In tempi di social network conoscere una persona solo per nome vuol dire non conoscerla. E io infatti non la conosco. O si?
Ai tempi in cui insegnavo lei frequentava i corsi di nuoto presso la struttura in cui lavoravo. La vedevo così superba, così altera e non provavo alcuna simpatia, onestamente.
Anni più tardi e qualche km più in là ci siamo ritrovate, entrambe utenti, lei per l’acquagym e io per i master.
Quando io arrivavo lei usciva, era un incrocio di doccia, più che una conoscenza.
Bella è sempre stata bella: le gambe lunghe e snelle, il busto compatto, lunghi capelli biondi e occhi castani; e poi quel difetto della pelle che metteva in risalto i suoi punti di forza, come una modella di Desigual.
Correva l’anno 2008, ottobre. La diagnosi per mia mamma era già entrata a regime, e sembrava quasi troppo pessimistica per lo stato reale delle cose. Quella di mio papà invece era fresca di referto. All’indomani avevamo preso appuntamento con un luminare in materia, che avrebbe dovuto salvarlo e invece ci ha trattate, a noi accompagnatrici, come tre scolarette inadempienti, per non aver conservato i precedenti referti in ordine cronologico. Alla modica cifra di 200€.
Ma questo sarebbe accaduto il sabato mattina. Quel venerdì sera ho fatto una deviazione prima di andare ad allenamento per passare a trovare i miei. E trovarli arrabbiati.
Ogni tanto adesso mi ritrovo a fare da paciere tra Viola e Sofia per motivi futili; quella sera ho dovuto fare altrettanto con loro due che si stavano accapigliando per un’analisi del sangue da portare o non portare al professorone.
Mia mamma piangeva a singhiozzi, mio papà non piangeva ma il suo sconforto era ancor più palpabile.
La devi portare, può essere importante.
Il paziente sono io e decido io: questa è vecchia di anni e non serve a niente.
Muro contro muro, come se fosse quello il punto.
Ne sono uscita disfatta e raggiunto lo spogliatoio della piscina mi sono svestita del ruolo di mediatrice e sono scoppiata a piangere.
Poche le donne a quell’ora; un’amica mi chiede cosa succede, le rispondo che i miei hanno poco tempo ancora per stare insieme e lo passano a litigare. Sono affranta come poche altre volte mi è capitato di esserlo, perché alla morte ci si rassegna ma finché si è in vita bisogna vivere, rifletto.
Martina non dice niente, o forse sì ma non lo ricordo. Però mi guarda, con uno sguardo che è molto di più: è un abbraccio, è una consolazione, è un ‘ti ho ascoltata / ti ho capita’. La settimana successiva si informa di come va.
Da quella sera in cuor mio siamo diventate amiche, anche se io di lei so solo come si chiama. Ma ogni volta che ci incrociamo e ci salutiamo io mi sento bene.
Di incidenti ne accadono molti e finché alle vittime non dai un nome sono sempre ‘cose che succedono’.
Io in questo momento non riesco a non pensare a quella sera, alla forza che mi ha trasmesso e che vorrei poterle restituire.