Le abilità inesplose

Lo scorso anno in una calda sera di luglio, osservando Viola che pedalava sulla sua biciclettina, ho maturato la consapevolezza che le rotelle ormai erano superflue.

Prendeva molta velocità sul rettilineo e poi, appena spostava leggermente il peso per curvare, una rotella toccava terra e la squilibrava, sembrava che la volesse sbalzare via dal piano stradale.

Anziché essere un ausilio si rivelavano un pericolo, così le abbiamo tolte.

Tempo poche ore ed era autonoma, pedalava da sola, senza le famigerate rotelle.

Ero piuttosto orgogliosa del fatto che avesse imparato così presto, nemmeno 4 anni.

Autonoma in tutto, tranne la partenza, perché insisteva a voler partire da ferma, coi due piedi sui pedali.

Pensavo si sarebbe trattato di una fase transitoria, tempo un paio di giorni e va, immaginavo; giusto un tassello mancante all’apprendimento, che si sarebbe completato di li a breve.

La fase transitoria si è rivelata invece uno stallo: a niente sono valse le mie spiegazioni, spingi con uno e poi tiri su anche l’altro. Niente da fare: io dovevo tenere la sella e lei sistemarsi in posizione.

Ho provato a raccontarle la storia dell’equilibrio statico e quello dinamico, tre punti d’appoggio per il primo contro i due del secondo, ma niente da fare, mamma tieni la sella e corri.

Fino a che tutti i suoi coetanei, un anno più tardi, hanno imparato in maniera completa.

Un po’ li vedevamo sui social, un po’ li incrociavamo per la strada.

Guarda, gli altri ce la fanno e tu no.

“Ma anche io sono capace sai?” mi ha detto domenica “Guardami che ti faccio vedere!”

E detto fatto è partita.

Anche negli adulti le abilità sono spesso sono intrinseche.

Una sorta di virus latente, un seme della conoscenza, il nous di Anassagora.

Rifiutiamo di fare molte cose, sostenendo di non esserne in grado, per garantirci il supporto materno del sellino, ma in realtà ci basterebbe provare a farle per renderci conto di essere benissimo capaci di.

Il prossimo step, auspico, sarà il galleggiamento.

Da che parte?

DA CHE PARTE?

Guidava una Dyane rossa la mamma di B. o forse era una 2CV, non sono mai stata brava a distinguerle.

Era una mamma emblematica, era LA mamma, una professionista del ruolo.

Portava un caschetto lungo di capelli biondi, dritti come spaghetti; le labbra, dipinte dello stesso rosso un po’ stinto della vettura che guidava, distoglievano l’attenzione da una faccia leggermente accartocciata.

Indossava gonne svasate rigorosamente sotto al ginocchio, camicette ampie e mocassini coi tacchi, in pieno stile anni 70, anche se ormai versavamo a ridosso dei 90.

Ma lei rispettava i limiti!

Accompagnava B. a tutti gli allenamenti, e poi se lo riprendeva, il suo ragazzone.

Sebbene fosse biondo e di statura alta, B. non era esattamente l’idolo delle ragazze, no. Lo distinguevamo per quella sua caratteristica del culo a televisore, che accompagnato da una bracciata piuttosto scomposta, generava frequenti collisioni in corsia.

Nelle domeniche in cui gareggiavamo B. veniva accompagnato sempre dalla madre, e anche dal padre, con la sua Volvo.

Non socializzavano con gli altri accompagnatori, facevano nucleo a sè e se ne stavano per conto proprio.

In verità anche se avessero avuto dei posti auto disponibili nessuno avrebbe mai voluto salire con loro.

Ricordo di una manifestazione che si svolgeva nell’arco di una giornata intera, con una lunga pausa tra le gare del mattino e quelle del pomeriggio.

Poteva essere un 25 aprile.

Trovandoci nei pressi di Mira (Venezia) chi ci accompagnava aveva pensato di portarci a visitare Villa Pisani, e ne conservo un bellissimo ricordo: di una giornata di primavera vissuta, credo di aver disputato anche dei buoni crono quel giorno, ma di sicuro è stata una bella gita, all’aria aperta, insieme agli amici di allora, preludio di una serata di festa.

A ripensarci adesso trovo incredibile che potevo alzarmi presto, rimanere fuori casa tutto il giorno, disputare due gare e partecipare ad una festa la sera: tutto nell’arco della stessa giornata.

