Lo strano caso del dr Jeckyll e di mr Jeckyll

Per distinguerle, a scuola, le due Anna, usavamo l’iniziale del cognome. Qualche anno più avanti mi sarei ritrovata io ad essere una della Elena da riconoscere, perché nell’epoca in cui sono nata il mio nome stava in testa alle classifiche di diffusione.

È stato così il mio primo approccio al fenomeno dell’omonimia: due persone con lo stesso nome, chiami uno e ti risponde un altro. Elena? Siiii … no non te, l’altra.

È fastidioso, ma fisiologico.

In alcuni casi, che io chiamo i cognonimi, ad essere uguale è il cognome.

Mi è capitato di essere in attesa di una chiamata, avere davanti 20 e più persone, e sentire pronunciare a voce alta il mio cognome e nome. Tocca già a me? Mi ero illusa! Non toccava a me. La distinzione in quel caso era stata possibile in base alla data di nascita.

E quando corrisponde anche la data di nascita? Il gioco si fa duro.

Se poi corrisponde anche il luogo di nascita i duri devono cominciare a giocare.

Eh si, perché non si tratta più di due Anna, o due Elena, nella stessa classe.

Si tratta di due codici fiscali uguali: un gran casino!

Il codice fiscale, sappiamo, è composto da 15 caratteri, ricavati da nome e cognome, data e luogo di nascita. Il sedicesimo, detto carattere di controllo, è la ‘somma’ dei precedenti 15: quindi non è una scappatoia per distinguere i casi di omocodia, che è appunto il nome del fenomeno per cui due persone possono avere il medesimo codice fiscale.

Il problema assume proporzioni via via più importanti se pensiamo a quanti ci chiedono, oggi, il codice fiscale: l’iscrizione a scuola, il datore di lavoro, la farmacia, il medico, le compagnie telefoniche, la banca, least but not last il fisco.

Come fa la banca a distinguere i due Mario Rossi nati a Roma nello stesso giorno dello stesso anno? Il biondo e il moro? Il pelato e il capellone? Quello con la felpa e quello con la camicia?

Tutti criteri labili.

Sarebbe stato più semplice se lo stato avesse previsto di assegnare a ogni nuovo nato un numero di serie, come con la partita iva. Ma se già molti a fatica ricordano il proprio cf, per molti versi mnemonico, con una serie di cifre il rischio di errore sarebbe altissimo.

Allora che si fa? Il nostro ministero ha ben pensato di aprire un grado di libertà nella formula del cf, e consentire di sostituire uno (o più) dei caratteri numerici (quindi nella data o nel luogo di nascita) con una lettera.

Purtroppo l’omocodia è un fenomeno piuttosto sconosciuto, tanto che sono frequenti i sistemi che rifiutano i codici che fanno eccezione alla regola standard.

Talmente sconosciuto che la scrittura assistita propone omicidio, e penso sia l’alternativa che qualcuno valuta quando gli viene rifiutato un servizio perché il suo cf non si presenta nella sua veste classica.

Spesso per ovviare a questo problema ci si adatta ad usare un codice che non è il proprio, con conseguenze imponderabili.

Il numero di casi, che si stima attorno ai 40000 in Italia, è destinato a crescere: gli stranieri hanno una sigla per indicare il luogo di nascita che è cumulativa: designa l’intero stato, non un particolare comune; spesso gli stranieri inoltre non hanno una data di nascita certa e ne dichiarano una simbolica, quale il capodanno.

Si aggiunga che la data di nascita non distingue il secolo ma solo le ultime due cifre, quindi una persona nata nel 2019 può avere il medesimo codice di una nata nel 1919.

Mi ritenevo fortunata ad essere riuscita ad accaparrarmi degli indirizzi email in cui lo username fosse composto solo di nome e cognome, ma devo rivalutare la fortuna, ben più importante, di avere un codice fiscale normale.

Sberle, schiaffi, carezze

“Qui devi girare, a sinistra”

Qui? Non diresti mai che lungo quella stradina c’è un impianto sportivo.

