HOT PARADE AUTUNNO 2018

I dischi che caratterizzano questo momento; non significa i migliori o che siano pezzi memorabili o particolarmente belli, semplicemente sono brani che in questo periodo della mia si ascoltano con maggiore frequenza e che hanno un nesso con la vita quotidiana.

Assolutamente in ordine di niente.

* Da zero a cento – Baby K

Tocca ascoltarlo da capo ogni volta che per qualche motivo viene interrotto: Viola chiede che lo carichiamo da YouTube e riproduce fedelmente (fedelmente a modo suo) le mosse delle ballerine, cantando i pezzi che ricorda “Andale andaleeee”

* Faccio quello che voglio – Fabio Rovazzi

Questo viene ascoltato in loop in auto quando a bordo ci sono le bambine; se invece siamo a casa tocca vedere il video integrale, in cui si può apprezzare per intero la storia che sta dietro le parole.

Più che un video musicale, un vero e proprio cortometraggio scritto e diretto per intero dallo stesso Rovazzi.

Pensatela come volete, il ragazzo ha talento. Non per cantare, ma ci sa fare. Ha già sbaragliato i suoi mentori J-Ax e Fedez, ha rimesso in pista personaggi come Morandi e Al Bano. Vedo una lunga strada tracciata davanti a lui, sta andando a comandare

* Tutto tua madre – J-Ax

La (non ancora) madre che lanciava il reggiseno a ogni concerto ce l’ha fatta, e ora ha un pargolo tutto suo. Io preferivo il J-Ax senza figli, ma ho sentito molti spendere parole molto positive per la nuova veste di musicista genitore.

* Torna a casa – Maneskin

Questi ragazzi mi sono piaciuti dal primo ascolto, da quando inneggiavano con voce graffiante a Marlena / spogliati nera / apri la vela / viaggia leggera.

Ora Marlena deve aver preso il largo, perché la richiamano: torna a casa / il freddo ormai si fa sentire.

Apprezzo la coerenza di dedicare più canzoni alla stessa donna, mi unisco al coro di appello: quindi, Marlena, da brava, torna a casa!!!

* Le tasche piene di sassi – Giorgia

Finché questo tripudio di S usciva storpiato in F dalla bocca di Jovanotti non lo potevo sopportare. Ora ne riscopro tutta la meraviglia.

Mi torna in mente, granitica, una scena. Ero in età di scuola elementare e all’epoca il tempo pieno era per pochi; io andavo a scuola solo al mattino, poi al pomeriggio praticavo diverse attività tra cui, per due pomeriggi a settimana, la ginnastica.

Fosse oggi avrebbe un nome più esotico, come minimo si chiamerebbe psicomotricità; allora era semplicemente ginnastica al palazzetto dello sport.

Martedì e giovedì pomeriggio, tra le 15,30 e le 16,30 credo.

Vabbè magari dedicherò un post a parte a quello che si faceva in quest’ora e a vari aneddoti correlati; in questa sede mi limito a ricordare che una volta è successo che all’uscita a prendermi non è arrivata mia mamma. Nè una zia, una nonna, una baby sitter improvvisata. Non è arrivato un bel niente di nessuno, per un tempo indefinito che a me è parso eterno.

“Sono sola stasera senza di te / mi hai lasciata da sola davanti al cielo / arriva subito / mi vien da piangere”

Poi da dietro la curva, con uno stile di guida che Shumaker levati, è arrivata la mamma.

Non ho mai saputo cosa fosse accaduto, se mi aveva dimenticata o solo avuto un contrattempo: lei è arrivata e questo mi basta!

* Bling bling – Gue Pequeno

“Euro cash grana soldi schei / un milione anche più / anche l’ultima marlboro”

Ci sono diversi modi di riferirsi al denaro, schei è tipico veneto, ma è un termine talmente diffuso che non se ne coglie quasi l’accezione dialettale.

E poi, inossidabile, il richiamo a Mango: Oro.

Il metallo prezioso che è riferimento per il valore di ogni bene, convertibile nelle summenzionate unità di misura.

Mango col suo oro come il metro depositato al Bureau international des poids et mesures di Parigi, Gue Pequeno che ci rappa sopra a me non dispiace affatto.

* Piovesse il tuo nome – Elisa

“Se in mezzo alle strade

O nella confusione

Piovesse il tuo nome io

Una lettera per volta vorrei bere”

E se il nome che piove fosse Pierferdinando, sai quante lettere dovrebbe bersi, una alla volta? E soprattutto se cade un tafernario tanto di nome in mezzo a mille persone… non c’è pericolo che faccia dei morti?

* Pem pem – Elettra Lamborghini

Tutta in spagnolo ma si capisce perfettamente che lui non la ama ma la invita a casa sua a fumar marjuana pemperepem

* Paracetamolo – Calcutta

Collega1 entra in ufficio dicendo che si sente la febbre, se abbiamo una Tachipirina; io ravano un po’ nella mia borsa e gli porgo una pastiglia greca, equivalente di una Tachipirina 500. Collega2 gli allunga una bustina di qualcosa che sostiene essere pari alla Tachipirina 1000. Collega1 accetta la seconda offerta e io intono “lo sai che la Tachipirina 500 se ne prendi due… diventa 1000?”. Collega3 allibito, mi chiede se mi sono diventata cantautrice. Cultura musicale pari a zero, accendo Spotify e li aggiorno.

* Nera – Irama

“Nera come la tua schiena”

Che però ora a novembre è sbiadita

* Voglio – Marco Mengoni

“Voglio dire al vero amore che non era vero”

Non potete immaginare che razza di trip mentali mi scatena questa frase: se non era vero allora non posso dirglielo, perché lo direi alla persona sbagliata. O a non essere vero era qualcos’altro, non l’amore? In tal caso… cosa???