Ma allora avevo 15 anni.

Gita che B. si è perso perché i suoi genitori preferirono rincasare per il pranzo e poi, forse, tornare a Mira.

Anche mio papà a volte mi accompagnava alle gare; in una delle prime uscite mi ha mandata in avanscoperta a chiedere dove bisognava dirigersi.

Anche lui non brillava nell’intessere relazioni con il mondo circostante, ma io mi arrangiavo lo stesso.

Ad Arzignano, ho riferito, e abbiamo anticipato il resto della comitiva per fermarci alla prima edicola e comperare il quotidiano.

Una volta ad Arzignano abbiamo trovato tutto chiuso, e nessun atleta in procinto di gareggiare; solo la barista che stava per alzare le serrande e riscaldare la macchina del caffè.

No, oggi qua niente gare, forse dovete andare ad Arbizzano?

Arzignano o Arbizzano cosa vuoi che cambi? E via come frecce cercando di recuperare minuti preziosi sui km di disavanzo.

Anche un’altra volta, ora che mi sovviene, è accaduta una cosa simile: eravamo in vacanza in Francia, io e la mia famiglia; dovevamo andare ad Ares e abbiamo seguito le indicazioni per Arles.

Una L e qualche centinaio di km di differenza, cosa volete che è, come ripeteva l’allenatore della squadra di pallanuoto femminile.

Degli habitué dei qui pro quo.

Ho rischiato di ripetere l’errore di mio papà con Sofia, una mattina che aveva un’esibizione di ginnastica: io davo per scontato che la palestra fosse la medesima dell’esibizione precedente, per fortuna ho avuto l’intuizione di verificare il volantino al momento della partenza da casa.

Ci ho messo del mio invece salendo sul treno sbagliato il giorno del primo esame universitario, santa mamma è venuta a riprendermi a Dueville per portarmi a Padova.

Il fil rouge di tutti questi episodi?

Che a volte ‘il posto giusto’ e la giusta direzione possono anche sbagliare strada.

A mille

…ce n’è, nel mio cuore di fiabe da narrar.

Solo che io non le so; vengono fuori in modo autonomo quando, allo scopo di addormentare Viola, ottengo l’effetto opposto e perdo i sensi io.

Inizio a raccontare una cosa a caso, può essere una fiaba di quelle note o un racconto di mia invenzione.

L’incipit è il classico c’era una volta, poi segue un pezzo di storia di senso compiuto.

Dopo un minuto di monologo in genere mi rilasso e il canovaccio si impiglia in qualche ramo, le mie parole procedono sconnesse e narrano il mio subconscio ad alta voce, cose che in genere mi sorprendo a dire senza averle pensate.

Ieri sera ad esempio mi sono svegliata mentre proponevo l’alternativa: guidare una Renault 4 rossa oppure la Renault 5 verde?

Viola non sa cosa sia una Renault, per lei le automobili sono tutte macchine: mamma cos’hai detto? Renó5?

Ero partita coi tre porcellini e mi sono risvegliata con in mano la leva del cambio a 4 rapporti collocata dove adesso in genere c’è il navigatore.

L’ultima prima volta

Per tutte le cose c’è una prima volta: i primi passi, le prime parole, il primo giorno di scuola.
Ma anche il primo bacio, il primo lavoro, la prima sbornia.
Qual è il primo film che abbiamo visto al cinema? La prima volta che abbiamo sciato? La prima volta che abbiamo incontrato quella persona?

La prima sera in discoteca? Il primo concerto? La prima notte fuori di casa? Il primo viaggio da soli? Il primo aereo che abbiamo preso?

