Ufficiale e gentiluomo

Poco dopo le 6.00 il richiamo dall’altoparlante ci annuncia che siamo prossimi a terra. Con qualche contorsionismo ci disincastriamo dal Tetris della cabina e raggiungiamo il bar, dove tira un vento gelido di aria condizionata polare.

Poco alla volta tutti si risvegliano; chi ha usufruito del passaggio ponte si attarda un po’, raccoglie le proprie cose sparpagliate attorno. Qualcuno approfitta degli ultimi attimi di sonno, coprendosi testa e orecchie per attutire il disturbo del via vai.

Si vede già terra, eppure lo sbarco si farà ancora attendere.

Verso le 7.00 iniziano a chiamare gli automobilisti, suddivisi per garage.

Quelli più prossimi alla discesa defluiscono ai piani inferiori, gli altri attendono pazientemente sulle scale.

Ogni tanto si apre un nuovo garage e la folla si riduce, permettendo di discendere un altro piano.

Sull’ultima rampa sta disteso un uomo. La testa avvolta in un indumento, i piedi scalzi dalla pianta nerissima.

Indossa un paio di jeans sdruciti e una t-shirt consunta, che non copre le braccia macilente.

Attorno a lui bottigliette vuote, qualche effetto personale e tanta, tanta confusione.
Lui dorme, profondamente.

Gente che va e viene, bambini, cani, schiamazzi.

Tutti in piedi, lui disteso, dorme profondamente.

Bisticci di bambini assonnati, chiamate urgenti alla reception, risate da relax post vacanziero.
Lui dorme.

Passa un uomo dell’equipaggio, tenta di svegliarlo blandamente, gli dice che stiamo attraccando a Olbia, mentre siamo a Livorno.

Lui dorme, profondamente.

Scompiglio per l’annuncio errato tra gli astanti. Una famiglia in difficoltà a svitare il tappo della sua bottiglia di acqua.

Lui dorme.
Ormai dovremmo esserci, tra poco scenderanno tutti, sono ormai le 8.00.

Arriva un altro uomo dell’equipaggio, più alto in grado, prova a chiamarlo in modo perentorio.

“Signore, signore! Deve svegliarsi, siamo arrivati”

Niente, nessun segno di vita.

Una donna avvisa che già un collega aveva tentato la missione, senza successo.

Il tizio in uniforme bianca, con la spallina blu e le stelle dorate, i capelli neri raccolti in un codino, la barba che sa di pulito, non capisce.

“Un collega? Chi?”

La donna paziente gli risponde che non sa, un altro dell’equipaggio.

Nuovo tentativo più deciso del precedente: “Signore si deve svegliare” che però non sortisce alcun effetto.

L’uomo in uniforme inizia a spazientirsi e la tensione si fa palpabile.

Si accovaccia e prova a muoverlo, meditando a voce alta di chiamare la sicurezza.

Il tizio disteso accenna un lieve rotolamento, protesta da sotto la giacca che gli fa da turbante e mascherina.

Di nuovo un richiamo: “Signore deve svegliarsi”

L’altro prende forza e ribatte a voce impastata “ma io vivo qua” senza aprire gli occhi.

Disappunto tra i presenti, mormorii.
L’uomo in uniforme sta per rialzarsi e chiamare rinforzi.
Poi qualcosa lo attrae, ritorna abbasso e chiede “Ma tu… mica se’ Joseph???”

Ed è lui!
Carramba che sorpresa! L’uomo che dormiva si alza lentamente in piedi, con aria stralunata, la barba incolta, i capelli rasati, un occhio semi chiuso, peserà 50 kg.

“Joseph, che bello rivederti! Vieni vieni con me, che fai qua?”

I due si abbracciano e sembrano sinceramente felici di vedersi.

Il contrasto tra le due figure, il barbone e l’ammiraglio, si fonde: ora non sono più i ruoli che rappresentano, ora sono loro due, sono amici che non si vedono da un sacco di tempo.
Hanno recuperato ciascuno la propria dimensione umana.

“Vado a trovare i nipoti e tu?”

“E io ci lavoro! Vieni dai che ti faccio vedere un po’ in giro! Dove hai parcheggiato la macchina? Ti offro da bere!”

Il pubblico, non pagante, si scambia incredulo occhiate coi lucciconi mentre Joseph e l’ammiraglio si allontanano.

Sardegna 2022

Cosa riporto a casa da questa vacanza?

Rigorosamente in ordine random:

  • la sigla del tg1 delle 8,00 che riecheggia dalle finestre del vicino;
  • una cavigliera da ragazzina che ho trovato sul fondale mentre nuotavo;
  • un bel po’ di sabbia, sospinta dal vento incessante, e rimasta appiccicata agli asciugamani;
  • il monito che dentro un barattolo con la dicitura ‘zucchero’ potrebbe nascondersi altro (mamma come è salato questo the);
  • gli abitanti del centro che siedono sulla soglia di casa a fare salotto, direttamente sul ciglio della strada;
  • il sapore del sale chehaisullapelle chehaisullelabbra che dopo i primi 5 minuti di nuoto ti arriva fino in gola e hai voglia a sciacquare quando esci: non va più via;
  • che se vuoi la pasta senza formaggio devi precisarlo;
  • le seadas, il mirto, il pecorino, il pane carasau, il porcellino, i malloreddus, le sappuedas, il melone verde, l’acqua smeraldina e i tappi delle bottiglie che a Viola non piacciono;
  • il materasso del letto che pare un tagadà;
  • le visite alle miniere di Serbariu e al sito archeologico di Barumimi, la preparazione e la cortesia delle guide che ci hanno accompagnato, la totale mancanza di indicazioni stradali per raggiungere i luoghi;
  • il ballo della scopa che partiva in spiaggia appena si liberava un posto e tutti correvano a riaccaparrarsi la posizione migliore;
  • le folate improvvise che rovesciano gli ombrelloni e la gente che corre a riprenderli; noi siamo riusciti a rompere il nostro al secondo giorno: non male considerato che ci sono suppellettili in terracotta che resistono per millenni;
  • le figlie che socializzano con i coetanei (in misura diversa! ) e spariscono; poi ritornano (sempre in misura diversa);
  • l’esercente che non vuole rovinare il layout del suo plateatico e ci chiede di cambiare tavolino;
  • gli oleandri, le alghe, le meduse, l’acqua limpidissima su fondale bianco e sabbioso, un paesaggio insolitamente verde;
  • i reticoli di strade fittissimi con le auto parcheggiate ovunque;
  • la gelateria fantasma, sparita nel nulla dopo che avevo convinto il resto della famiglia ad una tappa;
  • il vento che mi pettina alla Mirko dei bee-hive e che quando si ferma rivela un caldo torrido quasi africano.