* Shut Up – Black eyed peas

Vero, è una canzone di parecchi anni addietro, ma la stanno riproponendo insistentemente e a me piaceva tantissimo e mi piace tuttora!

Sopra a tutto il dialogo cantato che termina con lo sfogo gridato della voce femminile:

“It was the same damn thing

Same ass excuses

Boy you’re usless

Whhoooaaaa”

Hit parade

Ai miei tempi c’era il sussidiario.

Oddio, se inizio così mi sembro mia nonna.

Voglio dire però, e non so come altro farlo, che quando io frequentavo le scuole elementari, che ora si dicono primarie, arrivati alla terza classe, iniziava il programma di storia-scienze-geografia e ci si appoggiava al libro di testo chiamato sussidiario.

Adesso i libri di testo sono molteplici, e a guardarli dentro non intravvedo lo stesso rigore.

Ad esempio, vado a memoria, e posso ingannarmi, il programma di storia prevedeva lo studio a partire dalla preistoria fino ad arrivare agli antichi romani.

Discorro con Sofia di argomenti simili mentre rincasiamo, le chiedo come è andata a scuola e mi risponde che hanno fatto storia, la genesi.

Poi mi abbozza un mezzo discorso di creta e argilla e soffio divino.

Prese un poco di argilla rossa / Fece la carne, fece le ossa

Ci sputó sopra, ci fu un gran tuono / Ed è in quel modo che è nato l’uomo

Nella mia testa ha preso il sopravvento questa strofa, ho smesso di seguire il discorso di Sofia e inizio a cantare dall’inizio la Genesi di Guccini, che era una delle mie canzoni preferite quando ero bambina.

La ricordo tutta, perfettamente, tranne sulle strofe parlate, in cui qualche termine mi sfugge.

L’intonazione parte un po’ stentata

Per capire la nostra storia, bisogna farsi ad un tempo remoto

C’era un vecchio con la barba bianca, lui la sua barba ed il resto era vuoto

Stentata, ad essere onesti, è un eufemismo perché Sofia mi interrompe

“Buuuuuu…. mamma…. pomodori marci”

Cerco di migliorare la nota

Voi capirete che in tale frangente quel vecchio solo lassù si annoiava

Si aggiunga questo che inspiegabilmente nessuno aveva la tv inventata

Sofia ripete più forte “Buuuu… pomodori marci!!! Pomodori marci!!!!”

Resto interdetta, indecisa se proseguire a cantare o sospendere. Non mi sembra di essere così pessima.

Mentre rifletto provo a proseguire

Beh poco male pensó il vecchio un giorno, a questo affare ci penserò io

Sembra impossibil ma in roba del genere, modestia a parte ci so far da Dio

Forse come cantante non ho fortuna, ma come narratrice vado meglio perché ho suscitato l’interesse di Viola: appena sospendo la performance dal sedile dietro perviene una vocina:

“Ancora pomodoi macci mamma”.

Che non dà torto a sua sorella, ma più che la melodia poté la curiosità.

Risollevata la mia autostima riparto a cantare.

Dixit: ma poi toccó un filo scoperto, prese la scossa ci fu un gran boato

Come tv non valeva un bel niente, ma l’universo era stato creato

Quanto mi piaceva questa canzone!

Mi leggevo e rileggevo il testo dalla busta che conteneva il vinile.

Mi ritrovo col pensiero indietro di trent’anni e più, a quando nè YouTube nè Spotify.

L’ascolto era una vera e propria audizione, che a casa mia avveniva la sera, spesso in alternativa ai palinsesti televisivi.

Dalla discoteca, intesa letteralmente come raccolta di dischi, veniva scelto un elemento, veniva adagiato sulla piastra rotonda e si ascoltava, in ammirazione della puntina che solcava la traccia.

Mentre lo stereo riproduceva il brano io tenevo in mano la copertina e seguivo le parole.

La scelta del vinile poteva durare anche mezz’ora, durante la quale si passavano in rassegna i vari dischi, uno per uno.

Il disco andava ascoltato rigorosamente tutto, prima il lato A e poi il lato B: se ci si allontanava dalla stanza bisognava prestare attenzione alla fine del gruppo di canzoni sul lato in riproduzione, altrimenti si rovinava la puntina.

Ogni album, all’epoca, era un qualcosa di tangibile: aveva una copertina, la quale riportava un’immagine che diventava imprescindibile dal prodotto sonoro; aveva un numero di tracce ben definito ed ordinato; aveva i testi delle canzoni.

Ci tenevo a prendere parte alla scelta, poteva fare la differenza tra una serata bella e una noiosa.

La raccolta contava un numero limitato di dischi, forse quelli che adesso potrebbero stare tutto dentro una chiavetta USB.

Di ogni album io apprezzavo una canzone in particolare, al massimo due, il resto era un riempitivo, che per certi dischi ero disposta ad ascoltare, pur di sentire la mia.

Tra i miei brani preferiti, oltre a questo di Guccini, c’era Samarcanda di Vecchioni.

Avevo inteso che la nera signora era qualcosa di funesto, ma oh-oh-cavallo mi metteva tanta allegria addosso.

Un altro pezzo che per me era formidabile era Ma che bontà di Mina: sapevo che andava a finire in cacca, e ridevo fin dalla prima strofa.

La collezione non includeva nessun Celentano, nessun Ron, nessun Pooh, nessun Ricchi e Poveri.

C’erano invece De Andrè, di cui apprezzavo Bocca di Rosa, ma che qualche anno più avanti mi avrebbe ammaliato con Don Raffaè.

C’era Battiato, che in verità era su nastro, di cui mi piaceva Centro di gravità permanente.

C’erano i Matia Bazar, vincitori di Sanremo con Vacanze Romane, di cui preferivo Elettroshock. La copertina dell’album era grigia e sopra erano stilizzati una coppia di ballerini, a righe slittate.