Qualcuna ce la ricordiamo per noi stessi, qualcuna la viviamo in seconda persona, osservando i figli, perché la nostra è troppo remota.
Non posso ricordare quando ho mosso i miei primi passi, ma ricordo bene quando hanno iniziato a camminare Sofia e Viola.
Non ricordo le mie prime parole, e ricordo a stento le loro.
Ricordo bene quando ho iniziato a pedalare senza le rotelle alla bicicletta, e l’ho rivissuto con la stessa emozione quando a non dover più sorreggere la bici da dietro ero io, non mio nonno.
A guidare l’auto ho imparato da privatista, con mio papà abbarbicato alla maniglia lato passeggero con entrambe le mani, la sigaretta in bocca e i piedi che cercavano il pedale del freno dove non c’era.
Ho vissuto come una liberazione il giorno dell’esame di pratica: qualunque esaminatore sarebbe stato più rilassato e, nella peggiore delle ipotesi, mi avrebbe bocciata. Mio papà invece me lo riportavo a casa ed avrebbe ripetuto altre mille volte cosa avevo sbagliato.
La prima guida da sola l’ho fatta verso l’ufficio postale, pochi km che mi sono sembrati impegnativi come la Parigi – Dakar più che altro per l’ansia che mi aveva trasmesso chi mi aspettava a casa.
Avere un familiare come insegnante crea un rapporto squilibrato, ed è il motivo per cui non ho insegnato alle mie figlie a nuotare.
Viola, suo malgrado, si è ritrovata Sofia come maestra, perché a loro piace giocare ‘alla scuola’. Fatto sta che, Rottenmeier scansati, avere Sofia come maestra è peggio che avere mio papà sul sedile di fianco.
Eppure questo gioco dei ruoli se lo sentono proprio, a loro piace e lo fanno spesso.
Col risultato che Viola ha imparato, a 4 anni e mezzo, a distinguere le lettere.
A leggere? No, solo a distinguere le lettere.
Firma i suoi disegni col nome perché sa che quelle sono le lettere che lo compongono.
Copia le cose che trova scritte in giro, senza capirne esattamente il senso.
Qualche sera fa ha preso in mano una vaschetta di Philadelphia, la crema spalmabile.
Ha guardato con diffidenza i caratteri cubitali, non capiva la P e la H vicine.
Poi, una dopo l’altra, ha scandito le lettere
F-O-R-M-A-G-G-I-O    F-R-E-S-C-O
La sua prima lettura.

Radiografia di una principessa

Da quando ci sono le bimbe circola per casa un libro illustrato di fiabe classiche: Biancaneve, Il gatto con gli stivali, I tre porcellini etc.

Il libro è corredato da un cd con le fiabe registrate, ma non ne abbiamo mai approfittato: ho sempre letto le fiabe a voce; anzi la fiaba perché Cenerentola va per la maggiore.

Non so se si tratti di un’edizione infelice, ma ci sono alcuni punti chiave nella narrazione che più li leggo e più mi indispongono.

Evito di riportare la versione integrale del racconto, noto ai più; mi limito alle frasi più fastidiose:

  • La necessità di risposarsi:

“… il mercante cadde in disgrazia così si trovò costretto a sposare una ricchissima vedova che aveva già due figlie…”

Passa liscio come l’olio il concetto che il matrimonio può avvenire tranquillamente per interessi economici, senza nemmeno includere un briciolo di affetto.

  • L’inopportunità legata agli abiti:

“… la fata sorrise: di certo non ci puoi andare combinata in questo modo…”

Ma non si era propagandata la storia che l’abito non fa il monaco, che l’importante è essere belli dentro etc?

  • L’impellenza di trovare una donna:

“… in onore del compleanno del principe il re darà un grande ballo a cui sono invitate tutte le ragazze in età da marito; durante il ballo il principe sceglierà la sua sposa”

Perché è il padre a desiderare così ardentemente che il figlio si sposi? E perché ha tanta fretta?

  • Le scarpe di cristallo e la puntualità:

“… e queste sono per i tuoi piedini! Un paio di scintillanti scarpine di cristallo comparvero all’improvviso”

“… ma ricordati : l’incantesimo scadrà a mezzanotte in punto”

Cioè fata, la potenza è nulla senza controllo: se mi metti ai piedi un paio di scarpe di cristallo mica posso correre come Usain Bolt; e tu mi vuoi pure indietro per mezzanotte secca? Il tempo non mi basta nemmeno per salire la scalinata!

⁃ “Poi fu la volta dei topolini che diventarono magnifici cavalli bianchi”

E gli animalisti muti?

  • Il principe si intestardisce:

“È inutile che vi dica il mio nome, non ci rivedremo mai più dopo stasera”

“Oh sì che ci rivedremo!”

Lo sa il principe che esiste il reato di stalking? Può una donna sentirsi libera di vederti una sera e basta? Fattene una ragione, ragazzo!

  • Le doti atletiche del principe:

“Il principe cercò di inseguire la fanciulla ma non riuscì a raggiungerla”

Abbiamo a che fare con un centometrista proprio: nemmeno in grado di correre dietro a una ragazza che calza un paio di scarpe di cristallo!

