Ai miei tempi c’era il sussidiario.
Oddio, se inizio così mi sembro mia nonna.
Voglio dire però, e non so come altro farlo, che quando io frequentavo le scuole elementari, che ora si dicono primarie, arrivati alla terza classe, iniziava il programma di storia-scienze-geografia e ci si appoggiava al libro di testo chiamato sussidiario.
Adesso i libri di testo sono molteplici, e a guardarli dentro non intravvedo lo stesso rigore.
Ad esempio, vado a memoria, e posso ingannarmi, il programma di storia prevedeva lo studio a partire dalla preistoria fino ad arrivare agli antichi romani.
Discorro con Sofia di argomenti simili mentre rincasiamo, le chiedo come è andata a scuola e mi risponde che hanno fatto storia, la genesi.
Poi mi abbozza un mezzo discorso di creta e argilla e soffio divino.
Prese un poco di argilla rossa / Fece la carne, fece le ossa
Ci sputó sopra, ci fu un gran tuono / Ed è in quel modo che è nato l’uomo
Nella mia testa ha preso il sopravvento questa strofa, ho smesso di seguire il discorso di Sofia e inizio a cantare dall’inizio la Genesi di Guccini, che era una delle mie canzoni preferite quando ero bambina.
La ricordo tutta, perfettamente, tranne sulle strofe parlate, in cui qualche termine mi sfugge.
L’intonazione parte un po’ stentata
Per capire la nostra storia, bisogna farsi ad un tempo remoto
C’era un vecchio con la barba bianca, lui la sua barba ed il resto era vuoto
Stentata, ad essere onesti, è un eufemismo perché Sofia mi interrompe
“Buuuuuu…. mamma…. pomodori marci”
Cerco di migliorare la nota
Voi capirete che in tale frangente quel vecchio solo lassù si annoiava
Si aggiunga questo che inspiegabilmente nessuno aveva la tv inventata
Sofia ripete più forte “Buuuu… pomodori marci!!! Pomodori marci!!!!”
Resto interdetta, indecisa se proseguire a cantare o sospendere. Non mi sembra di essere così pessima.
Mentre rifletto provo a proseguire
Beh poco male pensó il vecchio un giorno, a questo affare ci penserò io
Sembra impossibil ma in roba del genere, modestia a parte ci so far da Dio
Forse come cantante non ho fortuna, ma come narratrice vado meglio perché ho suscitato l’interesse di Viola: appena sospendo la performance dal sedile dietro perviene una vocina:
“Ancora pomodoi macci mamma”.
Che non dà torto a sua sorella, ma più che la melodia poté la curiosità.
Risollevata la mia autostima riparto a cantare.
Dixit: ma poi toccó un filo scoperto, prese la scossa ci fu un gran boato
Come tv non valeva un bel niente, ma l’universo era stato creato
Quanto mi piaceva questa canzone!
Mi leggevo e rileggevo il testo dalla busta che conteneva il vinile.
Mi ritrovo col pensiero indietro di trent’anni e più, a quando nè YouTube nè Spotify.
L’ascolto era una vera e propria audizione, che a casa mia avveniva la sera, spesso in alternativa ai palinsesti televisivi.
Dalla discoteca, intesa letteralmente come raccolta di dischi, veniva scelto un elemento, veniva adagiato sulla piastra rotonda e si ascoltava, in ammirazione della puntina che solcava la traccia.
Mentre lo stereo riproduceva il brano io tenevo in mano la copertina e seguivo le parole.
La scelta del vinile poteva durare anche mezz’ora, durante la quale si passavano in rassegna i vari dischi, uno per uno.
Il disco andava ascoltato rigorosamente tutto, prima il lato A e poi il lato B: se ci si allontanava dalla stanza bisognava prestare attenzione alla fine del gruppo di canzoni sul lato in riproduzione, altrimenti si rovinava la puntina.
Ogni album, all’epoca, era un qualcosa di tangibile: aveva una copertina, la quale riportava un’immagine che diventava imprescindibile dal prodotto sonoro; aveva un numero di tracce ben definito ed ordinato; aveva i testi delle canzoni.
Ci tenevo a prendere parte alla scelta, poteva fare la differenza tra una serata bella e una noiosa.
La raccolta contava un numero limitato di dischi, forse quelli che adesso potrebbero stare tutto dentro una chiavetta USB.
Di ogni album io apprezzavo una canzone in particolare, al massimo due, il resto era un riempitivo, che per certi dischi ero disposta ad ascoltare, pur di sentire la mia.
Tra i miei brani preferiti, oltre a questo di Guccini, c’era Samarcanda di Vecchioni.
Avevo inteso che la nera signora era qualcosa di funesto, ma oh-oh-cavallo mi metteva tanta allegria addosso.
Un altro pezzo che per me era formidabile era Ma che bontà di Mina: sapevo che andava a finire in cacca, e ridevo fin dalla prima strofa.
La collezione non includeva nessun Celentano, nessun Ron, nessun Pooh, nessun Ricchi e Poveri.
C’erano invece De Andrè, di cui apprezzavo Bocca di Rosa, ma che qualche anno più avanti mi avrebbe ammaliato con Don Raffaè.
C’era Battiato, che in verità era su nastro, di cui mi piaceva Centro di gravità permanente.
C’erano i Matia Bazar, vincitori di Sanremo con Vacanze Romane, di cui preferivo Elettroshock. La copertina dell’album era grigia e sopra erano stilizzati una coppia di ballerini, a righe slittate.
C’era Edoardo Bennato con il suo Sono solo canzonette, a base di Peter Pan, che mi piaceva tutto o quasi.
C’era la Vanoni, con un disco che in copertina riportava la sagoma del suo viso contornata dai ricci, e riempita di una carta a effetto specchio.
Mi piaceva quel verso di Vai Valentina “lacrime calde su tre fette di saint-honoré”, che vedevo un po’ come uno spreco, dal punto di vista della mia golosità, ma tre fette sono ben tre fette!
C’erano anche dischi di musica straniera, ma niente Beatles.
Tra gli anglofoni ricordo in maniera indelebile The Wall, dei Pink Floyd, di cui più tardi avevamo acquistato anche il VHS del film.
L’album era doppio e la copertina era una serie di blocchetti, i mattoni del muro, da cui le lettere dei testi, scritti in un carattere simile al corsivo, lasciavano colare gocce di sangue.
Tra ascolto del disco e visione del film credo di poter affermare che quell’opera costituisce una pietra miliare nella mia formazione.
Poi c’era una raccolta di Janis Joplin, che mi dava energia col suo Piece of my heart, ma verso la quale nutrivo un po’ di perplessità, perché mi avevano raccontato che era morta per aver sbagliato a farsi una puntura.
Infine tra gli ultimi LP entrati a far parte della collezione, dato che poi i vinile sono caduti in disuso in favore dei nastri e dei cd, ricordo con piacere:
– i Talking Heads con il brano Blind
– Elton John con l’album Reg Strikes Back
– Terence Trent D’Arby con il pezzo Sign Your Name
(Questi ultimi due acquistati dietro mia iniziativa).
E ovviamente gli album di Madonna, mio idolo indiscusso, Like a Virgin e True Blue, che mi ero fatta regalare.
Alla luce di questo rivangamento del passato non so se faccio più fatica a spiegarmi:
- come mai non esiste più il sussidiario;
- perché Terence Trent D’Arby si è riciclato col nome di Sananda Maitreya;
- come sia possibile che da cotanto background mi sia ridotta ad ascoltare insieme alle mie figlie Rovazzi e Fedez.
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