Le assaggiatrici

Immagino un po’ il rammarico di Rosella Postorino quando ha scoperto che la donna che voleva intervistare non c’era più.

La donna che voleva intervistare si chiamava Margot Wölk e nel 2013 aveva rivelato alla stampa tedesca il suo segreto, di avere lavorato per il Führer.

La notizia, molto particolare, era stata ripresa anche dalla stampa italiana ed aveva incuriosito la scrittrice.

Purtroppo il tempo non ha giocato a suo favore e la Postorino è stata costretta a lavorare di fantasia ricostruendo una storia attorno all’esistenza reale di un gruppo di assaggiatrici, donne con la missione di pre-gustare le pietanze servite ad Hitler, che viveva nella fobia di essere avvelenato.

Immagino il suo rammarico dico, perché appena dopo aver letto la prima pagina del libro ho iniziato a ripensare alle mie nonne e a quei racconti del tempo della guerra, ai quali prestavo orecchio dissimulando noia e che invece avrei fatto meglio ad ascoltare.

Me ne ricordo uno in particolare: la nonna materna raccontava che nell’estate del ‘44, a pochi giorni dal termine della sua prima gravidanza, con un pancione così, riceveva la visita di due soldati fascisti sulle tracce di un partigiano, e le puntavano contro i fucili, contro il suo pancione così.

Del suo racconto conservo il dettaglio del sudore: sudava per la canicola, sudava per la gravidanza, sudava per la paura.

Quell’episodio l’aveva segnata, per quel fatto giustificava ogni comportamento di suo figlio, mio zio, nato ‘in tempo de guera’.

Il ritardo nella ricerca a mio avviso è stato provvidenziale: non potendo intervistare Margot Wölk l’autrice ha dato vita a personaggi inventati e reso un quadro molto suggestivo delle vicende.

Margot Wölk diventa Rosa Sauer (forse alter ego di Rosella, nome di battesimo della Postorino) e narra in prima persona ciò che ha vissuto: come ha lasciato Berlino per arrivare al confine con la Polonia, come ha perso i genitori, come è stata arruolata per la missione di assaggiatrice, e come l’ha svolta.

Oltre alla descrizione delle attività quotidiane il romanzo si dipana nel racconto di molti altri aspetti: il rapporto con il cibo, i legami di amicizia, i soprusi, la vita che va oltre la guerra.

Lo stile è fluente, pur essendo ricco di dettagli nelle descrizioni, molto realistiche.

Il racconto passa dai pensieri alla realtà, dalle ipotesi al concreto, dal passato al presente e rende il lettore compartecipe delle situazioni.

Molte le riflessioni che la lettura mi ha indotto: l’ambivalenza del cibo, nutrimento ma possibile veleno mortale; l’ambivalenza dell’atto sessuale, fonte di senso di colpa quando avviene al di fuori degli schemi e pulsione vitale al tempo stesso; la rivoluzione che è stata introdotta nella società dall’uso dei contraccettivi; i meccanismi dell’odio e della prevaricazione che nonostante sia trascorso quasi un secolo non hanno subito mutazioni; i rapporti di amicizia al femminile, così controversi e così intensi.

La figura di Hitler c’è ma non si vede: nonostante venga descritto da lontano, avvolto da un alone di mistero, che nemmeno le SS arrivano tutte ad incontrarlo, alla fine anche lui è un tubo digerente; quando ingoierà quegli stessi succulenti piatti preparati da Briciola, il cuoco, se mangia gli asparagi la sua urina avrà lo stesso odore caratteristico di chi il piatto l’ha mangiato un’ora prima di lui.

Nessuna indulgenza nei suoi confronti: viene descritto come un pazzo, un maniaco ossessivo compulsivo, uno che, al di là delle crudeltà della guerra, manda i suoi soldati a ripopolare il bosco di rane, dopo che erano state uccise assieme alle zanzare, perché senza il loro canto non riesce ad addormentarsi.

Rosa ha anche un marito, Gregor; avrebbe un marito, perché lui l’ha lasciata con i suoceri ad attenderlo, mentre andava al fronte a combattere; aveva un marito, perché dal fronte viene annunciato come disperso. Avrà un marito, ma… non voglio anticipare troppo i contenuti e guastare la lettura.

Rosa ha un amante, se lo si può considerare tale in contumacia del marito.

Un amante che forse non la ama, o a cui non è concesso di amarla, ma che, non sappiamo a costo di quali rischi, le salva la vita.

L’autrice descrive l’uno e l’altro rapporto senza retorica nè luoghi comuni, rendendo perfettamente il dilemma nel lettore.

Viene affrontato il tema della maternità, della procreazione consapevole e responsabile, e anche di quella fortuita.

Il gruppo di donne, inizialmente estranee l’una all’altra, e per alcuni aspetti in contrasto tra loro, a poco a poco diventa un nucleo di amiche, seppure con affinità distinte.

Sul pulmino che le conduce al lavoro sembra di sedere accanto ora a Ulla, ora a Beate, ad Heike, a Leni, ad Elfriede e ad Augustine; come se la loro cattività costringesse anche noi ad approfondirne la conoscenza.

Le assaggiatrici non sono tutte convinte della bontà delle idee del Fuhrer: solo un paio di loro sostengono la causa tedesca.

I capitoli conclusivi del romanzo sono magistrali: su un treno che, come quello di de Gregori, non fa più fermate neanche per pisciare, Rosa ancora una volta si trova a stringere nuove amicizie, a condividere i suoi viveri, a consolare un pianto. Fino ad arrivare a casa, fondendo passato e presente in modo superlativo.