E invece.

E che impianto.

E che musica.

L’anno 2019 riparte, agonisticamente parlando.

E ho preso una sonora legnata, anzi due.

Una me l’ha data un tizio che si stava riscaldando a secco, slanciava le braccia attorno a sè ruotando il tronco. Colpa mia che non l’ho notato, gli sono passata vicina, troppo vicina, lui non mi ha visto e … SBADABENG, un manrovescio che ha coperto in pieno labbra e naso; niente di rotto, solo per 20 minuti mi sono sentita molto Francesca Dellera.

Ma trascorsi 20 minuti tutto apposto.

L’altra legnata, quella morale, è durata di più, e me l’ha suonata il cronometro, ben due volte nella stessa giornata.

E ha fatto molto più male.

Forse, e sottolineo forse, dovrei prendere in considerazione l’ipotesi che non è una legnata: non è il cronometro che mi dà schiaffi, sono io permalosa che me la prendo. Lui dice la verità, se io abbassassi le pretese andremmo d’accordo.

Gli schiaffi, per alcuni aspetti, sono la stessa cosa delle carezze, cambia solo la rapidità con cui la mano arriva sul viso.

Se per gli schiaffi l’impatto è violento, e ce li si ricorda, le carezze arrivano morbide, e vengono sottovalutate.

Come nel buio più totale anche un singolo lumino può sembrare un bagliore intenso, così faccio tesoro dei led che mi si sono accesi e rinfrancato l’autostima, che viaggiava parecchio rasente il suolo.

“Hai un bel delfino”

detta a me, che da agonista dicevano “quando nuoti a delfino fa’ finta di non conoscermi” non è un lumicino, è un faro nella notte scura; ancora di più se penso che appena tre giorni prima sono stata apostrofata da un’utente del nuoto libero con un “SIGNORINA??? Scusi ma se nuota così non ci stiamo insieme in corsia … e il nuoto… NON È MICA SUO”.

“Quanto mi piaci”

riferito a un selfie supportato da una valida resa dell’illuminazione, e che ritenevo l’unica cosa ben riuscita della giornata; per me che ogni mattina passo un certo numero di minuti a scendere a patti con la mia faccia, altro faro nella notte.

È molto di più di un generico “quanto sei bella” perché aggiunge valore con tutta la soggettività del caso.

“Dovresti tenere bassa la testa nella subacquea”

I consigli al volo che ricevi da altri partecipanti sono sempre preziosi.

Anche i massaggi.

“Che fatica…! brava tu, sei andata forte”

detto dalla vicina di corsia che ho staccato.

Non è vero, non sono andata forte, ma era la sua prima gara e capisco il suo punto di vista.

A volte abbiamo un’evidenza davanti agli occhi, qualcosa che riusciamo a vedere per il semplice fatto che ce l’abbiamo di fronte.

La stessa cosa, per chi la impersona, non è altrettanto evidente.

È paradossale, perché nel momento stesso in cui ci risulta lampante non riusciamo a renderci conto che chi indossa l’abito non se lo vede attorno.

Per questo certe frasi, che magari sembrano banali o scontate a chi le dice, o sceglie di non dirle perché teme di essere ridondante, a chi se le sente dire fanno un effetto stranissimo, e fanno enormemente piacere.

In spogliatoio mentre mi rivestivo osservavo una concorrente che al mattino aveva nuotato un 100 delfino in maniera strepitosa; al pomeriggio aveva disputato l’australiana arrivando ‘solamente’ seconda.

Forse era una mia impressione ma sembrava contrariata; dal canto mio invece la vedevo sull’Olimpo.

Non ho avuto il coraggio di dirle nulla.

Invece sono riuscita ad esprimere la mia gratitudine alla signora che ha mantenuto lo spogliatoio in condizioni impeccabili per la durata intera della manifestazione.

Dulcis in fundo:

“Leggo sempre i tuoi pezzi con piacere”

Questa mi ha riscaldato, oltre che illuminato.

