Il mio nome è Bond… Jack Bond

Il 2020 si sta rivelando un anno bisesto fantasioso.
Dopo la pandemia e il lockdown adesso sono anche rimasta non proprio a piedi, ma quasi.
L’importante è che non è successo nulla ma visto che per dei mesi non ho potuto usufruire delle strutture sanitarie ieri sera ho pensato di vedere se erano ancora lì, esattamente dove le ricordavo.

Per farla molto breve ho subito un tamponamento a catena e ho deciso di andare a farmi controllare, perché poi le botte escono a distanza che non sai wnemmeno chi ringraziare.
Allora batti il ferro finché è caldo e fatti un giro in pronto soccorso.
Avevo anche dei programmi alternativi per la serata ma vuoi mettere?
E così con il mio codice che più bianco non si può da fare invidia al dash, al dixan, all’ace gentile e anche a quello sgarbato mi sono messa pazientemente in attesa.
Dopo un primo test di ingresso e un secondo adoxe ha ci rt e un pre triage e un triage vero e proprio mi sono accomodata.
Nemmeno quattro ore più tardi sono salita al livello pro e finalmente ho avuto accesso alla sala d’attesa vera e propria.

Qui, inaspettatamente, solo dopo mezz’ora sento chiamare il mio cognome. Mica il numero, per rispettare la privacy, il mio cognome, forte e chiaro.
Rispondo all’appello e mi catapulto nell’ambulatorio. La gentile dottoressa e l’infermiera mi scrutano dubbiose: lei è?
Il mio nome è Rigon, Elena Rigon.

La mia risposta dissipa immediatamente ogni dubbio: un caso di cognonimia! al mio posto un uomo, in attesa da 45 minuti prima di me, a cui cedo il posto.

Respinta alla sala d’attesa riprendo la conversazione con una vecchia conoscenza ritrovata li per caso. Assieme a noi alcuni altri pazienti, tra cui un uomo anziano, accompagnato dalla figlia, per una specie di gastroenterite / influenza intestinale a cui viene fatto il tampone per il Covid.
Solo un paio d’ore più tardi una gentile infermiera viene a prendersi il signor B., chiamato anch’esso per cognome, per portarlo a fare le lastre.

Io ho scritto tutto questo per arrivare a descrivervi la faccia della figlia, che cercava di capire in quale modo potesse aver senso un’esame radiologico per il padre, che manifestava tanti sintomi sì, ma che in nessun modo si potevano ricondurre a fratture o traumi ossei.

Lei però non è intervenuta: quando rimani in attesa delle ore, e viene il tuo turno, non discuti.
La perplessità dei due, padre e figlia, si è fatta solida attraverso le loro espressioni, tanto che l’infermiera ha avuto il riflesso di chiedere ‘ma lei è Francesco B.?’ e così si è chiarito che invece Giovanni B. non necessitava di raggi X.

La prossima volta che vi dovesse capitare di recarvi per qualunque motivo al ps, state attenti a non accettare la prima colonscopia che chiamano solo perché ha un cognome simile al vostro.

Con un ritmo fluente di vita nel cuore

Nella settimana appena terminata ho lavorato tutti i giorni in presenza, mi sono allenata 3 giorni in piscina macinando vasche per un totale che supera i 10 km, ho persino mangiato in pizzeria in compagnia di amici.

Non si può dire che la vita sia ripartita a pieno regime, mancano ancora tante cose, siamo distanti dalla normalità, ma è già un buon passo avanti.

Un segnale importante me lo ha dato spia della riserva carburante, che é tornata ad accendersi.

Non ho ben capito cosa ci faccia tanta gente ancora con la mascherina, pur trovandosi all’aria aperta e a distanza superiore ai tre metri.
Ad ogni modo ognuno è libero di indossare i DPI che ritiene più opportuni: mascherina, guanti, ma anche caschetto e calzature antinfortunistiche che non si sa mai.

Personalmente mi sento rinata, sto repentinamente dimenticando quel che è stato, le lunghe giornate senza vedere altre facce nè sentire altre voci che quelle dei miei familiari.

Per me, che ho costantemente bisogno di socializzare, che potrei intavolare conversazione anche con i sassi e i fili d’erba, trascorrere la settimana in mezzo alle persone è una boccata di ossigeno.

Mi metto a parlare con chiunque incontro, mi sento come quando a dieta racimoli col cucchiaio tutti i chicchi di riso previsti dalla razione da 80g, sperando di saziarmi con briciole di socialità.