  • Un ragazzo capriccioso, pure un po’ viziato:

“Cercate ovunque la giovane che la calzava, non avrò pace finché non l’avrò ritrovata”

Punto primo, te la vai a cercare; punto secondo di donne è pieno il mondo, perché a lui non compare la fata madrina a spiegarglielo? È sessista questo concetto che le donne abbiano bisogno dell’intervento di un essere superiore e il principe no.

  • La discriminazione basata sulla taglia:

“Ma i piedi delle due ragazze si rivelarono subito troppo grandi”

Questo è il preconcetto più indisponente di tutto il racconto: se una fanciulla calza il 41 non può essere amata? È inutile che ci stracciamo le vesti sul bullismo tra adolescenti, piaga della società moderna, se raccontiamo questo genere di storie con noncuranza ai nostri figli.

Me lo immagino il messo del re con Anastasia e Genoveffa, desideroso di portare a termine la missione, insistere che è un 38 ma calza largo, su dai provalo.

  • Aborro la falsa modestia:

“… uno dei messi, colpito dalla bellezza di Cenerentola che se ne stava in disparte, le disse: e voi perché non la provate?”

A me quelle che ‘oddio figurati io no ma dai’ e poi invece si scoprono meglio di quel che credevano, proprio non le tollero.

Sono venuta al provino di X-Factor perché mi ci hanno trascinato, e poi cantano come Adele.

Ma vogliamo iniziare a prendere coscienza dei nostri meriti e dei nostri limiti o dobbiamo sempre attendere che siano gli altri a scoprirci?

  • Le motivazioni, quelle valide:

“L’ordine era di riportare al castello la ragazza che avesse calzato perfettamente la scarpina”

“Adesso dovrete dirmi il vostro nome perché sto per chiedervi in moglie”

Si sposano sulla base di una scarpa che calza: non sarà un presupposto labile per un matrimonio duraturo?

A me questa favola suona altamente diseducativa!

L’ablativo insidioso

“Ho perso il pulmino” proclamavo ritornando a casa alle 8,20 con una faccia che più contrita non si può, disponendomi ad incassare la contrarietà di mio papà, che doveva accompagnarmi a scuola entro pochi minuti.

La scuola elementare che frequentavo (lo so, ora si dice primaria, ma io ho fatto le elementari!) si trovava ad un paio di km da casa, in centro a Vicenza, e non era raggiungibile a piedi per una bambina di quell’età, nè per distanza nè per tipologia del traffico.

Esisteva questo servizio aggiuntivo che faceva da taxi.

Il pulmino era un Westfalia, il furgoncino dei ‘figli dei fiori’; non passava davanti a casa ma infondo alla via e io, un giorno si e uno no, lo vedevo che era già passato, con sommo disappunto dei miei genitori.

Anche a me spiaceva perderlo, perché in pulmino ci si divertiva.

Sul pulmino avevo conosciuto altri bambini, scoperto rientranze inimmaginabili del viale principale, conosciuto il cubo di Rubik, cantato le canzoni di Sanremo.

Ogni tanto partiva uno sfottò corale verso una certa Elena – Balelena – faccia da culelena – che non ero io (a me hanno sempre preso in giro per la statura, mai per il peso); me lo ricordo ancora bene, e mi domando se quelli che adesso si scandalizzano tanto per il bullismo davanti alle scuole, a quel tempo vivevano sulla luna.

Ora non abito in città, la scuola primaria che frequenta Sofia si trova a qualche centinaio di metri da casa, è raggiungibile con un percorso poco trafficato.

La causa ambientalista ha sensibilizzato le famiglie un po’ in tutta Italia: anche da noi hanno introdotto il pedibus.

Mia nonna, che non conosceva il latino, usava comunemente e con aria canzonatoria la locuzione pedibus calcantibus per suggerire la passeggiata come mezzo di locomozione.

(Pur non conoscendo il latino diceva PEDIBUS e non PIEDIBUS: lo so che è stata sdoganata anche la seconda forma, ma non si può sentire!)

Le prime volte che ho sentito parlare del pedibus pertanto mi è venuto da sorridere: un nome altisonante e simpatico per indicare una buona abitudine, quella di andare a scuola a piedi e in gruppo.

