La logica della lampara

Sullo sfondo della muntagna ritorna Vanina Guarrasi con un altro caso da risolvere, ma soprattutto ritorna Vanina Guarrasi con il suo essere umana: le vicissitudini personali, un passato remoto a cui rendere giustizia (il padre), un passato prossimo da riconciliare (Paolo Malfitano); le debolezze gastronomiche; le conquiste passate (Alfio) e presenti (Manfredi).

Attorno a lei gravitano gli stessi personaggi conosciuti in ‘Sabbia nera’: Adriano, l’anatomopatologo con cui divide la passione per i film d’essay; Giuli, l’avvocata più trendy di Catania, che costringe Vanina ad una forma minima di vita sociale; Bettina, la vicina di casa che veglia su di lei e non le fa mancare pietanze sfiziose quando rincasa ad orari ormai inutili per preparare una cena.

Nella squadra del vicequestore ritroviamo la bresciana Marta Bonazzoli, che allenta la segretezza sul suo rapporto con Tito Macchia; Lo Faro, la gola profonda che trova spazio per redimersi; il fidato Carmelo Spanò; il povero Nunnari, vittima di un piatto vegano; e l’immancabile Biagio Patanè, in pensione ma sempre pronto ad entrare in azione e fornire elementi chiave per la risoluzione del caso, nonostante i malumori della moglie Angelina.

La logica della lampara è un titolo mutuato al mondo della pesca; il romanzo si apre con la scena di due amici su un peschereccio di notte, ma l’ambiente ittico viene abbandonato già dal secondo capitolo, dove riprendono le colazioni a base di dolcetti e dialoghi catanesi, e le indagini portate avanti in maniera non convenzionale, con il pragmatismo e la coerenza che caratterizzano Vanina.

Sono stata talmente coinvolta dalla lettura che solo arrivata a tre quarti del libro mi sono chiesta il perché del titolo.

Perché forse, ho immaginato, la lampara è la lampada che viene accesa per attirare i pesci, similmente a ciò che nella caccia sono gli specchietti per le allodole; allora, forse, i fatti narrati mirano ad attirare l’attenzione del lettore, ma…

E poche pagine più avanti lo stesso concetto è spiegato più o meno allo stesso modo.

Non mancano le ambientazioni nella splendida Catania, città che porto nel cuore, e le fughe a Palermo, che non è da meno. Ciliegina sulla torta, c’è anche una gita a Roma. Tris di regine.

Ultimamente fatico a trovare letture gradevoli: mi imbatto in romanzi che emergono per la spinta delle case editrici e in romanzi che emergono per recensioni positive inspiegabili (forse di amici).

Ritengo pertanto che un romanzo valido come questo vada segnalato: merita di essere letto perché è scritto bene, ha personaggi ben caratterizzati, racconta una storia avvincente e realistica, descrive paesaggi suggestivi.

Ovviamente sto già aspettando la prossima storia di Vanina!

Le gestures, le amiche della nonna e dove ho messo la farina

Scagli la prima pietra chi non ci ha mai provato!

Chi non è mai caduto nella tentazione di ingrandire l’etichetta dello shampoo, per verificare la concentrazione del laurisolfato, semplicemente appoggiando pollice ed indice sul flaconcino ed allontanandoli con un micro movimento?

O sulla confezione della pasta per riuscire a leggere il tempo di cottura dei fusilli?

La tecnologia ci ha abituati ad attività che in realtà non sono sempre possibili.

Parlo di azioni, in gergo gestures, che ci semplificano la vita, come il pinch per zoomare.

La traduzione letterale di pinch è pizzico, e infatti il movimento è simile: si avvicinano (pinch in) o allontanano (pinch out) il pollice e l’indice, come quando si dà o si allenta un pizzicotto, anche se con finalità diverse.

In caso di fotografie digitali funziona bene, riusciamo ad ingrandire i particolari fino a rilevare i dettagli che ci interessano.

Da una foto di gruppo riusciamo ad isolare un primo piano o una figura, vedere come era vestita, come era disteso il suo volto enne anni fa, osservare ciò che lo circondava.