In realtà credo sia una situazione piuttosto comune: alcune domeniche fa mentre pedalavo con Sofia consideravo ad alta voce che in quel giorno ci sarebbe dovuta essere la sua prima comunione.
Una signora mai vista in precedenza, che stava andando a gettare il pattume, si è inserita nella conversazione chiedendo a quando erano state rinviate le cerimonie.

Stamattina ho intravisto una signora abbarbicata a una transenna: il ponticello che congiunge la piscina ai campi da tennis è stato reso inagibile e hanno disposto delle barriere per impedire il transito. Da un lato del ponte il divieto era più morbido, aperto ad interpretazioni, in pieno stile italico. La signora che entrava da quel lato lo ha violato senza grossi problemi.
Dall’altro lato però una coppia di transenne affiancate si è rivelata troppo larga e la signora, diversamente atletica, è riuscita a disporsi a pancia in giù in appoggio sulla parte superiore, ma non riusciva più nè a scendere nè a salire, come Aldo Ballio sulla scogliera in Tre uomini e una gamba.

Scesa dall’auto ho visto questa strana forma di yoga e mi sono fatta qualche scrupolo ad intervenire: uno potrebbe sempre risponderti di farti gli affari tuoi, che sta abbracciando la sbarra perché si sente sola o ha carenza di ferro.
Nel dubbio ho chiesto se le servisse aiuto e lei lo ha accettato volentieri.
Forse se non facevo la domanda avrebbe trascorso la giornata a rosolarsi come una braciola sulla graticola.

L’ho abbracciata per fornire il sostegno necessario a completare l’opera di scavalcamento e una volta raggiunta la terra, in segno di riconoscenza, al grazie ha aggiunto lo stampo di un bacio, un po’ come il Papa quando atterra, solo che la destinataria ero io.

Cosa resterà?

Cosa resterà di questo anno ‘20?
Cosa resterà di mille regole astruse, spesso incompatibili tra loro, sempre incompatibili con la vita quotidiana?

Le prime a sparire saranno le autocertificazioni, quelle in cui ogni 14 giorni dichiari che stai bene.
Anzi l’esercente di turno lo compila al posto tuo, te lo legge in faccia che stai bene.

Le altre autocertificazioni, quelle che effettui uno spostamento al fine inderogabile di effettuare uno spostamento (necessario) sono già morte da un pezzo.
Si sono evolute più veloci della luce, ogni 8 ore ne usciva un modello contenente la modifica su una riga.
Hanno bruciato le tappe: un’esistenza breve e intensa.

Il metro di distanza, in caso di attività fisica addirittura due o anche tre, sta facendo la fine dei miei rientri serali da minorenne: contrattavi un orario e poi di volta in volta ci aggiungevi 5 minuti. Il metro di volta in volta si accorcia di 5 cm. Siamo già molto prossimi a bucare la mia bolla di sicurezza personale.

I pannelli di plexiglas, immancabili negli scoop giornalistici, che lo immaginano ormai anche a letto tra marito e moglie, presto perderanno lucentezza, in quei rari casi in cui sono stati realizzati: già me li vedo tappezzati di adesivi appiccicati a casaccio.

Le strisce sul pavimento, applicate in maniera artigianale, si staccheranno e voleranno via: troveremo pezzetti di nastro giallo e nero ai bordi delle strade, li confonderemo con grossi calabroni schiattati.

Le file ordinate di persone fuori dai negozi, dalle banche, dai supermercati, dalla posta, al primo giorno di pioggia si faranno solubili.
Gli ingressi da un lato uscita dall’altro si confonderanno al primo che dimentica una cosa uscendo e inverte la marcia.

Le mascherine, già ritenute superflue all’aperto, ma che ancora penzolano sotto il mento ai più, finiranno come il casco appeso al braccio di certi scapestrati in motorino.
In un paese dove ancora c’è gente che fuma o che non allaccia la cintura di sicurezza alla guida, incurante dei danni concreti e immediati che reca a se stesso, figuriamoci quanto facile diventa ricordarsi di portarsi dietro un accessorio inutile e fastidioso.

I termoscanner che ti rilevano una temperatura corporea di 33 • vengono adoperati con malcelata sufficienza dal malcapitato addetto.

I guanti monouso (ha ha ha, mi fa troppo ridere monouso: cioè li usi una volta sola: chi mi spiega quando inizia e quando finisce la volta?) beh quelli comunque appartengono già al museo (degli orrori: pensa a tenerli addosso qualche ora, quando li levi …).

Le canzoncine della durata di 40 secondi per aiutare il lavaggio delle mani? Dai chi le canta ancora?