Pur descrivendo fatti accaduti quasi un secolo fa, alcuni di essi mi hanno richiamato potenti analogie con episodi di cronaca attuali, come lo stupro nei casi in cui viene sollevato il dubbio di un possibile consenso da parte della vittima; o come la condizione dei migranti.

Al contrario di un altro romanzo che racconta vicende accadute nello stesso periodo storico, e che non sono mai riuscita a terminare (‘La banalità del male’), ho divorato questo in pochi giorni: ha saputo raccontare la guerra in tutta la sua crudeltà senza creare orrore e raccapriccio, appigliandosi a ciò che di positivo vive sopito nel corso del conflitto.

Nella caserma di Krausendorf rischiavamo di morire ogni giorno – ma non più di chiunque sia vivo. Su questo aveva ragione mia madre, pensavo mentre il radicchio mi croccava tra i denti, e il cavolfiore impregnava le pareti del suo odore domestico, rassicurante.

L’arte della negoziazione

I secondogeniti trovano le porte aperte dai fratelli maggiori: un genitore col primo figlio fa pratica, scopre un sacco di cose, capisce un po’ come funziona.

Poi col secondo cerca di recuperare qualche nozione dalla memoria, se ne ha fatto tesoro.

C’è anche da dire che mica sono tutti uguali i figli: Sofia ha sempre dormito la notte intera, dopo il primo mese; Viola ha trascorso i primi tre anni di vita con quattro risvegli per notte, poi PAF, come per incanto dorme da sera a mattina.

Bei tempi però quelli in cui si svegliava, perché adesso è tutta una battaglia, specie per lavarsi e vestirsi, che guardacaso sono quei momenti del mattino che precedono l’uscita di casa, in cui rosichi i tempi all’osso.

Le scuole di pensiero e i pedagogisti si schierano su due fronti opposti: non ha senso opporre un muro al muro, da un lato, e non si può dargliele vinte, dall’altro.

Devi farle capire chi comanda, e se lo chiedi a lei, anche in piena crisi di urla, pianti e capricci, senza interrompere i singhiozzi, alza la manina e vota se stessa.

Bisogna progressivamente affinare l’arte del negoziato: piccole concessioni, solidi NO, ricerca dei punti di incontro, tutto un inanellarsi di do ut des per convergere al risultato finale.

Devo aver ignorato la sua femminilità: io che le gonne le indosso solo quando ne ho dimenticato la scarsa praticità dalla volta precedente, che le scarpe col tacco per me sono gli anfibi quando hanno un buon carro armato sotto il tallone, che le camicette le conservo tutte nell’armadio senza mai usarle; lei che nei negozi sorprende le commesse quando sceglie il copriletto dell’uomo ragno o l’ombrello di Spiderman.

Un giorno, nel tentativo di conciliare i tempi ristretti con la sua vestizione – Viola scegli quello che vuoi o ti porto a scuola in pigiama: dobbiamo andare! – le è capitato tra le mani un paio di collant: avevo sempre ritenuto fossero poco pratici, per lei invece è stato amore a prima vista.

Vuole fare lei, vuole vestirsi da sola; cerco di coordinarla a parole: “allunga quel piedino per arrivare infondo dove è la cucitura” le suggerisco.

“No faccio da sola!” protesta a gran voce.

E sfila tutto e riparte da zero.

La osservo mentre si spoglia: guardo quelle pieghe che fa la carne sulle cosce tornite, guardo gli arti in miniatura, eppure così perfettamente fedeli al modello in grande scala, la bocca, le orecchie, il nasino; gli occhioni azzurri e quei boccoli da bambola che le ricadono sotto le spalle.

“Mamma facciamo un abbraccio e poi mi vesto?”

Come fai a rifiutare una simile proposta? Mi avvolge il collo, con le sue braccia arriva appena a cingermi, è così piccola! eppure dentro il suo abbraccio mi sento completamente racchiusa, e non solo fisicamente.

Gioca con la mia collana, sposta il ciondolo dietro la nuca, mi gira la testa per farmi vedere dove è finito, poi lo riporta avanti, “ecco guarda adesso è qua”.

Mi mette un ditino sotto il mento, dove da qualche anno un brutto foruncolo si ostina a riformarsi: “sci è sciolto il brufolo, mamma?”

Quasi, rispondo.

“Ti devo dire una cosa, mamma”

Annuisco e ascolto: mi sussurra all’orecchio parole incomprensibili, non solo perché biascicate a bassa voce, ma prive di senso completamente.

Tra un tira e un molla arriva ad infilarsi i vestiti, poi le scarpe.

Sceglie un oggetto transizionale:

“Voglio portare a scuola questo, è della Sciofia. Sssshhhh, non diciamole niente, bocche cucite!!!”

Orgogliosa della complicità creata, mi ripassa il ditino sulle labbra, come se avessero una zip, poi fa altrettanto sulle sue.

Se parlo mi ripete di fare silenzio; passo il dito sulle mie labbra, per sigillare la zip.

“No mamma, così si apre… è dall’altra parte” mi corregge, e ripassa il suo ditino nel verso opposto.

Lo zucchero filato

Forse c’erano anche la scorsa settimana, ma con più ore di luce si notano meglio.

Forse ne sono piene le bacheche di post che inneggiano alla primavera.

Forse l’ho già detto, o forse (sicuro!) l’ha già detto qualcun altro.

Forse le temperature ancora rigide dovrebbero mantenere il mio entusiasmo un po’ contenuto.

Ma non posso fare a meno di celebrare quel tripudio di gemme che è sbocciato sui rami, quel puntinismo rosa che mappa il cielo e vela i lati delle strade, come il tutù di una ballerina che danza.

Quando farà veramente caldo, quei boccioli non resisteranno e diventeranno fiori e poi frutti ma non adorneranno più l’aria con quei meravigliosi, immateriali e innumerevoli pallini color pastello.