Più che un faro, un faló in spiaggia nella notte di ferragosto, con musica e mohito a volontà.

Ad majora.

Colazione in America

Ci sono azioni che costano fatica, che interrompono l’inerzia di uno stato gradevole: alzarsi al suono della sveglia quando fuori è ancora buio, uscire dal tepore del piumone, affrontare l’impatto con il freddo pungente dell’aria invernale.

Mi capita di ascoltare alla radio i Supertramp, Breakfast in America o The logical song. Sono trascorsi parecchi anni da quando erano brani in auge: sono inossidabili.

Avevo una musicassetta con tutti i loro successi e risiedeva nel walkman che a sua volta risiedeva nella tascona frontale del mio montgomery a righe.

Pieni anni ‘90: inforcavo la bicicletta alle ore 7.00 per raggiungere la stazione ferroviaria e prendere il locale delle 7.28 per Padova, ferma a Lerino – Grisignano – Mestrino. Super affollato ma mi dava qualche minuto di anticipo sul regionale delle 7.50, che ferma solo a Grisignano.

Qualche minuto prezioso per guadagnare un posto a sedere a lezione, un pezzo di sedia e di banco da cui sperare di carpire qualche passaggio chiave delle dimostrazioni dei teoremi.

Per cinque anni, da ottobre a maggio, escluso febbraio, tutti i giorni: vita da pendolare.

Col freddo, col buio, anche con la pioggia e la neve: inforcavo la bici e via,

“When I was young, it seemed that life was so wonderful

A miracle, oh it was beautiful, magical”

e pedalavo, con l’aria fredda che si infilava tra gli alamari di quel bel montgomery a rigone verdi e azzurre.

“please tell me what we’ve learned

I know it sounds absurd

Please tell me who I am”

Canzone altroché profetica, forse per quello la ascoltavo con interesse.

Qualche mattina alzarsi era dura, raggiungere Padova era dura; preparare gli esami era impegnativo, richiedeva uno sforzo costante di concentrazione, ragionamento, memoria.

Più studiavo e più i dubbi crescevano: avrò capito correttamente? Mi ricordo quel passaggio? Per sfociare in un disperato ‘Non so nulla’.

La laurea poi è arrivata, e anche se non ho intrapreso una professione direttamente collegata al percorso di studi seguito, la laurea, quella laurea, resta mia: la mia laurea.

Non intendo il pezzo di carta, che non so nemmeno dove ho messo, intendo il raggiungimento di un obiettivo.

Ho imparato che conseguire gli obiettivi richiede impegno e sacrificio, ho imparato a ragionare quando non so su che specchio arrampicarmi, ho imparato a mettermi davanti ad un argomento nuovo, qualsiasi argomento, e lasciarmi avvolgere.

Questa mattina ho dovuto alzarmi presto per alcune commissioni da fare prima del risveglio del resto della famiglia; non sono uscita in bicicletta ma sono uscita quando ancora molti dormivano, dai bar vuoti arrivavano le luci fioche che invitavano gli avventori per un caffè.

Il cielo azzurro per pochi istanti ha assunto delle striature rosa che facevano da sfondo ai rami spogli.

Ecco, diciamo che io stamattina avrei volentieri dormito un’ora in più, ma mi sarei persa lo spettacolo.

Ricordami di te

Ad inizio anno capita di imbattersi in qualche collage dei video clip dei maggiori successi di 20 anni addietro: canzoni che 20 anni prima avevano scalato le vette delle classifiche, vecchi tormentoni rispolverati, pochi secondi per ciascuna in un montaggio della durata totale di qualche minuto.

E tu sei lì che guardi, ascolti, le riconosci tutte, riemergono e ti fanno rimbalzare tra i ricordi che gli si sono annodati.

Qualcuna ha retto bene: ti ritrovi ad esclamare ‘già 20 anni???’ e intanto è già partito lo spezzone successivo.