Resisteranno i flaconi di gel, quelli si: agli ingressi troveremo ampia disponibilità di quei dispenser che non riescono ad erogare e che non sono stati consumati; oppure resisterà la presenza di quei gel oleosi che ti impiastrano le mani e non vedi l’ora di lavartele per davvero.

Resisteranno come le bandiere arcobaleno con la scritta PACE, rimaste appese dai primi anni del nuovo secolo, stinte al punto di non distinguere più i colori.

Resisteranno gli arcobaleni disegnati dai bambini, a cui avete raccontato che andrà tutto bene e chissà se lo credevate davvero: sono ancora tutti esposti ‘sti disegni, come i babbi Natale ancora appesi al terrazzo al 25 di gennaio.

Ho il presentimento che resisteranno anche tutti gli aumenti, applicati per far fronte all’emergenza covid, che ad emergenza conclusa ci si dimenticherà di far rientrare.

Addio o… ciaone?

Ho sempre creduto che addio significasse ‘a mai più rivederci’. Esiste anche un’interpretazione più morbida, secondo cui è un saluto un po’ altisonante con cui si raccomanda il prossimo all’onnipotente.

È una parola che a me, comunque, non piace: se addio significa, come ho sempre inteso, ci rivedremo al cospetto di, è adatta solo in caso di dipartita definitiva.
È il saluto da riservare al decuius.
E questo è il caso che esula dalle mie riflessioni.

In tutti gli altri casi ‘chi non muore si rivede’.
Pertanto mi rivolgo a tutti coloro che si stanno struggendo in questi giorni per la fine inconsueta dell’anno scolastico / accademico / sportivo di questo bizzarro 2020: sursum corda!

Non esiste addio, almeno sotto questo aspetto, èandatotuttobene.

La scuola finisce, molti si ritroveranno a settembre, forse un po’ più distanziati, forse attraverso una lastra di plexiglas, forse dietro una mascherina, forse ancora dallo schermo di un computer.
Ma si ritroveranno!

Qualcuno ha concluso un ciclo e ne inizierà uno nuovo: ripartirà dalla prima di un nuovo percorso di studi, ripartirà con una diversa attività sportiva, tenterà di inserirsi nel mondo del lavoro.

Per inclinazione il mio sguardo è sempre in avanti, verso ciò che mi attende, verso quel che sarà.
Se immaginiamo ogni transizione come l’attraversata di un lago con una barca a remi, possiamo vogare volgendo le spalle alla riva che dobbiamo raggiungere o a quella da cui ci allontaniamo.
A prescindere da quale sia la voga più efficace, il mio modo di affrontare la vita che scorre è quello di guardare avanti.

Non si tratta di cinismo o di irriconoscenza: è semplicemente più comodo rivangare il passato, che si conosce; guardare all’ignoto puó essere spaventoso. Ma spesso riserva sorprese migliori.

Addio è ipocrisia: spesso lo diciamo a persone che non rivedremo più per mancanza di occasioni.
Può trattarsi di un compagno di scuola, un collega di lavoro, una persona in genere con cui abbiamo un rapporto quotidiano che viene a cessare.
Ecco, vorrei insistere su questo aspetto: cessa di essere quotidiano.
Magari quella persona abita a pochi isolati da casa nostra; magari invece si trasferisce in un’altra città o in un’altra regione.
Nel primo caso nulla ci impedisce di frequentare quella stessa persona in altri momenti della giornata.
La vicinanza ridotta ai momenti di svago può rivelarsi anche migliore: tempo di qualità, anziché quantità di tempo.

Nel secondo caso i mezzi di comunicazione oggi sono talmente potenti che riescono a mantenere vivi i rapporti nonostante le distanze, se questo è ciò che desideriamo.

Se invece non è ciò che desideriamo, ovvero mantenere vivo il rapporto ci richiede energie che non siamo disposti a dedicare… beh allora inutile farla tanto lunga con gli addii: ciaone può bastare.

RICOMINCIAMO: LA FASE 2 DEL NUOTATORE

Dodici settimane: tanto è durata l’impossibilità di entrare in vasca.

La sera del 9 marzo ho preso la sacca del nuoto e sono partita alla volta della piscina, appena prima dell’inizio della storica diretta televisiva che ha dichiarato il lockdown; sono andata all’ allenamento ma già subodoravo che sarebbe stato l’ultimo.

I mezzi di comunicazione raggiungevano il bordo vasca ed ero in costante aggiornamento sul progresso dei decreti: gustatelo, questo allenamento, perché per un pezzo non potrai più nuotare!
Tanto tuonò che piovve.