Io rimango incantata davanti ai tronchi, come un bambino al luna park con lo stecchino dello zucchero filato rosa in mano.

Le gabbie

Ci costruiamo delle gabbie entro cui ci intrappoliamo, gettiamo le chiavi e poi chiediamo soccorso, senza desiderare realmente di essere liberati.

Ci sono quelli ad esempio che non si fanno il carburante all’automatico, perché dicono di non essere capaci: e se ti trovi in riserva dopo l’orario di chiusura? Aspetti che riapra? Capisco un bambino, che comunque non guida, ma un adulto per il mio modo di vedere dovrebbe essere in grado di autoaiutarsi.

Poi ci sono quelli che ‘non hanno facebook’: in verità in verità vi dico, l’unico che ‘ha’ facebook è Zuckerberg, gli altri si limitano a farsi un profilo, ovvero immettere un indirizzo email. Poi se condividere le proprie foto o i propri pensieri è una scelta.

Niente, loro dicono che sono contrari.

A me pare anticonformismo.

Ci sono anche i contrari a whatsapp, e questi mi lasciano ancora più perplessa, perché cosa ci sia da essere contrari a un programma di messaggistica non so, è come essere allergici alla rubrica del telefono.

Di fatto in un insieme di persone c’è sempre qualcuno che non usa whatsapp, che è una scusa strategica per defilarsi dal fastidio di certi gruppi; convengo che vi siano numerosi soggetti che aggiungili a un gruppo e

Vorranno

Commentare

Ogni

Singolo

Intervento

Grazie

Prego

Scusi

Tornerò

Però come col carburante, siamo adulti, bisogna imparare a gestire anche i rapporti interpersonali.

A questi devi sempre riferire con un messaggio dedicato, credo che abbiano avuto un’infanzia difficile e vadano cercando conferme che anche loro sono degni di essere amati.

Mai sentito nessuno giustificarsi per non ‘avere’ Telegram, più facilmente ne ignorano l’esistenza.

Poi ci sono gli alimentaristi alternativi: ci sono quelli che rifiutano le verdure, quelli che non mangiano il pesce, quelli che il formaggio proprio no. Fino qui si tratta di gusti, ci può anche stare.

Poi ci sono i vegetariani, che non mangiano la carne. Posso anche capire, ma normalmente questo non è un gusto ma una scelta, legata a ragioni etiche.

Siamo già più verso la gabbia, ma con la porta aperta.

E poi ci sono i vegani, che della loro scelta etica fanno una vera e propria malattia, con tanto di certificazione esposta nei locali pubblici e nelle etichette dei prodotti industriali: il vegan ok.

Come se mangiando un prodotto non certificato gli si scatenasse chissà quale reazione, simile a quella dei celiaci che invece soffrono di una patologia reale e, loro malgrado, il glutine non lo possono proprio mangiare.

Questi soggetti (e non mi riferisco solo ai vegani, ma a tutti coloro che ‘io non’) si creano delle categorie virtuali, fantasiose, illusorie e dicono di appartenervi, come se l’uscirne non fosse una scelta a portata di mano.

Funziona così anche per i rapporti interpersonali e le amicizie: ci si cementifica su quelle che sono le relazioni abituali e, per pigrizia, non ci si apre al prossimo.

Chi sorveglia l’influencer?

(Quis custodiet ipsos custodes?)

Il 20 marzo è la giornata mondiale della felicità; il 20 marzo è nato Leone Lucia, il figlio della più famosa coppia di influencer del momento.

Coincidenze? Io credo di sì, ma la cosa mi ha spinto ad un’osservazione.

Ho visto circolare la foto del terzetto, mamma-papà-figlioletto, in maniera virale.

Ho letto commenti di riverenza, quasi venerazione nei loro confronti.

Considerazioni su quanto siano belli, ciascuno preso individualmente, ancora di più messi insieme.

Ammirazione per la mamma, così bella e in forma anche appena dopo aver partorito.

Vero, lei è bella, il piccolino pure (lui no, dai, siamo onesti).

Io però dopo i primi due secondi di impatto ho iniziato a chiedermi: chi ha scattato la foto? È bastato un solo scatto, o è frutto di numerosi provini? Lei è davvero al naturale o si è sottoposta a un maquillage pre inquadratura? Magari ha anche rifatto la piega ai capelli? Quanto tempo hanno dedicato alla foto ben riuscita? Quante persone hanno avuto attorno?

E allora mi sono calata un pochino nella situazione, ho pensato a quel momento così intenso, così intimo, così privato venduto sul mercato.

Mi sono chiesta a quale prezzo si possa rinunciare ad un’ora di simbiosi col proprio primogenito per lasciarsi ritoccare il make-up e suggerire la posa più plastica da assumere mentre il fotografo scatta.

Un momento esclusivo e personale condiviso col mondo intero, con una troupe di collaboratori attorno e poi con tutto il popolo del web pronto a criticare il minimo dettaglio.

E mi hanno fatto un po’ pena, i due influencer: è vero che io lavorando un mese forse non arrivo a percepire un decimo di ciò che loro ricevono da uno degli n sponsor che stanno dietro una foto, per una maglia indossata o una scarpa che rientri nell’inquadratura.

Ma in fin dei conti anche essere invisibile ha i suoi vantaggi.

Sentieri (del nuoto libero) – Puntata 4738532

Centro sportivo – Piano vasca – Interno giorno – Tardo pomeriggio

Un orario insolito per i miei allenamenti ma per una serie di incastri sono finita lì, nell’orario e nello spazio dedicati al nuoto libero.

