli altri perché inauguro la categoria M45.

Quando ho cominciato a nuotare come master, appena 30enne, guardavo le signore sedute in prechiamata con un filo di compatimento: ma non avranno di meglio da fare? la casa? il marito? i figli?

Dentro di me però intendevo quel meglio riferito a loro, non che io ritenevo che fosse l’alternativa migliore possibile.

Sulle stesse panchine mi ci ritrovo adesso con le M30, M25 e pure le under (leggi ventenni) e mi ci sento, per certi versi, ancora coetanea: non ho dimenticato come ero a quell’epoca, mi rendo conto che non sono più la stessa, che sono cambiata, che la quotidianità è diversa, che anche gli allenamenti sono cambiati, o comunque lo sono le mie capacità di sostenerli, ma ora come allora mi ritrovo con la stessa voglia di competere.

Minore energia fisica, minore resistenza, anche minore reattività ma maggiore capacità di analisi, concentrazione e determinazione; e anche un pizzico di leggerezza in più, che non guasta non attendersi troppo dal risultato, è già un gran traguardo esserci.

Dopo il 200, che mi regala una piccola soddisfazione, trascorro tutta la mattinata in attesa di disputare la seconda gara, prevista per l’ora di pranzo.

Non mancano gli aneddoti da spogliatoio: il brivido di rimanere chiusa nel wc e trovare un’anima pia (o buona ascoltatrice) esterna che accoglie il mio richiamo; la collaborazione per aiutare un’altra ragazza (o dovrei chiamarla signora?) a comprimersi dentro il costumone.

Appena conclusa la seconda prestazione ritorno a gran velocità verso casa; dal viva-voce le mie bimbe apprendono che sono in transpolesana, la strada di connessione tra l’impianto la Valdastico, ma comprendono transcoresana e la cosa le diverte moltissimo: da allora ogni giorno Viola mi chiede di portarla dove si nuota veloce che si fa la strada scoresana.

La mia mancanza di voglia si è trasformata nuovamente in entusiasmo, anche se non so spiegarlo meglio di così, e nemmeno questa volta sono in grado di annotare le sensazioni che provo durante lo sforzo. Toccherà ripetere, e il prossimo appuntamento è proprio sotto casa.