Inizialmente doveva trattarsi di quattro settimane, e nella mia testa immaginavo che sarebbero potute essere quattro settimane di stop completo, dal nuoto e da qualunque attività motoria: uno scarico completo, un tapering totale.

Presto però, ben prima delle quattro settimane, il mio corpo ha avvertito l’impellenza di muoversi, di creare delle situazioni di fatica: crisi di astinenza da attività fisica.

Inizialmente scettica mi sono avvicinata alla ginnastica, nome con cui io definisco tutto ciò che avviene al di fuori dell’acqua.

Per il resto del mondo assume molti nomi, come il diavolo che si può chiamare Satana, Belzebù o Mefistofele.
Per i non nuotatori esistono la psicomotricità, il risveglio muscolare dei club vacanze, la Zumba, il CrossFit, la ginnastica dolce e ciascuna è ben diversa dall’altra.

Il diavolo a cui mi sono rivolta io si potrebbe chiamare interval training o functional workout.
È un mondo fatto di esercizi dai nomi accattivanti come push up, jumping jack, mountain climber, squat, burpees.
Tutti rigorosamente in inglese perché detti così sembrano quasi dei tranquilli passatempo.

Nei giorni di pioggia, in cui ero costretta a rimanere dentro casa, il diavolo si chiamava pilates, quel famoso stretching che per mancanza cronica di tempo non eseguo mai; quell’attività che sembra semplice per il fatto di essere statica, ma non lo è per nulla.

Con l’aiuto di questi esercizi sono riuscita a far lavorare il sistema cardiovascolare, e con l’aiuto degli elastici a riprodurre molti dei movimenti del nuoto.

Però quando a metà maggio il governatore della mia regione ha nominato in conferenza stampa la riapertura delle piscine ho esultato come se avessero estratto il mio numero alla lotteria di capodanno.

Trepidante, il 25 maggio, dopo dodici settimane di assenza ho potuto finalmente ritornare a nuotare. Non posso parlare di 12 settimane di inattività, non lo sono state: il tapering non ha avuto luogo.

Ho atteso il momento dell’ingresso in acqua con sonni agitati, come accadeva ai tempi di scuola quando ritornava settembre e iniziava il nuovo anno.
Mi chiedevo come sarebbe stato, cosa avrei provato.

Eppure il bisogno base, quello di muoversi, lo avevo soddisfatto: perché tanto gaudio nel ritornare in acqua?

La primissima sensazione, che avevo dimenticato, è stata la spinta di Archimede. Lavorare in acqua è differente perché ci si muove a peso ridotto e la sensazione è un po’ quella di volare: passeggiare sulla luna anziché camminare per le vie del centro.

Forse per volare bisogna aggiungerci un po’ di energia, ma ho riscoperto l’appoggio pieno che si riceve dall’acqua, che è come stare su un materasso morbido.

Dopo il sostegno ho riscoperto il piacere di sentirsi avvolti, come un ritorno al liquido amniotico.

Avvolti e sostenuti: entrare in acqua ad allenarsi è la sensazione di una coccola.
Non il duro del pavimento attenuato appena da un tappetino, ma fluttuare in un dolce abbraccio.

Presto però la nuotata zen si è rivelata insoddisfacente e a breve giro è emersa la consapevolezza che il nuoto è uno sport insidioso: basta stargli lontana una sola settimana per ricadere al livello base. Figuriamoci dodici: la velocità che con tanta dedizione avevo affinato si è dispersa, tocca ripartire a lavorare sui gesti.

Non mi è mancata solo l’acqua, mi è mancata proprio la piscina, con la riga nera che divide la corsia a metà e la T che indica dove virare. Mi è mancata la socialità delle parole che si possono scambiare tra una serie e l’altra. Mi è mancato quel senso di completezza della giornata che provo quando sfilo la cuffia e gli occhialini.

Per me che sono un’insoddisfatta di natura, la ciliegina sulla torta sarà il ritorno alla competizione.

Non mi interessano le dispute a distanza: io voglio proprio quegli assembramenti che si formano prima della partenza, quei momenti di condivisione dei riti, quegli abbracci che anche dopo anni, a centinaia di km una dall’altra, ognuna chiuso fra quattro mura mi hanno fatta sentire vicina a chi vive la stessa mia passione, mi hanno regalato quel senso di identità e di appartenenza ad un mondo che pur essendosi eclissato per 12 settimane non ha smesso un solo minuto di pulsare.