C’era Edoardo Bennato con il suo Sono solo canzonette, a base di Peter Pan, che mi piaceva tutto o quasi.

C’era la Vanoni, con un disco che in copertina riportava la sagoma del suo viso contornata dai ricci, e riempita di una carta a effetto specchio.

Mi piaceva quel verso di Vai Valentina “lacrime calde su tre fette di saint-honoré”, che vedevo un po’ come uno spreco, dal punto di vista della mia golosità, ma tre fette sono ben tre fette!

C’erano anche dischi di musica straniera, ma niente Beatles.

Tra gli anglofoni ricordo in maniera indelebile The Wall, dei Pink Floyd, di cui più tardi avevamo acquistato anche il VHS del film.

L’album era doppio e la copertina era una serie di blocchetti, i mattoni del muro, da cui le lettere dei testi, scritti in un carattere simile al corsivo, lasciavano colare gocce di sangue.

Tra ascolto del disco e visione del film credo di poter affermare che quell’opera costituisce una pietra miliare nella mia formazione.

Poi c’era una raccolta di Janis Joplin, che mi dava energia col suo Piece of my heart, ma verso la quale nutrivo un po’ di perplessità, perché mi avevano raccontato che era morta per aver sbagliato a farsi una puntura.

Infine tra gli ultimi LP entrati a far parte della collezione, dato che poi i vinile sono caduti in disuso in favore dei nastri e dei cd, ricordo con piacere:

– i Talking Heads con il brano Blind

– Elton John con l’album Reg Strikes Back

– Terence Trent D’Arby con il pezzo Sign Your Name

(Questi ultimi due acquistati dietro mia iniziativa).

E ovviamente gli album di Madonna, mio idolo indiscusso, Like a Virgin e True Blue, che mi ero fatta regalare.

Alla luce di questo rivangamento del passato non so se faccio più fatica a spiegarmi:

  • come mai non esiste più il sussidiario;
  • perché Terence Trent D’Arby si è riciclato col nome di Sananda Maitreya;
  • come sia possibile che da cotanto background mi sia ridotta ad ascoltare insieme alle mie figlie Rovazzi e Fedez.

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Questo post può considerarsi, a suo modo, la risposta al tag i 10 album.

Ritmi latini di altri tempi

Non guardo la televisione, ma non è anticonformismo, semplice fase della vita.
Sono cresciuta a pane e BimBumBam, il simpatico contenitore pomeridiano per cartoni animati, capeggiato dal pupazzo Uan. Lo guardavo mentre ero dalla nonna, chè i miei genitori lavoravano tutto il giorno.
A casa la sera si guardava poca tv ma SuperGulp, che piaceva anche a loro, era imperdibile; per il resto non c’erano tante discussioni, non avevo facoltà di scegliere io i programmi serali.
Così quando mi sono sposata ho ripreso possesso del telecomando, fino a che non sono nate le bimbe.
Ogni sera c’era Enrico Papi con Sarabanda, il lunedì tardi facevano Zelig e l’estate veniva scandita dalle tappe del FestivalBar, che si concludeva a settembre all’Arena di Verona. Non era tanto la gara canora a coinvolgere il pubblico, quanto la possibilità di vedere esibirsi i cantanti del momento. Bei ricordi.
Al mio rientro dal lavoro ogni sera trovavo ad attendermi Gerry Scotti e le letterine, Ullalla-ullalla-ullalla-là / Passaparola / Noi siamo qua.

Mi piaceva immedesimarmi nel gioco finale, cercavo di rispondere tempestivamente ad ogni domanda di cui si sapeva la lettera iniziale della risposta, una per ogni simbolo dell’alfabeto. 

Quando il concorrente non la conosceva poteva saltare la risposta per darla al giro successivo, se avanzava del tempo. La parola magica per procedere era appunto Passaparola.

Il particolare della trasmissione che porto ancora vivo nella memoria è lo stacchetto sulle note di una canzone della mosca tze tze:

“Yo romperé tus fotos / Yo quemaré tus cartas / Para no verte más”
traducibile in 

“straccerò le tue foto / brucerò le tue lettere / per non vederti più”.

Sulla prima frase riportata la letterina di turno (o Alessia Fabiani, o Ilary Blasi, o Silvia Toffanin…) faceva una mossa come se stesse affettandosi l’avambraccio con la mano opposta, che io riconducevo al tagliare a pezzi le foto della persona da non vedere.

Non erano ancora i tempi delle canzoni spagnole monopolio dell’estate: Alvaro Soler forse andava alla scuola materna, Enrique Iglesias non soffriva al corazon, Luis Fonsi era nei pensieri della sua mamma.

La canzone mi prendeva molto e quel particolare di affettare le fotografie come una soppressa mi sembrava suggestivo come una macumba da praticare a chi non si desiderava rivedere mai più.

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Questo pezzo partecipa per gli #aedidigitali al tema della settimana #passa-la-parola.

Ricetta di una canzone d’estate!

Disclaimer: a me l’estate piace! So che non è così per tutti, ma abbiate pazienza, a furor di popolo in genere è apprezzata, se avrete voglia di leggere ve lo dimostro.

L’estate è la stagione più calda dell’anno e alle nostre latitudini, in contrapposizione con inverni rigidi, è vissuta come una benedizione (o come una condanna per alcuni).

L’estate è il periodo in cui chiudono le scuole, si sospendono le attività, si va in vacanza.