Che poi non è che sono fuori contesto: è libero (e pagante) anche il mio di nuoto.

Lo spazio c’è, per tutti. A volte è il buonsenso che scarseggia.

Non sembra questo il caso in oggetto: tutto scorre tranquillo.

Quando entro in corsia ci sono due donne che nuotano insieme, mi lasciano spazio, ci incrociamo pochissime volte perché aspettano alla parete che io riparta.

Sono più veloce di loro ma questo non sembra infastidirle minimamente.

Quando escono per qualche istante mi ritrovo da sola in corsia; in pochissimo entra in acqua una ragazza in avanzato stato di gravidanza.

Siamo solo io e lei, ci incrociamo e la supero senza nessun problema: nuota pianissimo, è quasi ferma, non faccio nemmeno fatica, non serve accelerare nè fare grandi spostamenti laterali.

Poi ad un certo punto qualcosa mi taglia la strada: una terza signora è entrata in corsia con noi e anziché percorrerla per lungo la attraversa in larghezza.

Così come per strada c’è un senso di percorrenza da rispettare e delle precedenze, le stesse vigono in vasca.

Niente, questa donna incurante della presenza pregressa di altri utenti si prende la libertà di circolare a modo suo.

Penso stia cercando di uscire, mi sembra in difficoltà, non la vedo in grado di rimanere dove si è messa; suppongo che stia cercando di portarsi nella corsia lungo il muro.

Mi sbaglio: questa tizia inizia a nuotare, tutto a modo suo; ha scelto la corsia in cui mi trovo io.

Indossa un costume di quelli con la sgambatura anni ‘30, che le copre interamente i glutei.

Mentre nuoto riesco a distinguere chiaramente l’una dall’altra: una con la pancia prominente, l’altra con una specie di burqa.

Con un minimo di attenzione quando le incrocio riesco a portare avanti il mio lavoro senza difficoltà, senza creare situazioni di pericolo.

È un lavoro prevalentemente di soglia il mio, con qualche variazione di velocità e adeguato riposo.

Quando arrivo a toccare la parete e mi fermo la seconda signora, quella col burqa sulle chiappe, mi prende una mano.

Lei non poteva sapere che mi stavo per fermare, quindi posso tranquillamente affermare che mi ha interrotta.

Niente di paragonabile al tizio che una volta, mentre facevo una virata e cercavo di chiudere una distanza in velocità, mi ha afferrato per una caviglia e apostrofata ‘ehi tu… guarda che non sei mica Federica Pellegrini’.

Però anche questa a suo modo è stata piuttosto invadente.

E per cosa mi ha fermata?

“Scusa ma tu… sbagli la bracciata!”

Che se mi avesse detto che sbagliavo candeggio l’avrei guardata con la stessa bocca spalancata.

“Tu fai così” prosegue mimando il mio recupero a braccio teso “mentre la bracciata corretta è così” e in quello mi dimostra un movimento a gomito alto.

“No perché con quel braccio lì ho paura che mi colpisci”.

Quindi il suo consiglio non solo non produce effetti in termini di efficacia della nuotata, ma ha un secondo fine, nemmeno troppo velato.

La rassicuro che sono in grado di nuotare in mezzo agli altri senza entrare in collisione, che non si preoccupi, ma lei insiste che “questo è”.

In cuor mio ricevo la conferma che si è messa in una corsia non adatta a lei, ce ne sono altre, spero le prenda in considerazione.

Il mio tempo di riposo è scaduto, riparto e cerco di accontentarla stringendo il più possibile il braccio in fase di recupero, almeno nei tratti in cui ci incrociamo.

Lei invece esce: non la vedo più e dopo essermi accertata che non è rimasta sul fondo completo le mie sequenze.

Trascorre circa mezz’ora e quindi esco anche io.

Sono pronta per andarmene, lavata e vestita, in spogliatoio trovo un’amica e non resisto a raccontarle immediatamente l’accaduto.

E lì mi si materializza dal nulla la stessa signora, che evidentemente non aveva troppa fretta nemmeno fuori dall’acqua: mi riprende di nuovo a spiegare la sua tecnica, commentando che io, oltre a sbagliare, sono troppo aggressiva.

“Vedi, io voglio solo insegnarti come si fa… ho fatto agonismo quando avevo 6 anni. Tu invece ti alteri, non accetti i miei consigli…”.

Caro Zucky ti scrivo, così mi distraggo un po’…

… e siccome sei moooolto lontano con gli #hashtag ti #scriverò!

Ciao Mark, sono una degli innumerevoli utenti della tua rivoluzionaria creazione, il più famoso social network al mondo, #facebook, ed è di quello che ti voglio parlare.

Mi sono iscritta nel lontano 2008, esattamente 10 anni fa, una vita.

Da allora la mia esistenza è cambiata, ma non solo la mia.

Chi non ha un profilo si giustifica ‘non ho fb’; io invece si, io il profilo ce l’ho, anzi ho anche la pagina.

Si stava bene anche prima certo, ma ora è impossibile prescindere dall’esistenza di questo portale di scambio opinioni, fotografie, inutilità e informazioni preziose.

Tutto mescolato in un gran calderone: un frullatore in cui vengono buttati gattini, risultati sportivi, nascite e morti, amore e odio, esuberanza ed insofferenza, insulti razzisti, gossip, lamentele, foto di piatti di pesce e poi si aziona il mixer ad alta velocità.

Ho attraversato momenti bui, momenti in cui dubitavo se fosse opportuno condividere così brutalmente tanti aspetti della mia persona e della mia vita.

A momenti mi sono sentita sotto i riflettori, e sono diventata pudica.