Sofia si reca a scuola col pedibus da tre anni, e da tre anni Viola sbava alla finestra ammirando la sorella maggiore che si allontana, a volte anche in autonomia, sentendo nominare questo fantomatico pedibus che raccoglie i bambini dietro l’angolo, dove lei non arriva a vedere.

Ha raggiunto un’età in cui cammina senza troppe proteste, così ho pensato di proporle di andare all’asilo (ok scuola materna ok) sfruttando il pedibus.

Entusiasmo.

Esce di casa tutta fiera, attendiamo i bambini al capolinea e partiamo.

Rincorre un po’ sua sorella, arriviamo alla prima fermata in cui si aggiungono gli altri, e ripartiamo tutti in fila sul marciapiede.

Perplessa, vedendo che nulla di strano succede, solo camminiamo tutti uno dietro l’altro, ormai in dirittura d’arrivo mi chiede: “ma … mamma? … il pedibus… dove è?”

“Il pedibus siamo noi” le rispondo lapidaria.

Interdetta mi fissa: ma come?

Capisco dalla sua espressione che si immaginava un mezzo di trasporto concreto, ci è rimasta male.

Siamo abituati ad usare il suffisso -bus quasi unicamente per indicare mezzi collettivi, abbiamo perso il nesso con la sua accezione originale.

Sofia le spiega che pedibus si compone di pedi (piedi) e bus (che io traduco in ‘che ci vai’, una spiegazione dell’ablativo adatta ai bambini).

Ci è rimasta di sasso, come quelli che reclamano la presenza dello stato… e si dimenticano che lo stato… siamo noi!

Lezioni di economia

Se io fossi un’automobile sarei quella versione che ti propongono ‘a partire da’; ovvero quattro ruote, un motore, il volante.

L’essenziale: no alzacristalli, no airbag, no tettuccio.

Su questo modello si fonda il mio schema genitoriale: hai fame? Mangi. Hai sete? Toh l’acqua! Hai sonno? Dormi.

Non importa a che ora: la fame è fame, la sete è sete, il sonno è sonno.

Mi è capitato di ascoltare altri genitori dettare regole tipo ‘no ai biscotti dopo le ore 18’, o ‘prima devi mangiare la carne poi le patate’ o ‘niente latte quando sei raffreddato’.

Giurin giurello, non me le sono inventate.

Io sono rimasta perplessa perché, ammetto tutta la mia ignoranza, che scopro di giorno in giorno più vasta, credo sempre di essere in difetto: non le studio tanto, non conosco le posologie di televisione e tablet, nè tutte le teorie in voga: mi fido del detto che i bambini si regolano da soli.

Davanti a un capriccio cerco di non sclerare e se vuoi mettere i moon boot ad agosto provo a dirti con le buone che bollirai, poi fai come ti pare.

Ci sono invece genitori che hanno preso il master avanzato, ne sanno veramente una più del diavolo su come insegnare ai figli la strada giusta.

Sono un po’ come le auto full-optional, talmente full che non sapevi nemmeno che oltre al navigatore satellitare e al parcheggio assistito potresti avere anche l’accendisigari wi-fi o regolare l’aria condizionata col bluetooth.

In materia di educazione economica domenica in gelateria ho trovato un luminare, un padre esemplare che insegnava ai propri figli come si fa col denaro, con esempi pratici e concreti che trasmettono il valore dei soldi.

Questo genio della didattica monetaria ha elargito una banconota da 5€ a ciascuno dei suoi figli. Quanti fossero non l’ho capito perché davanti alla vetrina c’erano spiaccicati cinque o sei nasini che sceglievano i gusti; forse non erano nemmeno tutti suoi, ma lui era generoso ed insegnava a tutti.

Io per restare nel mio modello essenziale avevo lasciato le piccole in disparte col papà, mentre facevo la fila; il gelato che scelgono ha pochissime variabili, biscotto, vaniglia, cioccolato.

Dopo il primo bambino che voleva la coppetta, no il cono, una pallina di pinguino e una di foresta nera; ah ma è cioccolato? No allora fragola. Paga, 2,70€, vieni in cassa per il resto.

Mi illudo che si levi dai maroni, no! Il secondo figlio prende il frappé, piccolo – medio – grande? Gusto?

Il frappé resta da pagare, non si capisce a chi competa, probabilmente l’adulto avrà detto ‘vi do i soldi per il gelato’ quindi non vale per il frappé.

Il terzo bambino prende fiordilatte e menta, ah aspè no… vaniglia e cocco.