Ci sono alcuni luoghi comuni che imperano nella musica italiana; nei testi delle canzoni possiamo trovare alcuni motivi fondamentali legati all’estate, che ritornano tra un brano e l’altro, trasversalmente nel genere e nel tempo.
Ricetta per una canzone sull’estate:

  • 100 gr di desiderabilità, perché si Cerca l’estate tutto l’anno
  • 100 gr di improvvisazione, e all’improvviso eccola qua; Ritorna senza avvisare
  • Una dose massiccia di ciclicità: E ancora un’altra estate arriverà, L’estate è tornata e chiede di te; Un anno è già passato / La spiaggia si è ristretta ancora un metro / Ricordo di un futuro già vissuto da qualcuno, Torneranno i cinema all’aperto e i riti dell’estate, È il solito rituale
  • Versare tutto in un contenitore per vacanze balneare (no, canzoni per le vacanze in montagna non ne ho trovate): Giuni Russo quest’estate vuole divertirsi per le vacanze; Max Gazzè va al mare voi che fate?; J-Ax si tuffa nel mare nazionalpopolare; Raphael Gualazzi ha voglia di cantare, di gridare, di ballare in riva al mare;
  • Aggiungere un nuovo amore, ingrediente fondamentale: puó essere il campionato di calcio Un’estate / Un’avventura in più; oppure un amore classico come quello di Alex Britti Forse è l’estate o forse è pazzia ma so che stanotte diventerai mia; anche la Bertè riconosce Nuove avventure, discoteche iluminate piene di bugie.

Avevo un collega, alcuni anni fa, che inseriva a questo punto della ricetta una variante: diceva che la morosa è bello averla d’inverno, quando non sai come riempire i fine settimana e allora ti può anche star bene di rimanere a casa, sul divano, a guardare un film. Però d’estate no, d’estate è bello essere liberi di uscire con gli amici e divertirsi.

  • In estate le giornate si allungano e la notte, che si restringe e regala temperature più miti, acquista maggiore importanza: per le Vibrazioni è emblema di un’intera storia stringimi ancora come quella volta in spiaggia con la luna in una notte d’estate; alla bella d’estate di Mango basterebbe tornare fin qui / Come onde di notte sulla spiaggia.
  • Un pizzico di vento non manca mai: Prima che il vento porti via tutto a Jovanotti, questo vento Agita anche Loredana Bertè, o il generico Vento d’estate di Niccoló Fabi.
  • Non dimenticare di amalgamare la fugacità: somiglia a un gioco, è stupenda ma dura poco; sta finendo e un anno se ne va; porta via con sé, anche il meglio delle favole; in spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più; i Negramaro auspicano che potesse non finire mai.

A questo punto l’impasto è pronto, gli amori estivi sono destinati a concludersi insieme con la fine della stagione più calda: La mia strada della vacanza, segnerà la tua lontananza; è il solito rituale / ma ora manchi tu; Bella d’estate vai via da me.

La cottura è completa quando si ritorna alla normalità con un sentimento misto di malinconia e gioia: Un’estate fa che mi regalerà un autunno malinconico; e che settembre ci porti una strana felicità; Eppure non partiamo mai, ci allontaniamo solo un po’ / Davanti il tuo ritorno alla normalità.

Gustare il periodo di stacco goduto prima di  iniziare un nuovo percorso di crescita:
Sto diventando grande, lo sai che non mi va; Diamo alla vita un’ora perché al ritorno sembri nuova.

(Di seguito i titoli dei brani da cui sono tratti i versi:

Tra le granite e le granate – Francesco Gabbani

Un’estate fa – Mina

L’estate addosso – Jovanotti

Un’estate al mare – Giuni Russo

Vento d’estate – Max Gazzè & Niccoló Fabi

Estate italiana – Gianna Nannini & Edoardo Bennato

L’estate di John Wayne – Raphael Gualazzi

L’estate sta finendo – Righeira

Azzurro  – Adriano Celentano

Notte di mezza estate – Alex Britti

In una notte d’estate – Le vibrazioni

Bella d’estate – Mango

Estate – Negramaro

Il mare d’inverno – Loredana Bertè

Lento veloce – Tiziano Ferro

Vorrei ma non posto – J-Ax).

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Con questo pezzo partecipo al tema #estate per la settimana proposto dagli #aedidigitali

40 anni che ‘Ti Amo’

È uscita lo scorso 31 marzo la raccolta “40 anni che ti amo” di Umberto Tozzi: la canzone del guerriero di carta igienica circola da 4 decadi, e per l’occasione ne esce una versione in duetto con Anastasia, voce femminile che adoro e che valorizzerebbe, vero, anche i pezzi di Gigi d’Alessio.
Durante lo zapping alla radio mi imbatto in un’intervista al cantante, uno che all’apparenza non gli dai 5 lire, e invece eccolo lì, inossidabile più di Raffaella Carrà. Uno che pensando a Gloria nuda sul divano fa stelle di cartone, e che canta gli innamorati sui freddi gradini (o grappini?) di un bar.

Si dichiara onorato che una sua canzone (Gloria appunto) sia stata reinterpreta da Laura Braningan, quella di FlashDance.

Racconta del brano inedito cantato con Eros Ramazzotti, parla del loro incontro in modo pacato, come se fossero due amiconi di paese.

Una persona semplice, questo mi è sembrato il buon Umberto, il capellone biondo dalla voce roca e graffiante e dai versi improbabili, artista del falsetto.

Rievoca che è stato tacciato di maschilismo, per la donna che stira cantando da abbracciare, e si giustifica dicendo che lui pensava a suo padre, a quando rientrava a casa e abbracciava sua madre.

Ci penso, a quanto l’ho ascoltato: in duetto con Raf e la ‘Gente di mare’; in terzetto con Morandi e Ruggeri a dire che ‘Gli altri siamo noi’; a quanto la notterosa/sembraesplosa ha riecheggiato nella mia testa nelle occasioni di fine giugno a Riccione, che cade sempre in concomitanza con i campionati italiani di nuoto master, quando per una sera tutto si tinge di questo colore (e i commercianti vendono ogni tipo di gadget in tinta per partecipare degnamente).