In altri contesti mi sono sentita ignorata, pur GRIDANDO nessuno mi ascoltava, mi sentivo un po’ la donna col megafono di Daniele Silvestri (si ok, quello era l’uomo, ma non facciamo distinzioni gender).

Mi sono sentita spiata, anzi ne ho avuto poi le prove, ed è stato imbarazzante (più per il candore con cui chi mi spiava ha ammesso di farlo, ad essere onesti).

A volte mi sono sentita investita da un treno di cazzi altrui, che a me nemmeno interessavano.

Ho vissuto periodi di angoscia a ritrovare condivise un sacco di disgrazie e sentrimi il disagio altrui rovesciato addosso come una pentola di brodo bollente.

Ho adottato, nel tempo, diverse misure per arginare l’effetto che questo big bang mi causava.

Ho eliminato amicizie, poi le ho richieste; ho nascosto profili, ne ho bloccati; ho chiesto l’amicizia a sconosciuti, ho propagandato la mia pagina come un venditore del Folletto, ho pensato di chiudere tutto, baracca (profilo) e burattini (pagina).

Mi sono fatta coraggio ed ho interagito con sconosciuti, sforzandomi di esporre in maniera più trasparente possibile il mio pensiero; mi sono fatta violenza ed ho evitato di controbattere in alcune conversazioni indisponenti.

Insomma, di casino ne ho fatto parecchio anche da sola.

Poi sei arrivato tu, a fare ordine, a moderare, a cercare di contenere questo giocattolo che ti sta scappando di mano.

Tu hai introdotto i tuoi algoritmi, per far si che noi utenti godiamo di un prodotto migliore, per evitarmi di verificare chi seguo e chi mi segue e tenere ben presente con chi sto parlando, a chi mi rivolgo.

Ascolta Mark, io faccio il programmatore (o la programmatrice, visto che ho insistito sulla donna col megafono), qualcosa di algoritmi ci capisco e vorrei segnalarti le mie insoddisfazioni.

Io capisco le tue buone intenzioni, ma si sa, le regole in informatica vengono rispettate in maniera ferrea.

Io non so bene quali flosofie stiano alla base di certe tue scelte ma te ne riporto le conseguenze:

– sul profilo vedo le cose con molto ritardo, e provenienti sempre dagli stessi profili; vedo notizie vecchie di giorni e scopro che certi post appena pubblicati mi vengono nascosti;

– sul profilo vedo un sacco di cose che non mi interessano affatto, ovvero che ai miei ‘amici’ piacciono cose commerciali, tipo Wish o L’Oreal, e a me non me ne importa alcunchè. Poi scopro che non è nemmeno vero, che loro non hanno mai messo mi piace a certe pagine;

– sul profilo ogni 2×3 mi proponi gruppi che potrebbero interessarmi o persone che potrei conoscere, e guarda, ti assicuro che ti sbagli di grosso, non mi interessano per nulla, anche senza scomodare il condizionale;

– sulla pagina ogni tanto ricevo qualche commento da persone che non mi seguono, e a fianco mi compare il pulsante invita: solo che il pulsante è congelato, che è un po’ come quando mia nonna mi diceva andiamo in centro a vedere gli altri che mangiano il gelato; se lo faccio da desktop a onor del vero il pulsante funziona ma mancopelcaz che qualcuno accetta (statisticamente ci sarà uno che pulendo lo schermo ci prende dentro e accetta, no?)

– i commenti che faccio a nome della pagina devo ricontrollarli perchè non mi notifichi che due o tre persone si sono prese la briga di rispondermi;

– gli utenti che hanno messo mi piace alla mia pagina risultano solamente ‘invitati’ … chissà se vedono le mie pubblicazioni;

– infine, mi continui a dire ‘dai forza stai raggiungendo i 500 followers’ (che saranno mai, sono 4 gatti) e …. il contatore scende: che ci abbiamo? le perdite? dobbiamo verificare le tubature;

– la visibiltà: siamo passati dall’avere un numero di visualizzazioni pari a 3 o 4 volte i followers ad 1/3, 1/4 anche 1/5.

Posso anche ammettere di aver peggiorato il mio stile, di essere diventata noiosa e aver stancato quei pochi; ma secondo me qualcosa si intoppa. Nel dubbio, tu mostrali pure i miei post, poi la gente sceglierà se leggerli.

-sponsorizzare? ecco veniamo alle dolenti note: se la gente non mi legge gratis, ti pare che mi legge a pagamento? o meglio, si, ma nel caso dovrei pagare LORO, i lettori, non TE!!!

I LOVV YO (Vicenza città bellissima)

Per la serie cose che ritenevo scontate e noiose e invece magari possono interessare, oggi parlerò della mia città, Vicenza.

‘Vicenza città bellissima’ è il titolo di un libro uscito negli anni ‘80 che parlava appunto di Vicenza; all’epoca era uno status symbol possederne una copia.

Non sono mai andata oltre la copertina, di cartone marrone, che riproduceva una litografia; sono comunque convinta che dicesse il vero: che Vicenza è bellissima.

Solo che è una delle tante cose a portata di mano, scontata, ovvia.

Hai l’ovvio, (I lovv yo), I love you.

Vicenza, nel centro del Veneto, fa un po’ da Cenerentola nella regione.

In secondo piano rispetto a Venezia, capoluogo e meraviglia unica al mondo; ma anche rispetto a Verona, città dell’Arena e di Giulietta e Romeo, e a Padova, storico centro di cultura universitaria.

Rispetto ad esse però vanta una dimensione e una struttura a misura d’uomo, senza soffrire dei limiti di Belluno, città di montagna; di Rovigo, in piena depressione polesana; o di Treviso, che è bellissima ma tagliata fuori dalla direttrice principale, la autostrada A4.