Da un panorama riusciamo a risalire ad elementi particolari: un sasso, un’insegna, un locale.

A me però verrebbe naturale, quando l’insieme è troppo confuso, di fare altrettanto anche in altri contesti: non solo ingrandire i caratteri di una rivista patinata o dell’etichetta della marmellata per leggere quanto zucchero contiene.

L’olio di palma ce lo scrivono in grande che non c’è, ma se un olio di oliva è made in Italy o quanto elastan contiene una maglietta, a me serve la lente di Sherlock Holmes per capirlo.

Oppure il pinch.

Ma la cosa grave è che cerco di fare il pinch anche sui ricordi.

La scorsa settimana avevo deciso di preparare una torta; aperto il frigo ho scoperto con amarezza che avevo tutti gli ingredienti, tranne la farina.

Sono un’artista per fare qualcosa senza un ingrediente, ma la farina?

La mia nonna di torte ne faceva spesso, e se le mancava un uovo non si faceva alcun problema a suonare il campanello della vicina e chiederlo.

Cosa che mai mi sognerei di fare: DLIN DLON… scusa hai due etti di farina per cortesia? Altri tempi.

Ho iniziato a cercare di mettere a fuoco le amiche di mia nonna, 50 anni esatti più vecchia di me. Le sue amiche, quando ero bambina, avevano una decina anni più di quelli che ho io adesso.

Eppure le vedevo anziane.

Ora se penso a donne di quell’età non le vedo assolutamente anziane.

Ma quelle? Erano così diverse da come siamo oggi.

Molte di loro non sono più su questa terra, di altre ho perso le tracce.

Però come erano allora, zooma zooma, mi ricordo.

Tra le vicine di casa ricordo Carla, che mi chiamava Pippo. E io pensavo che Pippo sta a un maschio, io sono una femmina!

Nerina, senza figli, ma col suo cane Giulia, più simile ad un ratto.

Flora, anche lei senza figli, ma che più tardi negli anni avrebbe avuto un gran da fare con il marito, vittima di un ictus, che però continuava a guidare l’auto e faceva un triliardo di manovre per ricoverarla la sera in cortile.

Poi Vitalina, Rosi, Adriana. Questa ultima riscuoteva scarsa simpatia da parte mia da che mi aveva fatto i complimenti per un paio di scarpe ‘di coltello’. (A onore del vero era una pronuncia naïf di décolleté, ma io mi ero offesa perché non erano di coltello, ma di vernicia!).

Adriana ogni sera puntuale alle 19,30 gridava dal terzo piano al marito, Valteee (per iscritto Walter ma non l’ho mai sentita pronunciare Uolter), che era pronto. Gli intimava ‘vien su’ e lui non le dava nessun cenno di presenza.

Così qualche minuto dopo ancora Valteee.

Poi c’erano le amiche che abitavano al di fuori della via: Leda, sempre in tenuta leopardata, ombretto azzurro, parrucco perfetto e tacchi alti.

Veniva a far visita a mia nonna, perennemente nell’orto tra i pomodori, e cercava di mantenere un certo contegno camminando su tavole malferme appoggiate tra un filare e l’altro.

‘Miliana (all’anagrafe Emiliana) che abitava vicino al cimitero, e pare che quella casa non la poteva vendere proprio per la sua collocazione delicata, come se ai morti desse disturbo un trasloco.

Vida, veniva dalla Jugoslavia, quando ancora esisteva la Jugoslavia. Gestiva una specie di recupero e spesso arrivava con regali bizzarri.

Lidia, di origine Triestina, con gli occhi molto chiari; guidava l’auto anche diversi anni più tardi e scorrazzava la nonna (che non amava guidare) ovunque.

Mi stava simpatica perché apprezzava la mia capigliatura: mi vedeva appena alzata dal letto e si complimentava per come mi stavano bene i capelli.

Ad un certo punto, come con lo zoom digitale, l’immagine non si riesce più a dettagliare, non emergono altri particolari.

Però la farina l’ho trovata, anche senza poter zoomare (sì, ci ho provato!) … era in un’altra dispensa!