Ho persino visto un suo concerto, l’unico in vita mia.

È proprio vero che certi fenomeni escono sulle lunghe distanze, mi sa che di eternità si è macchiato un pochino anche lui.

(In foto uno dei cappellini rosa venduti a Riccione).

Traslochi

Oggi voglio fare un ‘regalo’ ai miei lettori; uno di quei regali che chi lo riceve scarta e cerca di mascherare il commento ‘potevi anche tenertelo’ sviando in ‘ma non dovevi disturbarti!’

Oggi pubblico qui quello che avrebbe voluto essere il Capitolo I di un ipotetico mio libro, che però non ha mai proseguito oltre.

Chissà, magari da qualche commento potrei trarre ispirazione per il seguito; oppure potrei capire che ho fatto bene a fermarmi.

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“Mettilo lì” dice Martina indicando un’area della superficie esatta della base dello scatolone che Franco, visibilmente sudato, sta sorreggendo.“Quante volte ti ho detto di prepararli più leggeri” sbuffa Franco, andandosene direttamente verso la porta di uscita a cercare qualche altro carico da portare dentro la casa nuova.

Si tratta del terzo trasloco nell’arco degli ultimi due anni, finalmente quello che, almeno nelle previsioni plausibili, si può chiamare definitivo.

Un trasloco è sempre un momento di rivoluzione, e non solo in senso fisico, per lo spostamento di materiale che inevitabilmente comporta. Ci si ritrova costretti a mettere in discussione tutto: abitudini personali, oggetti stipati nel fondo degli armadi, collocazione di utensili di uso quotidiano. Perfino i percorsi quotidiani, la strada che porta al lavoro, o a scuola, vanno ripensati e analizzati durante il primo periodo di insediamento; altrimenti si corre il rischio di imboccare una via che in realtà conduce nella direzione opposta a quella che si intende raggiungere.

Tutto stravolto: il cassetto delle posate non è più il primo a destra ma diventa quello sotto al fornello; il pulsante per accendere la luce principale va spinto verso l’alto e non verso il basso; quella maglia che si conservava per occasioni speciali, che si era riposta in una custodia e che si usava raramente, pertanto in un angolo recondito, si rivela inutilizzata ormai da parecchi anni. Ci si era quasi dimenticati di averla, ad essere onesti ce ne si era dimenticati del tutto, e adesso eccola lì a renderci conto di quanti anni sono passati.

Dispiace buttarla, nonostante ci si renda conto che non la si utilizzerà più e che occupa un po’ di spazio inutilmente; ma lo spazio che richiede è poco e i ricordi che porta con sé sono molto importanti.

Certo, ad applicare le stesse considerazioni a tutte le cose ci si ritroverà con la casa nuova piena di carabattole vecchie e soprattutto inutilizzate; magari qualcuno potrebbe riutilizzarla, qualcuno di meno fortunato che però potrebbe non apprezzarla per il suo valore inestimabile…

“Io vado a prendere gli altri scatoloni” grida Franco, ridestando Martina dai suoi pensieri e riportandola al presente “e voglio sperare che non siano tutti così pesanti, altrimenti ne risentirà la mia schiena e dovremo interrompere il lavoro”.

“Sono pesanti perche sono compatti” si giustifica Martina “con un solo giro porti tante cose, si tratta in realtà di ottimizzazione”.

“Porto un ultimo carico e poi andiamo a mangiare un boccone, che è ora di pranzo. Ho bisogno di introdurre energie e soprattutto di bere una bella birra fresca” conclude Franco, uscendosene e richiudendo la porta.

In effetti alcuni dei pacchi che Martina ha assemblato sono parecchio pesanti, se ne rende conto. Si tratta perlopiù di pacchi di fotografie, di libri o di dischi. Ma se si potesse pesare come un grave il carico di emozioni e di ricordi che ciascun elemento, foto o canzone che sia, porta con se, quei pacchi sarebbero veramente insostenibili.

Quante informazioni archiviate solo nella nostra memoria scaturiscono dall’ascolto di un brano, quante situazioni si ricollegano ad un’immagine. E pensare che tutto sta dentro pochi decimetri cubi, qualche litro di capacità per una vita intera di pensieri.

Purtroppo quello stesso carico non è apprezzabile dall’esterno: chi vede una fotografia vede solo ciò che gli appare. È un modo veloce di trasferire i propri stati d’animo a chi ci circonda; talmente veloce che tralascia tutti i dettagli; chi propone lo scatto agli occhi degli amici suppone di riuscire a condividere le proprie emozioni, perché gli sembrano evidenti, invece gli sta trasmettendo un semplice telegramma.

Oppure si può venire tratti in inganno e vedere le cose come il fotografo ha voluto presentarcele o come il soggetto ha voluto farci credere che fossero.

Dallo scatolone che Franco ha appoggiato spunta una foto. Martina la prende per riporla in bell’ordine insieme alle altre.

Si tratta di un primo piano di un bicchiere: sopra un tavolino di formica di un bar, colorato in foggia di marmo di granito rosso, uno snifter quale unico soggetto. Dentro il bicchiere una dose smisurata di calvados. Quella foto risaliva ad una recente vacanza trascorsa in un villaggio turistico spagnolo: l’aveva scattata Franco per documentare agli amici quanto fosse alle prime armi la cameriera del bar, che non conosceva le quantità corrette da versare e nel dubbio di poter scontentare i clienti eccedeva.

Proprio qualche giorno prima Franco l’aveva cercata per mostrarla a Roberto ed eccola lì, orfana del suo album.

Per Martina quella foto significava tutt’altro, le riportava alla mente una magnifica serata di musica e di canzoni cantate in compagnia.