Sono nata a Vicenza e ci ho vissuto fino ai 25 anni; poi mi sono trasferita in un comune limitrofo (e poi in un altro), ma la mia città rimane sempre lei, il mio riferimento.

Vicenza sorge sulle rive del fiume Bacchiglione, che chiamare fiume come si chiamano il Po e l’Adige fa sorridere; nel 2010 quando è esondato ha fatto prendere un po’ paura, anche a me che non abitavo più lì, ma ci si trovava ancora la mia casa, e proprio lungo la sponda.

Un tempo lì vicino correva anche la roggia Seriola: un giorno una ragazza in bicicletta è scivolata dentro ed è subito riemersa con le ninfee in testa. Poi la roggia è stata deviata e il suo corso interrato.

Ma non è questa la Vicenza che volevo raccontare.

Vicenza è detta anche la città del Palladio per via di un architetto del 1500, tale Andrea (di Pietro della Gondola), che ha progettato numerose opere realizzate sul territorio.

A Vicenza il nome Palladio è utilizzato per ogni cosa: esiste il centro commerciale Palladio, il centro sportivo Palladio, il circolo tennis Palladio, esiste per certo un bar (uno solo?) Palladio, esisteva la scuola media Palladio e basta pensare ad una attività (libreria, salone di bellezza, centro medico, ferramenta, cartolibreria o che altro) che di certo il nome Palladio è già in uso.

Qualche anno fa stavamo andando a una festa, non ricordo esattamente nè di chi nè con chi; ricordo bene però che uno del gruppo non era ancora arrivato al ritrovo e aveva telefonato chiedendo di attenderlo.

“Ma dove sei?”

“Alla rotonda del Palladio” intendendo la villa Capra, aveva risposto in tono rassicurante.

“Sei sempre il solito ritardatario, arrangiati, noi partiamo!” aveva sibilato quella che aveva ricevuto la telefonata, interpretando che si trovasse alla rotatoria del centro sportivo, dall’altro lato della città.

Invece era 500 m dietro di noi.

Il cuore della città, di origini romane (Vicetia), è il decumano massimo, ora Corso Palladio, via pedonale principale dove si ‘fanno le vasche’ ovvero si passeggia avanti e indietro; è uno dei principali luoghi di conoscenza e di incontro.

Fino a qualche lustro fa il sabato pomeriggio, o la domenica, lo ripetevo avanti e indietro numerose volte; adesso con le bambine è impossibile percorrerlo tutto anche una sola volta. Già è molto se riusciamo ad arrivare in piazza delle Poste (così chiamata perchè ospita le Poste Centrali) dove si trova la fontana dei bambini.

Si tratta più di una vasca che di una vera e propria fontana, dove l’acqua ricircola in una vasca labirintica. Al centro una statua di bronzo con due bambini su un’altalena, sulle parti emerse numerosi bambini in carne ed ossa che sfidano l’equilibrio; in estate capita di vedere qualcuno che trae giovamento nell’immergere i piedi.

A Sofia piace molto perchè quando arriviamo lì le devo ripetere ogni volta la descrizione del giro che fa l’acqua: sgorga da un fiotto, si incanala in una strettoia etc. fino a raggiungere lo scarico dove trova una pompa che la riporta all’inizio.

La storia della fontana, altro che Cappuccetto Rosso o Cenerentola.

Lì vicino si apre la piazza dei Signori, con l’adiacente piazzetta Palladio (tanto per essere originali).

La piazza dei Signori è un luogo di ampio respiro, veramente estesa; il giovedì mattina ha luogo uno dei principali mercati, e si riempie di bancarelle. Per girarle tutte si fa una serpentina di tre giri.

Nello stesso luogo una domenica al mese si tiene il mercato dell’antiquariato.

È anche la piazza dove a San Silvestro si festeggia l’arrivo del nuovo anno.

La piazza dei Signori è costeggiata su uno dei lati lunghi dalla Basilica Palladiana, affiancata dalla torre bissara.

Su uno dei lati corti si trovano due colonne.

Una volta ho sentito una guida turistica raccontare che venivano utilizzate per le pubbliche esecuzioni ma non ho trovato riscontro di questo; per certo alle mie figlie piace scalare la gradinata che fa da base e sedersi in cima a mangiare il gelato.

Sull’altro lato si trovano la loggia del capitaniato ed altri palazzi.

Nel periodo natalizio dalla torre bissara vengono calate le luminarie a mo’ di tenda, fissate dal lato opposto sulla sommità dei palazzi di fronte: è uno spettacolo luminoso che fa da cappello allo spettacolo architettonico sottostante.

La Basilica Palladiana è ritenuta patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Pur chiamandosi Basilica non si tratta di un luogo sacro, nè lo è mai stato: è un palazzo dove si svolgevano anticamente le attività commerciali e le assemblee della cittadinanza.

La copertura era stata realizzata in rame, ed ora è completamente verde.

Nel periodo tra marzo e novembre l’accesso al piano superiore è aperto al pubblico: il panorama che si apprezza dal loggiato e la sensazione di importanza che si prova seduti al bar sul terrazzo guardando la città dall’alto valgono indiscutibilmente il prezzo dell’ingresso.

Nel periodo invernale la sala della ragione ospita qualche mostra, per la quale si formano lunghe file di attesa nella piazza.

Attualmente è in corso la mostra ‘Tra il grano e il cielo’ dedicata a Van Gogh.

Dal terrazzo sopra la Basilica si intravvede il santuario di Monte Berico oh, palcoscenico oh, stratosferico oh come cantava un tormentone di qualche anno fa che imitava la parlata di Galeazzi.