Anche questo allunga i suoi 5€ e passa alla cassa per il resto.

La gelataia continua ad ogni apertura cassa a chiedere ‘il frappé lo tengo da qua?’.

La risposta è sempre no.

Mentre l’altra fila procedeva velocissima, senza dover scomodare la legge di Murphy, io ho perso il conto dei piccoli mangiatori di gelato.

Ad un certo punto si sono sfilati tutti da sotto la vetrina, riesco a vedere i gusti anch’io.

Ecco dai che tocca a me…. Nooo, c’è ancora lui! Ebbene sì anche lui con il suo cinquino a scegliere tra fragola e banana, aspè voglio anche un biscotto, aspè la panna montata.

Un altro po’ e io al posto del gelato prendevo una fetta di pandoro con la cioccolata calda!!!

Etimologia

Orrido deriva dal latino horridus, che proviene da horrere, rizzarsi, riferito ai peli del corpo.

L’ho imparato oggi, dal sito unaparolaalgiorno, che offre un interessante servizio: ogni giorno presenta una parola e ne eviscera il significato, con esempi e citazioni.

Quella di oggi è stata una parola premonitrice, oltre che onomatopeica.

Stasera ho accompagnato al parco giochi le mie piccole; come prima giostra hanno scelto lo scivolo.

Nei loro piani io avrei dovuto fare la sbarra umana, che bloccava la discesa ed alzava il braccio al loro passaggio.

Io invece puntavo la panchina.

Il primo giro si fa alla maniera classica, salendo dalla scala.

Una volta in cima Viola si appresta alla discesa e mi chiama:

“C’è una lucertola”

Pochi giorni fa mi aveva avvisata della presenza delle vespe parlando di ‘zanzara che fa il miele’.

Sofia poco dietro con la tenera supponenza da sorella maggiore la corregge:

“È un topo morto”.

Stuzzicata dal dubbio, lucertola o topo?, abbandono per un istante la velleità panchinara e mi avvicino allo scivolo.

Sulla parte finale, quella in cui la pendenza si rimette orizzontale e addolcisce l’arrivo a terra, giaceva stecchito un piccolo sorcio.

Orrido: mi si sono rizzati tutti i peli e l’ugola ha iniziato a vibrare fortissimo per esprimere tanto ribrezzo.

L’arte della negoziazione

I secondogeniti trovano le porte aperte dai fratelli maggiori: un genitore col primo figlio fa pratica, scopre un sacco di cose, capisce un po’ come funziona.

Poi col secondo cerca di recuperare qualche nozione dalla memoria, se ne ha fatto tesoro.

C’è anche da dire che mica sono tutti uguali i figli: Sofia ha sempre dormito la notte intera, dopo il primo mese; Viola ha trascorso i primi tre anni di vita con quattro risvegli per notte, poi PAF, come per incanto dorme da sera a mattina.

Bei tempi però quelli in cui si svegliava, perché adesso è tutta una battaglia, specie per lavarsi e vestirsi, che guardacaso sono quei momenti del mattino che precedono l’uscita di casa, in cui rosichi i tempi all’osso.

Le scuole di pensiero e i pedagogisti si schierano su due fronti opposti: non ha senso opporre un muro al muro, da un lato, e non si può dargliele vinte, dall’altro.

Devi farle capire chi comanda, e se lo chiedi a lei, anche in piena crisi di urla, pianti e capricci, senza interrompere i singhiozzi, alza la manina e vota se stessa.

Bisogna progressivamente affinare l’arte del negoziato: piccole concessioni, solidi NO, ricerca dei punti di incontro, tutto un inanellarsi di do ut des per convergere al risultato finale.

Devo aver ignorato la sua femminilità: io che le gonne le indosso solo quando ne ho dimenticato la scarsa praticità dalla volta precedente, che le scarpe col tacco per me sono gli anfibi quando hanno un buon carro armato sotto il tallone, che le camicette le conservo tutte nell’armadio senza mai usarle; lei che nei negozi sorprende le commesse quando sceglie il copriletto dell’uomo ragno o l’ombrello di Spiderman.

Un giorno, nel tentativo di conciliare i tempi ristretti con la sua vestizione – Viola scegli quello che vuoi o ti porto a scuola in pigiama: dobbiamo andare! – le è capitato tra le mani un paio di collant: avevo sempre ritenuto fossero poco pratici, per lei invece è stato amore a prima vista.

