L’atmosfera natalizia e la frenesia che la accompagna si librano nell’aria già dal 32 di ottobre.
Sì, perché non si fa nemmeno a tempo a celebrare Halloween che già ci si sente troppo nella tenebra, e allora su le luminarie, calate i Babbi Natale dai poggioli e si aprano le danze degli acquisti, la corsa all’ho già preso tutto mi mancano due pensierini.
Ci sono quelli che mordono il freno come i purosangue allo start, e vivono il mese di novembre come un noioso apostrofo tra le parole estate e Natale.
In ogni casa l’avvicinarsi della scadenza 25 dicembre vive i suoi rituali: a casa mia si concretizzava nella preparazione dei tortellini.
Ma cosa dico preparazione? Era una vera e propria produzione industriale! Non appena si girava l’ultima pagina del calendario eccolà, tutti precettati, non si esce più la sera, bisogna fare i tortellini.
Quanti? Tutti quelli che si può!
Perché? Questa è una domanda alla quale ho provato a dare delle risposte, nessuna di queste esaustiva.
Perché sono buoni; perchè li mangiamo al la sera del 24 in brodo, al pranzo del 25 al sugo e il 26 come avanzano; perché abbiamo un regalo pronto per chiunque passi a trovarci; perché li mettiamo in freezer che sono sempre buoni.
La tradizione affondava le radici nel passato remoto, ossia prima della mia nascita, quando la nonna lavorava nel ristorante da Pasquale. Aveva appreso l’arte e ne aveva fatto un lavoro da casa: c’è chi infila le perle dei braccialetti, chi cuce pezze di pellame e chi a cottimo annoda tortellini.
Mia nonna preparava, per professione, tortellini per tutte le panetterie del circondario. E quando prendi il ritmo per un’attività poi vai avanti per inerzia, anche quando l’attività cessa.
La catena aveva inizio con l’arrivo di mezzo prosciutto crudo che serviva come base per il ripieno. Parallelamente un numero imprecisato di uova fresche veniva sgusciato in un fontanone di farina bianca.
La polvere si sollevava quel tanto che serviva ad impastarsi coi tuorli, poi la nuvola precipitava in una pagnotta gialla che veniva lavorata e rimaneggiata.
Quando la consistenza era omogenea ne venivano affettate grossolanamente delle parti e faceva il suo ingresso in campo la pastamatic.
Rispetto alla produzione degli gnocchi, rigorosamente l’ultimo venerdì di carnevale, quella dei tortellini mi piaceva di più: le mani rimanevano meno appiccicose (le patate lesse sono un collante portentoso), nè subivo il fastidio della farina perché con le uova si amalgama meglio, nè si odorava la grappa.
Mi piaceva un sacco mangiare la pasta cruda, con una scusa fagocitavo tutti i ritagli.
“Basta che ti fa male!” mi ammonivano.
“L’ultimo pezzetto dai” che poi non era mai l’ultimo.
Eh perché l’ultima non era mai nemmeno la sfoglia che veniva stesa, c’era sempre un altro po’ di ripieno da finire.
Una task force quella che serviva: chi tirava la pasta, chi la stendeva sulla tavola e con la rotellina zigrinata creava i quadretti, chi distribuiva il ripieno dentro i quadretti, centrale sennò sborda!
E poi al via scatenate l’inferno, tutti ad annodare, super velocemente che la pasta si secca e non si chiude più, e si rischia che i tortellini si aprano durante la cottura.
Ricordo che i primi anni i tempi erano ancora più lunghi, e quindi la frenesia maggiore, perché la macchinetta veniva azionata a manovella; solo più tardi era comparso il motorino.
Eh ma si sente la differenza, a manovella erano più buoni, dicevano i nostalgici.
La fetta di impasto doveva passare una volta sull’1, due volte sul 3 e due volte sul 5; i numeri indicano la distanza tra i rulli.
Mi raccomando stessa trafila per tutte le fette, sennò si sente la differenza.
L’operazione di chiudere il tortellino era ogni volta oggetto di diatriba: guarda me, guarda che ti mostro come si fa, così e non così, quello tuo è rovescio.
Che poi si sente la differenza.
In effetti ciascun tortellino conservava l’impronta di chi lo aveva formato: un po’ come tutti gli ombelichi, o i padiglioni auricolari, o le punte del naso si somigliano ma non ne trovi due di uguali, così la conformazione anatomica del tortellino riportava alla dimensione delle dita, e alla manualità, di chi lo chiudeva.
Quando poi a tavola si ripescavano dal brodo una volta cotti si poteva affermare con un buon margine di sicurezza “Ecco questo lo hai fatto tu, si riconosce!”.
I tortellini annodati andavano disposti in ordine su un canovaccio perché si asciugassero; quello di metterli in fila era compito degli ultimi arrivati, e dei bambini.
Io ne approfittavo per mangiarne qualcuno di crudo, ancora più gustoso della sola pasta.
“Basta Elena che ti fa male!”
“È l’ultimo” rispondevo.
Ma non era l’ultimo, così come non era l’ultimo il tegame di ripieno sui fornelli, pronto per un altro lotto di produzione.
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Questo post nasce dalla raccomandazione “Fatene buon uso!” di un racconto di Priscilla.