Andare a messa a monte, in segno votivo alla matrona della città, la Madonna di monte Berico appunto, è un’usanza diffusa, almeno a parole; il pellegrinaggio al santuario è generalmente preceduto dalla salita con le scalette, una ripida rampa di accesso.

Dall’ampio piazzale antistante il santuario si può rimirare l’intera città, in particolare spicca la copertura verde della basilica. Ci sono anche i potenti cannocchiali a moneta; si vede meglio ad occhio nudo, perché non funzionano, ma intanto la moneta se la sono tenuta.

Il piazzale di monte Berico è un luogo ritenuto romantico, offre un panorama affascinante ed è comunque un posto tranquillo.

Se visitate Vicenza e avete un po’ di tempo a disposizione vale sicuramente la pena di spendere un’ora per il teatro olimpico, opera indovinate un po’ di chi, anch’esso patrimonio dell’umanità per l’UNESCO.

Io ci ero andata con la scuola elementare, la scenografia fissa è particolare: un dipinto sul muro che ricrea una prospettiva incredibile, sembra un porticato alto e profondo invece se una figura umana vi si appoggia si realizza che è tutta un’illusione.

In città ci sono due parchi principali: uno molto grande che è il parco Querini, ospita al suo interno un tempietto.

L’anello perimetrale misura circa 1 km; lo ricordo bene per le corse campestri scolastiche ma è anche molto usato per il jogging in generale. Ospita un percorso ginnico attrezzato adatto a tutte le età.

Un passaggio collega il parco direttamente all’ospedale civile; lì andavo a passeggiare con Sofia appena nata e mia mamma, che viveva i suoi ultimi giorni, quando se la sentiva.

L’altro parco è il Giardino Salvi, di estensione minore: nelle ore di educazione fisica a scuola ci portavano spesso a correre li. Ora lo apprezzo d’estate quando la domenica pomeriggio si tengono spettacoli teatrali per i piccini che però piacciono anche ai grandi.

Lì vicino il campo Marzio, che non è un vero e proprio giardino, ma uno spazio aperto frequentato soprattutto a settembre quando ospita il luna park itinerante.

Non posso chiudere la celebrazione di Vicenza senza citare la Rotonda, alias Villa Capra Valmarana, altro patrimonio dell’umanità.

La Rotonda (che non è una rotatoria!!!) si chiama così perché è una casa (villa) che ha le quattro facciate uguali. La si vede dalla Riviera Berica e in primavera è uno spettacolo nello spettacolo, immersa nei fiori che sbocciano spontanei in questa stagione.

La si può anche visitare, ma trattandosi di un’abitazione privata le visite hanno orari molto limitati, e il prezzo dell’ingresso non è popolare.

Nel caso vi suggerisco di limitarvi al giardino, da cui si rimira in tranquillità l’esterno. Ci sono anche delle panchine e nessun limite di tempo, così ci si può godere in santa pace la parte preziosa dell’edificio.

Gli interni sono allestiti tipo palazzo reale al piano terra, in una ricostruzione asettica; il piano superiore invece è chiuso al pubblico.

Ecco, io 5€ per fare entrare qualcuno nell’atrio a casa mia eviterei di chiederli, e anche di farlo entrare.

Apprendimento per prove ed errori

Sbagliando si impara: ne facciamo tutti di scemenze, cose fatte per provare a vedere se come dice il droghiere, senza ponderare bene le conseguenze.
La volta successiva ci penseremo su due volte, ma la prima andiamo di incoscienza.

Soprattutto in giovane età, perchè la fantasia dei bambini in questo campo è perversa ed inimmaginabile, ma anche quella degli adulti non si tira indietro.

Ricordo ad esempio un’amica di mia mamma che per sentire se l’accendino era scarico se lo è acceso vicino all’orecchio.

Io invece per capire quanto fosse potente il getto dell’idropulitrice me lo sono provato a sparare su un piede.
Cazzate, fortunatamente senza conseguenze, ma che la prossima volta non le rifai.

Qualche sera fa arrivo a prendere le bambine dai nonni e vengo accolta come se fosse scoppiata una guerra nucleare: vieni vieni, finalmente sei arrivata: è successo un guaio!

Entro e trovo Sofia seduta su una sedia con una chioma che Napo Orso capo ti spiego come ci si pettina: per gioco si era agghindata con un cappello colorato, fatto tutto di bunchems.

I bunchems, per chi non li conosce, sono piccole palline colorate che si usano per comporre le più svariate forme: gattini, automobili, chitarre.

La coesione tra gli elementi è garantita da piccoli uncini flessibili, posti tutt’attorno al nucleo centrale.

Somigliano a quelli che in natura si trovano nei rovi, che io chiamo barbaiocchi, nome latino non pervenuto.

Negli spot televisivi li lanciano per aria e cadendo si assemblano, formando l’oggetto desiderato.

Nella realtà va seguito uno schema preciso di composizione, per ottenere risultati poco precisi ed insoddisfacenti.

Non so se per imitare lo spot o per idea autonoma, di fatto se ne è rovesciata un cesto pieno in testa.

Era accaduto due ore prima, e i nonni stavano pazientemente procedendo a sfilare i capelli ad uno ad uno.

Tempo di lavoro totale di 4 ore: 4 ore di estenuanti districamenti, tra lacrime e urla di Sofia.

Mi hanno liquidata con la scusa che io pazienza non ne avrei avuta (infatti già cercavo il cassetto dove sono riposte le forbici) e mi hanno mandata a casa a braccia vuote.

Me l’hanno riportata più tardi che sembrava una mezza via tra Bridget Jones nei momenti di massimo sconforto e Bob Marley che si è fatto lo shampoo col crystal soleil, o ha confuso l’ammorbidente con la candeggina.