Una vita come tante

Sapevo in parte cosa mi attendeva, anzi proprio perché lo sapevo ho voluto affrontare questa sfida.

Avevo letto numerose recensioni, avevo capito che si trattava di un libro lungo (oltre le 1000 pagine) e ho voluto approfittare delle vacanze estive per affrontare una lettura unica anziché tanti libri di media dimensione.

E poi ero incuriosita dall’immagine di copertina.

Sapevo che il contenuto era sventurato e non farò spoiler raccontando brevemente che si narra di quattro amici legati da sentimenti profondi. Uno di questi, Jude St. Francis, ha avuto un’infanzia tormentata, oltremodo difficile. A causa di ciò assume nel resto della sua esistenza dei comportamenti autolesionistici.
Gli altri tre amici gli vanno, seppur in misura diversa, in soccorso.

La storia copre l’arco delle loro esistenze dai tempi del college in poi, e questo giustificherebbe la mole di pagine.

Avevo già afferrato che si trattava di storie tristi, dure, difficili.

A nessuno di loro manca la disponibilità economica ed è anche fastidioso leggere tanto spreco di possibilità che la vita offre: vero è che i soldi non fanno la felicità ma tanto valeva aggiungerci anche un po’ di povertà a tutte ste sofferenze, visto tanto impegno per inventarsi le sfighe una dietro l’altra.

Temevo a dire il vero un po’ di accanimento, una tendenza a rimestare nel torbido, una serie di pagine per stomaci forti.

Invece mi sono ritrovata di fronte a tanta ripetitività, a storie narrate “dietro a un finestrino”, a lasciar immaginare anziché coinvolgere.

Da un autore mi aspetto che mi prenda e mi conduca anima e corpo dentro la situazione: non dirmi che piove ma portami sotto l’acqua e fammi inzuppare i vestiti, fammi uscire fradicio dalle tue righe, fammi rimpiangere di non avere un ombrello.

Invece tutta una serie di allusioni, di sottintesi, di riferimenti vaghi.
Tante liste di nomi, di giorni della settimana e di mesi che si succedono, di compleanni.
Tanti, tantissimi, giorni del ringraziamento.

Stephen King ha scritto un saggio, intitolato On Writing, nel quale dispensa consigli di scrittura.
Ricordo bene che uno di questi consigli invitava a tagliare le parti in eccesso. Raccontava che durante la stesura di un suo romanzo aveva trascorso delle settimane a scrivere una digressione molto dettagliata su un personaggio. Poi si rese conto che non faceva parte della storia e che anzi era superflua, che la vita di questo personaggio interessava solo a lui. Così la taglió, senza nulla togliere al romanzo.

Avrebbe fatto bene anche Hanna Yanagihara a fare altrettanto.

Top Gun Maverick – I miei 2 cents

Dicevano che era un gran film; dicevano che aveva effetti speciali; dicevano che Tom Cruise è inossidabile, che a 60 anni è rimasto tale e quale a quello del primo film, quando ne aveva appena 26.

Mi permetto di levarmi dal coro.

Il film, come ogni sequel, fa rimpiangere il primo.
Gli effetti, confermo, ci sono, e sono più o meno l’unico ingrediente.

Tom Cruise ha 35 anni in più. Si vedono, forse non tutti, ma si vedono. Per non farlo sfigurare troppo è stato selezionato un cast di basso profilo, per cui se andate a vedere il film per gustarvi l’occhio lasciate perdere. Vale anche per la componente femminile.

Maverick veste ancora lo stesso giubbotto e gli stessi occhiali a goccia; alla sua età ancora non ha imparato a infilarsi un casco prima di salire in sella a una moto.

La storia d’amore è stata inserita a forza, senza corteggiamento, nè scene di sesso, nè lieto fine. Solo un furtivo incontro guastato dalla presenza dei figli.

Il lessico ha subito, rispetto al primo film, troppa innovazione: quando mai adoperiamo il verbo brieffare per dire ragguagliare?

Anche la colonna sonora è rimasta la stessa, Highway to the Danger Zone, potete leggerlo canticchiando così vi sentirete già al 50% calati nella parte di spettatori.

Unica nota positiva: ho apprezzato la presenza di personaggi femminili (uno a dire il vero, forse una quota rosa) perfettamente integrati nella squadra, senza che si cadesse nei soliti stereotipi per cui a un certo punto ‘la donna non ce la fa’. Si è un po’ superato insomma il concetto che Venusia esce, spara due tette e poi è costretta a battere in ritirata e lasciare correggere il tiro a quel superdotato di missili che è ufo robot.

“Non conta l’aereo signore… conta il pilota!!!”