Quest’anno non mi è capitato di trovare una cosa simile, o non ancora; e dato che sono curiosa e abitudinaria, ho fatto una semplice ricerca in internet e ho individuato un sito che per ogni anno riporta la classifica dei 100 brani: più venduti? Più ascoltati? Non lo so, ed è ininfluente ai fini delle mie considerazioni.

Trattandosi di un sito tradizionale (non è YouTube nè Spotify nè similari) la lista è una vera e propria lista: una tabella di 100 righe in cui, per ciascuna riga, compare numero (la posizione di merito), il titolo, l’interprete.

Per tale ragione la riproduzione del brano non è immediata, ma sollecita le sinapsi: leggi le info e per buona parte avviene il play nel mio riproduttore mentale.

Fa un effetto strano: leggi, canticchi, gli occhi scorrono alla riga successiva, canticchi, scorri, canticchi e avanti così fino alla riga 100.

Quando sei alla fine ti senti risucchiato nello stato d’animo dell’epoca: ricordi le ambizioni, le illusioni, i momenti belli e anche quelli difficili.

Visto che il giochino era simpatico ho pensato di farlo anche per i 5 anni a precedere, e a suon di lustri indietro sono arrivata all’anno più prossimo a quello della mia nascita.

Ovviamente le canzoni di quando sono nata non si ricollegano a momenti contestuali, ma le prime 10 della lista sono ancora famosissime. Idem per quelle dei 5 e 10 anni che hanno preceduto il mio arrivo.

I primi ricordi contestuali si attestano attorno ai miei 10 anni: al termine della scuola elementare ero perfettamente integrata nel mercato discografico.

La cosa strana è che dai 20 anni fa andando a ritroso ad ogni coppia titolo / interprete mi parte in automatico il jingle, mentre dai 20 anni fa andando in avanti questo non accade.

E non perché io non conosca il brano, lo conosco benissimo: si tratta di canzoni che ho ascoltato ad libitum e pure di recente.

Lo conosco ma non mi viene l’attacco, non mi viene il ritornello, nè l’aria di una qualunque parte.

È come se il mio database sonoro mentale ad un certo punto fosse esploso e le canzoni non ci stanno più.

Se a qualcuno interessa farsi un tour delle classifiche degli anni passati il sito è http://www.hitparadeitalia.it

Aggiungi un posto (a tavola) che c’è un amico in più

I segnali premonitori, bisogna saperli cogliere.

Una sbarra del telepass che non si alza, è un avvertimento: ricordati che il tuo percorso si interrompe, ogni tanto.

Ricordati che il tuo tragitto non si snoda su una linea retta, infinita, uniforme; è piuttosto un susseguirsi di segmenti, una spezzata, contorta, un viluppo.

Imbocchi il casello di uscita e vedi che non si alza: immagini un ritardo nei riflessi, i suoi; realizzi che i riflessi pronti spettano a te, cali il piede destro sul pedale centrale, dapprima con fare leggero, poi man mano che la distanza tra te e la sbarra si riduce, in maniera sempre più convinta.

L’auto si reinventa Karolina Kostner, inizia a pattinare, si aspetta un partner collaborativo; quando l’impatto si rivela inevitabile la sbarra si dimostra invece barbiere di Siviglia, e pettina dolcemente il parabrezza.

Una settimana più tardi, altro casello, altra direzione, ingresso stavolta, lo scenario si ripete.

Ho il telepass scarico? No: ad avere problemi è il mio predecessore, anzi sta tre auto avanti. Cerca di produrre il biglietto per l’ingresso, schiaccia qua e schiaccia là, ma la fila è sempre ferma.

Ovviamente la fila parallela procede indisturbata, Murphy ha provato spesso a spiegarlo; non hanno ancora inventato un rilevatore di possessori di telepass a distanza.

Dopo 5 minuti di paziente attesa inizio a valutare una retromarcia, e scopro che dietro di me hanno calato la sbarra di sicurezza: sono in trappola, non mi resta che aspettare.