Era partita per essere una gara tra gli ospiti della struttura, una sorta di karaoke; nel pomeriggio i villeggianti avevano indicato un titolo a loro scelta, un pezzo da cantare davanti a tutti gli altri.

Gli stessi partecipanti erano giudici di chi si esibiva, avrebbero dovuto esprimere il loro apprezzamento con gli applausi; gli organizzatori avrebbero valutato a orecchio e decretato il vincitore.

Anche la sera precedente c’era stata una esibizione che metteva gli ospiti in competizione fra loro, si trattava di una gara di ballo; Martina e Franco avevano partecipato ed era stato un clamoroso fiasco.

Martina sperava che la musica li avrebbe guidati a sentimento e fatti volteggiare in modo automatico; sperava che il ritmo della canzone e il loro affiatamento avrebbe creato seduta stante una sintonia tra passi e movimenti e che avrebbero potuto magari non vincere ma comunque fare una figura decorosa.

Invidiava quella coppia che danzava sulla stessa pista e interpretava ‘Demasiado corazon’ alla perfezione: un uomo di circa 45 anni, completamente glabro, sembrava la personificazione della stabilità, quasi una statua, ma con le sue braccia precise induceva la compagna trentenne, una bionda col nasino all’insù e un tatuaggio tribale sul braccio destro, a srotolarsi e riavvolgersi come uno yo-yo. Ogni volta che lei ritornava tra le sue braccia, lui, rispettando perfettamente lo scandire del tempo, riusciva a farle fare una volata o a farla rotolare a terra e poi rialzarla tempestivamente per farla allontanare di nuovo.

Franco invece sembrava non essere investito dello stesso vigore, pareva che non sapesse da che parte affrontare Martina, e ad ogni strofa doveva spremersi le meningi per farsi venire in mente una figura da simulare; ma la musica procedeva più rapidamente della sua fantasia coreografica e si erano ritrovati a rimanere pressoché fermi per la maggior parte della durata della canzone, e per il resto avevano abbozzato qualche movimento scomposto e per nulla sincronizzato.

Martina avrebbe voluto volteggiare come quell’altra concorrente, ma da sola non lo poteva fare. Aveva la sensazione di stare partecipando ad una corsa di biciclette dove il suo mezzo aveva le ruote sgonfie, tanto Franco intraprendeva azioni contrastanti con quelle che lei si aspettava.

Nella coppia che poi aveva vinto, anche gli sguardi tra i due facevano parte della coreografia, si potrebbe quasi dire che ballavano anche con gli occhi: lui occhi viscerali che fendevano lei trafitta e inerme quando l’abbracciava; lei civettuola e provocatoria quando si allontanava.

Franco invece era rimasto per tutta la durata della gara di ballo con uno sguardo da bambino sperduto, Martina aveva cercato di guardarlo con aria di motivazione per convincerlo nella prima esibizione, poi si era sforzata di mantenere un’espressione impassibile che almeno non lasciasse trapelare la sua vergogna.

Le sarebbe piaciuto riscattare quella sera con una esibizione migliore, ed ecco che già le si presentava l’occasione. Aveva scelto il titolo, ‘I will survive’ di Gloria Gaynor. Quando capitava la possibilità di cantare davanti ad altri, cosa che le piaceva moltissimo, era il suo cavallo di battaglia. Conosceva bene il testo e lo sentiva anche un po’ suo, espressione concisa del suo carattere. Aveva comunicato quel titolo agli organizzatori nel pomeriggio e poi se ne era andata con Franco a visitare una città che si trovava a qualche decina di chilometri dall’albergo. Gli organizzatori non avevano quindi potuto comunicarle che non possedevano la base di quella canzone perché normalmente gli ospiti preferivano i brani in italiano e solo di quelli avevano le basi.

Per tutto il tragitto si era esercitata a cercare l’intonazione giusta e a ricordare le strofe nella sequenza corretta. Poi una volta fatto ritorno al villaggio la serata era iniziata e non aveva più tempo di pensare e preparare un altro brano.

Sconsolata si era messa a guardare da un angolo e ad ascoltare gli altri partecipanti. Per prima si era esibita una ragazza coi capelli rossastri raccolti in due trecce, che aveva cantato ‘Il tempo di morire’ di Lucio Battisti; un’esibizione che ricordava le recite di Natale della scuola materna. Poi era stata la volta di un paio di amici che avevano intonato un brano di Vasco: più che le note si sforzavano di riprodurre i versi del cantante modenese. Qualche altro ospite si era alternato sul palco allestito per l’occasione; non erano stati poi tutti pessimi anzi… una emula di Loredana Bertè aveva cantato ‘Il mare d’inverno’ con una voce così graffiante che aveva convinto molti ascoltatori ad applaudire per lei; se non fosse che chi si trova in vacanza è l’ultimo pensiero che vorrebbe affrontare quello del mare in inverno.

Ad un certo punto si era presentato un altro concorrente; inizia ad intonare ‘Che coss’è l’amor’ di Vinicio Capossela. Canta da solo la prima strofa; una canzone meno nota al pubblico rispetto a quelle che erano andate in scena prima, ma molto ritmata. L’interprete di turno, un uomo sulla cinquantina non alto di statura e un po’ cicciottello, era molto spigliato davanti al pubblico; si calava nella parte e sembrava di vederlo mentre cantava, proprio nei luoghi descritti nella canzone, a cercare qualcosa; mentre cantava si piegava per intonare meglio e pareva che fosse lui a camminare tutto crocchio.

Poi all’improvviso un guasto: un black out generale che costringe l’impianto a sospendere la musica. Si accendono le luci di emergenza e con il supporto delle stelle e della luna piena la serata potrebbe ancora proseguire, ma senza le basi musicali.

È a questo punto che Martina coglie l’occasione al volo: un segno del destino sembra collegare la mancanza della sua base per il brano di Gloria Gaynor e l’improvvisa mancanza della base di questo ragazzotto, che tutti al villaggio avevano ribattezzato Pomo.