Altra ora di lavoro con il tangle teezer e olio di semi di lino, Sofia è tornata normale, le bionde trecce gli occhi azzurri e poi…

ha rinunciato a numerose ciocche che si depositavano sul pavimento mentre spazzolavo, ma il risultato finale è stato dignitoso.

Un tale di nome Hermann Ebbinghaus ha teorizzato la curva dell’oblio: essa illustra come le informazioni apprese decadano rapidamente con il trascorrere delle ore e dei giorni, per mantenerne comunque una parte sedimentata nella nostra memoria.

Sofia si ricorderà del suo sventurato gioco, e voi comunque non fatelo, nemmeno se siete stanchi della solita acconciatura.

Ricordi ne(r)vosi che si sono conservati bene

– “Dai dai, speriamo che nevichi tanto mamma!”

– “Io dico speriamo di no”

– “Ma perché?”

– “Hai mai guidato sulla neve Sofia? Quando guiderai capirai perché non mi piace la neve in città”

Hanno chiuso nei giorni scorsi alcune scuole, ma per l’evento atmosferico attuale mi pare eccessivo.

Un flashback mi risucchia al 1985, a quella sera di gennaio in cui guardavo fuori dalla finestra e dal cielo cadevano fiocchi giganteschi, che io chiamavo elefanti.

Abitavamo in una via cieca, che terminava sull’argine del fiume, quindi non transitavano auto, ad eccezione di quelle dei residenti.

Una via di cui si dimentica anche l’amministrazione comunale, una laterale interna che è sempre stata difficile da trovare. Quando Tom-Tom e GMaps non erano di uso quotidiano è capitato di chiamare i vigili del fuoco e dover andare sul viale principale a fare segno del punto di ingresso, e intanto il fuoco andava.

Invitavi i compagni alle festine di compleanno e almeno un paio tiravano bidone perché non avevano trovato il posto, gli altri arrivavano con mezz’ora di ritardo, con una mamma tutta trafelata che aveva fatto mille manovre, e senza servosterzo.

Gli elefanti scendevano copiosamente dal cielo, li vedevamo bene quando transitavano davanti alla luce gialla del lampione: era quello il proiettore del nostro film!

I fiocchi toccavano terra e si accumulavano su un tappeto bianco, assieme a tutti quelli che li avevano preceduti ed erano rimasti lì ad attenderli; al mattino successivo quel tappeto era un materasso, soffice e di notevole dimensione.

Dato che il traffico automobilistico era sempre pari a zero, era abbastanza normale che trovassimo al risveglio il paesaggio intatto, senza segni del passaggio umano. Era divertente trovare la neve accumulata sui rami degli alberi, flessi sotto il peso; sui muretti e sulle colonne di supporto dei cancelli; trovare la banchina stradale ammantata ed essere i primi ad imprimere la propria orma.

Quel mattino, oltre a presentarsi illibata, la nevicata era copiosa, ma per le ragioni spiegate non ci eravamo resi conto dell’eccezionalità dell’evento.

Mi ero incamminata verso la scuola, che si trovava in centro storico e che raggiungevo a piedi, con una passeggiata di circa 1km.

Al mio arrivo, assieme a pochi altri, ho toccato il muro e fatto la virata: la scuola era chiusa, si tornava a casa.

Sarebbe rimasta chiusa per l’intera settimana.

Anche mia mamma si era recata al lavoro quel mattino, lavorava all’epoca al confine tra Vicenza e Padova.

Un po’ per questioni economiche e un po’ per ragioni ecologiche aveva una predilezione per i mezzi pubblici: per arrivare sul luogo di lavoro aveva preso l’autobus e poi la corriera. Quella sera la corriera l’aveva riportata a Vicenza, dall’altro lato della città rispetto a casa nostra. Avrebbe dovuto completare il rientro con l’autobus ma i mezzi pubblici a quel punto avevano sospeso il servizio; aveva avuto fortuna a trovarsi proprio sotto casa di un’amica che le aveva consentito di telefonarci.

Sembra incredibile adesso a ripensarci, il telefono era uno strumento che, anche nei momenti di necessità, non era immediatamente disponibile.

Aveva chiamato noi a casa, chiedendo a mio papà che andasse a prenderla.

“Sì certo, vengo… a piedi!”

Anche mio papà era sensibile alle questioni economiche e alla causa ecologica, e peró odiava i mezzi pubblici: lui andava a piedi, ovunque la meta fosse a portata e anche un poco oltre, pedibus calcantibus.

Quella sera comunque la spiegazione non era né economica nè ecologica:

“Posso venire solo a piedi perché è impossibile uscire dal garage con l’auto”.

Che non era una misera scusa per non spalare la rampa, ma un problema concreto: quando anche avesse liberato la discesa dalla neve, avrebbe dovuto accumulare questa in un altro mucchio che avrebbe ostruito a sua volta il passaggio.

E anche una volta uscito sul viale principale le strade erano a loro volta impercorribili.

Così mia mamma si era arresa all’evidenza e si era incamminata; con una passeggiata di alcune ore, sotto la neve che scendeva e sopra un metro di neve che pavimentava i marciapiedi, senza ciaspole nè altri ausili, era ritornata a casa.

Al suo rientro si era verificato uno dei diverbi più bizzarri a cui avessi mai assistito a casa: mio papà preoccupato per il freddo che poteva aver accumulato le aveva amorevolmente preparato una minestra calda.

Ma dopo aver fatto due ore di attività fisica, quale una bella camminata affondando i passi in un metro di neve fresca, mia mamma non desiderava affatto una minestra calda, ma una birra bella ghiacciata!

Comunque la quantità di neve caduta era talmente abbondante che si era conservata fino a Pasqua.