Se per il primo della fila nutrivo poca stima, al secondo che non riesce a produrre il biglietto mi ricredo; al terzo, più vicino e quindi più visibile, ben 20 minuti dopo, ho invertito completamente la mia visione: il problema è la sbarra, non i guidatori.

Finalmente l’ectoplasma dell’omino ANAS arriva e pure io, che non ho bisogno di biglietto, entro.

Al momento dell’uscita, memore dell’esibizione artistica della settimana precedente, mi pongo il dubbio che il rifiuto a sollevarsi si ripeta: e infatti.

Freno per tempo, scendo, citofono all’omologo ectoplasma del casello di ingresso, dichiaro ad alta voce il punto di partenza.

Una sbarra che non si alza, è una richiesta di amicizia.

Il mio rapporto con le sbarre si è evoluto: ogni giorno attendo l’appuntamento, so che mi riservano sorprese, potremmo salutarci al volo o anche abbracciarci.

Potrebbero offrirmi 20 minuti di relax, una conversazione con un citofono, il brivido dell’impatto e poi no.

Salva con nome: 2018

Un altro anno terminato, un nuovo anno comincia.
Di bilanci e buoni propositi se ne sono letti abbastanza.
Io ad esempio vorrei tornare a scrivere un po’ di più, e allora parto proprio da qui, da dove si stanno inserendo tutti: da un sunto dell’anno concluso. 
Il 2018 è stato un anno senza particolari impennate, nel bene e nel male.
È stato un anno che non ha visto da vicino perdite, nè arrivi; non ci sono state svolte epocali, non è iniziato nessun ciclo, non è terminato nessun percorso importante.
Un anno che rischia di essere dimenticato? Meglio allora fare mente locale e mettere a fuoco alcuni punti salienti, in modo da archiviarlo con le etichette al posto giusto.
Il 2018 ha visto l’addio di Viola al suo fidato ciuccio: come ho fatto a farle smettere il vizio? Semplicemente niente, da un giorno all’altro non lo ha più chiesto e io ho provveduto a farli sparire.
Un mese dopo appena abbiamo tolto le rotelle alla sua bicicletta: ora versiamo nel limbo in cui per partire ha bisogno di essere sorretta, poi è autonoma. Verrà anche il momento dell’indipendenza.
E Sofia? Sofia ormai ha raggiunto tutte queste tappe della prima infanzia, ed è ancora presto per quelle dell’adolescenza.
Però un giorno mi ha chiesto di provare a fare il nuoto sincronizzato e da alcuni mesi me la trovo tesserata FIN nella squadra che ‘gioca il derby’ con quella in cui nuoto io.
Per me? Dal punto di vista della salute sono partita con una brutta influenza e poi ad agosto mi sono bloccata nuovamente con la schiena, quindi non proprio perfetto; ma sono mali transitori, non ci diamo troppo peso.
Invece il mio appuntamento quinquennale con quel fastidiosissimo esame che è la colonscopia, che oltre ad essere invasivo a livello fisico mi prostra psicologicamente con terribili ricordi, ha dato il suo responso negativo; un lungo respiro di sollievo.
Ho cambiato anche occhiali, e riscontrato un inizio di presbiopia.
L’influenza di inizio anno mi aveva fatto perdere  un po’ di peso, che ho cercato di non recuperare; da fine settembre ho voluto fare di meglio e con piccole rinunce alimentari ritornare al mio peso forma: obiettivo in avvicinamento.
Sportivamente è stato un anno di delusioni, per l’aspetto tecnico; ma ho avuto anche modo di stringere nuove amicizie e consolidarne di esistenti, il che riporta l’ago della bilancia al suo posto.
Penso che alcuni eventi assumano il loro valore concreto a distanza di un tempo più lungo di pochi mesi, pertanto può benissimo essere che accadimenti che ad oggi non sembrano avere peso ne assumeranno più in là.
Per il 2019 non ho obiettivi prefissati nè richieste o aspettative… quel che arriva va benissimo, anche perché non ci sono alternative.

A chi mi legge un sereno 2019, e a chi non mi legge auguro di cominciare a farlo.