Dapprima intona una strofa a volume bassissimo, poi una seconda a volume normale, duettando di fatto con il concorrente di turno; non capisce come, il testo sembra sorgerle spontaneo da qualche recondita area di memoria nel suo cervello. Quando Pomo si accorge di stare ospitando una seconda voce, le si avvicina rincuorato dopo l’empasse della perdita della base.

Si crea una magia tra i due: in qualche modo sono riusciti a non interrompere il brano. Le loro voci iniziano a modularsi sulla stessa lunghezza d’onda; iniziano a spartirsi le strofe con cenni di intesa, senza sovrapporsi e creando anche una buona alternanza, creando quasi una sorta di dialogo con il testo della canzone, una serie di domande e risposte.

La mancanza della base si rivela a questo punto provvidenziale perché consente loro di ripetere qualche strofa a piacimento, per raggiungere l’apogeo con un ensemble di voci sul finale.

Al termine della canzone uno scroscio di applausi: l’esibizione aveva veramente coinvolto tutti i presenti, anche quelli che non conoscevano la canzone nei giorni successivi continuavano a ripetere il motivetto.

Il primo premio era stata poi assegnato ad un partecipante bambino che aveva astutamente presentato ‘Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte’ ma i vincitori morali erano sicuramente stati Martina e Pomo.

Franco era tornato con un altro carico e aveva decretato che era senz’altro giunta l’ora di pranzo.

 

 

 

Addio Freddy

Il 24 novembre 1991, esattamente oggi di 25 anni fa, scompariva Freddy Mercurie.

Adoro i Queen, di cui lui era cantante, penso di conoscerne tutte le canzoni, anche perché a un certo punto hanno smesso di scriverne quindi mi hanno lasciato tutto il tempo per studiarle.

I Queen, che io sappia, sono l’unico gruppo che si autoreferenzia da una canzone all’altra, un po’ come fa nei suoi film Quentin Tarantino, uno dei miei registi preferiti: citano le fat bottom girls, a cui hanno dedicato una canzone, anche in I Want to ride my bycicle.
Tra le loro canzoni non saprei quale indicare come preferita: forse Bohemian Rapsody che ha i toni dell’opera lirica, inizia con la descrizione di un atto criminale in due semplici righe

“Mama, just killed a man

Put the gun against his Heidi 

Pulled the trigger now he’s dead”

L’omicidio, azione scellerata ed ingiustificabile, è in realtà semplicissimo da commettere: la durezza del risultato non ha nulla a che fare con la facilità con cui si svolge l’azione.

Nella canzone l’uomo, condannato a morte, si rivolge alla madre, colei che incondizionatamente lo ama, e la saluta, dicendole che se domani non lo vedrà tornare “vada avanti, come se nulla importasse”, spostando magistralmente tutto il dramma dalla vittima al carnefice.
O forse Somebody to love, che contiene la più lapalissiana delle verità “each morning I get up I die a little”, enunciato vero a prescindere, si invecchia un giorno dopo l’altro.
O forse We are the champions, che dopo una gara ci sta sempre bene (‘no time for loosers’!).
O forse I want it all che riassume benissimo i miei desideri (‘I want it all and I want it non ‘).

O forse Living on my own (da solista) con l’incipit ‘sometimes I feel I wanna break down and cry’ che richiama frequenti miei stati d’animo.

Ma probabilmente quella che mi si addice di più, che descrive perfettamente il mio modo di essere penso sia Don’t stop me now, perchè quando mi faccio prendere la mano viaggio inarrestabile come un treno in corsa, dritta verso la meta ‘I’m a satellite on my way to Mars’. 

Tanti auguri a… Eros Ramazzotti

Oggi 28 ottobre compie gli anni Eros Ramazzotti: sebbene non sia uno dei cantanti che annovero tra i miei preferiti, devo dargli atto che alcuni dei suoi pezzi per qualche motivo fanno da tassello nel mosaico della colonna sonora della mia vita; e poi oggi è il suo compleanno: facciamogli ‘sto auguri!

Lo ricordo dagli esordi, da quella sua presentazione a Sanremo giovani dove, con la chitarrina in mano cantava le sue speranze in “Terra promessa”.

Noi dodicenni dell’epoca attendevamo le esibizioni fuori concorso delle chiome bizzarre dei Duran Duran o i ciuffi degli Spandau Ballet, gruppi anglosassoni dalla carica esplosiva (i primi, i Wild Boys; un po’ meno i secondi, più melodici); e lui, Eros, col suo capello rasato, la faccia del bravo ragazzo, le note tutte italiane ha convinto il pubblico ed ha vinto la sezione delle promesse emergenti.

Per i due anni successivi lo abbiamo ritrovato nella sezione big con Storia Importante e Adesso Tu: canzoni molto più pessimiste della prima (come ammette lui stesso …è più facile sognare che guardare in faccia la realtà…).

Da qui inizia la sua carriera; tra i pezzi salienti ricordo Musica E’, base dei lenti alle festine di compleanno del liceo.

Poi il suo album ‘In ogni senso’ in cui tutti i brani contenevano da qualche parte questa stessa locuzione; è di quel periodo la sua esportazione all’estero.
Mi trovavo in vacanza con la famiglia in Francia e la struttura che ci ospitava organizzava degli spettacoli ogni sera; una sera era il turno del karaoke e non so con quale faccia tosta sono salita sul palco, proclamando in un francese che definire maccheronico è un complimento:

“Noi” (avevo trascinato sul palco anche mia sorella) “non sappiamo che canzone cantare…. ma se ce lo suggerite voi, noi cantiamo”.

E tutti, avendo capito che eravamo italiane, acclamavano E-ROS E-ROS.

Loro si riferivano all’ultimo album, di cui io conoscevo poco i testi, e così mi sono messa a cantare Terra Promessa davanti a un centinaio di persone che mi guardavano come una marziana; dopo un tepido appaluso ho abbandonato il palco.

Diversi anni dopo mi sono ritrovata ancora a karaokizzare Eros, con ‘Fuoco nel fuoco’.
Mi trovavo in trasferta lavorativa presso un cliente, un produttore di acque minerali; famiglia atipica la proprietà, con il padre super salutista che praticava lo yoga ogni mattina, e 5 figli maschi di cui uno solo lo aiutava in azienda, gli altri si dedicavano ad altre attività.

Tra questi ve ne era uno che organizzava esibizioni canore amatoriali nei ritrovi locali, e mi aveva condotta nel suo studiolo di registrazione.

Un po’ di panico quando mi ero resa conto di trovarmi in una stanza insonorizzata con una persona di cui non mi erano chiare le intenzioni, ma i miei acuti su ‘Che cosa cerchi tu da meeeee’ devono essere stati abbastanza fastidiosi da persuaderlo a liberarmi prima di mettere in atto piani B.

Eros ha cantato assieme a voci straniere che io adoro; la sua voce lineare e un po’ piatta, e la sua pronuncia romanissima, che è tutto un libbro, una staggione e l’Ammerica, fanno da contraltare alle potenze esplosive e alle tonalità graffianti di Tina Turner ed Anastacia, in riuscitissimi duetti.

Riuscitissime le immagini dello sbando nelle curve del cuore, e dei confinanti di cuore divisi dallo steccato dell’orgoglio: l’orgoglio come palizzata, magari protetta dal filo spinato, con enormi falle tra un’asse e l’altra.

(Anche con Ricky Martin che vabbè, ha una voce piuttosto parallela a quella di Eros ma anche l’occhio vuole la sua parte).

Infine la strofa ‘un momento così, chissà quando poi tornerà’ è stato il mio leit motiv in momenti in cui, tutto sommato, per quanto rilevassi dei fattori che mi infastidivano, mi rendevo conto che il bilancio era decisamente positivo, e che valeva la pena di godersi l’attimo.

Fai da te

Sebbene io collezioni figure da cioccolatino, amo le figure retoriche: dietro nomi altisonanti, spesso di derivazione greca, si nascondono delle magie, dei veri e propri giochi verbali con cui io mi diverto molto.

La paronomasia, detta anche bisticcio di parole, è l’accostamento di parole simili nel suono ma con significato diverso.

Esempi classici riportati da tutti i siti, Wikipedia, Treccani e via dicendo sono:

– chi dice donna dice danno;

– il troppo stroppia (ma non era storpia?);

traduttore traditore (deve essere l’avvento del T9, io non lo avevo mai sentito).

Mi son chiesta: e nella musica? le canzoni ne pullulano certamente; mi son messa a riflettere e ascoltare tutto ciò che passava alla radio. 

Ho avuto meno fortuna di quel che credevo:

– accoccolati ad ascoltare il mare: in posizione di raccoglimento si ascolta meglio; 

– le seeeereeee neeereee: ma potevano essere anche le peeeereeee;

– abbi dubbi: in effetti non sono sicura di aver visto giusto;

Poi mi è venuto in mente Daniele Silvestri, le cui canzoni sono ricche di paronomasie, ne ha fatto un modus cantandi:

– quali ali di colibrì libri nell’aria;

– conto quanto Kunta Kinte e in quanto a Kunta Kinte canto;

Mi pareva quasi di rubare le caramelle a un bambino, e anche mi ha fatto ripensare a Matteo Marzotto:

– conta chi canta e se anche un conte vuol cantare / il testo è un pretesto.

E lì mi sono arenata o forse inabissata.

Ho pensato: faccio il contrario! Penso io a una paronomia, vedrai che da una o dall’altra parte trova il suo uso.

Chi fà da sè fa per tre e questo è quanto la mia fantasia distorta ha prodotto:

– Infilando il maglione ho provato un magone;

– Giunta al tuo cospetto nutro il sospetto;

– Che davanti allo specchio sia tutta spocchia;

– Durante un ascolto sciolto;

– Provare un banale desiderio di banane;

– Lavo l’uva;

– Star soli al sole;

– Far l’amore tra le more;

– Mangiare aglio per sbaglio;

Ma in quale ordine?

– È l’essenza della sequenza!

 

Ma che musica maestro!

In fila alla cassa del supermercato dietro di me c’è una donna anziana. In sottofondo una canzone del momento. 

Mentre attendiamo il nostro turno mi confida che ha dichiarato guerra alla musica: “vorrei che la vietassero nei negozi”.
Cioè non che la abbassassero o cambiassero genere: no, proprio che la spegnessero.

Abbiamo trovato quella che fermerà la musica!
Io sospendo il mio canto sommesso e l’impercettibile danza, perché puoi fare il cieco, ma prova a fare il sordo quando ti insegue una musica!

Potrei spiegarle che musica è la danza regolare di tutti i tuoi respiri su di me; o esortarla a ballare a piedi nudi con la musica alla radio.
Potrei dirle che salvarla sull’orlo del precipizio è quello che la musica può fare.
Esortarla a sopravvivere rocking rolling con la musica rocking rolling al silenzio che c’è.

Vorrei dirle che quando la musica è finita gli amici se ne vanno.

Vorrei convincerla che è la musica, la musica ribelle, che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle.

Ma non posso pensare di farle piacere una cosa (la musica) sperando che proprio la musica stessa sia il mezzo, lo strumento di persuasione.

E se lei fosse abbastanza scaltra, e le piacesse la musica, magari quella straniera, mi potrebbe sempre rispondere ‘Enjoy the silence’, e mi chiuderebbe la bocca.