Vuole fare lei, vuole vestirsi da sola; cerco di coordinarla a parole: “allunga quel piedino per arrivare infondo dove è la cucitura” le suggerisco.

“No faccio da sola!” protesta a gran voce.

E sfila tutto e riparte da zero.

La osservo mentre si spoglia: guardo quelle pieghe che fa la carne sulle cosce tornite, guardo gli arti in miniatura, eppure così perfettamente fedeli al modello in grande scala, la bocca, le orecchie, il nasino; gli occhioni azzurri e quei boccoli da bambola che le ricadono sotto le spalle.

“Mamma facciamo un abbraccio e poi mi vesto?”

Come fai a rifiutare una simile proposta? Mi avvolge il collo, con le sue braccia arriva appena a cingermi, è così piccola! eppure dentro il suo abbraccio mi sento completamente racchiusa, e non solo fisicamente.

Gioca con la mia collana, sposta il ciondolo dietro la nuca, mi gira la testa per farmi vedere dove è finito, poi lo riporta avanti, “ecco guarda adesso è qua”.

Mi mette un ditino sotto il mento, dove da qualche anno un brutto foruncolo si ostina a riformarsi: “sci è sciolto il brufolo, mamma?”

Quasi, rispondo.

“Ti devo dire una cosa, mamma”

Annuisco e ascolto: mi sussurra all’orecchio parole incomprensibili, non solo perché biascicate a bassa voce, ma prive di senso completamente.

Tra un tira e un molla arriva ad infilarsi i vestiti, poi le scarpe.

Sceglie un oggetto transizionale:

“Voglio portare a scuola questo, è della Sciofia. Sssshhhh, non diciamole niente, bocche cucite!!!”

Orgogliosa della complicità creata, mi ripassa il ditino sulle labbra, come se avessero una zip, poi fa altrettanto sulle sue.

Se parlo mi ripete di fare silenzio; passo il dito sulle mie labbra, per sigillare la zip.

“No mamma, così si apre… è dall’altra parte” mi corregge, e ripassa il suo ditino nel verso opposto.

Apprendimento per prove ed errori

Sbagliando si impara: ne facciamo tutti di scemenze, cose fatte per provare a vedere se come dice il droghiere, senza ponderare bene le conseguenze.
La volta successiva ci penseremo su due volte, ma la prima andiamo di incoscienza.

Soprattutto in giovane età, perchè la fantasia dei bambini in questo campo è perversa ed inimmaginabile, ma anche quella degli adulti non si tira indietro.

Ricordo ad esempio un’amica di mia mamma che per sentire se l’accendino era scarico se lo è acceso vicino all’orecchio.

Io invece per capire quanto fosse potente il getto dell’idropulitrice me lo sono provato a sparare su un piede.
Cazzate, fortunatamente senza conseguenze, ma che la prossima volta non le rifai.

Qualche sera fa arrivo a prendere le bambine dai nonni e vengo accolta come se fosse scoppiata una guerra nucleare: vieni vieni, finalmente sei arrivata: è successo un guaio!

Entro e trovo Sofia seduta su una sedia con una chioma che Napo Orso capo ti spiego come ci si pettina: per gioco si era agghindata con un cappello colorato, fatto tutto di bunchems.

I bunchems, per chi non li conosce, sono piccole palline colorate che si usano per comporre le più svariate forme: gattini, automobili, chitarre.

La coesione tra gli elementi è garantita da piccoli uncini flessibili, posti tutt’attorno al nucleo centrale.

Somigliano a quelli che in natura si trovano nei rovi, che io chiamo barbaiocchi, nome latino non pervenuto.

Negli spot televisivi li lanciano per aria e cadendo si assemblano, formando l’oggetto desiderato.

Nella realtà va seguito uno schema preciso di composizione, per ottenere risultati poco precisi ed insoddisfacenti.

Non so se per imitare lo spot o per idea autonoma, di fatto se ne è rovesciata un cesto pieno in testa.

Era accaduto due ore prima, e i nonni stavano pazientemente procedendo a sfilare i capelli ad uno ad uno.

Tempo di lavoro totale di 4 ore: 4 ore di estenuanti districamenti, tra lacrime e urla di Sofia.

Mi hanno liquidata con la scusa che io pazienza non ne avrei avuta (infatti già cercavo il cassetto dove sono riposte le forbici) e mi hanno mandata a casa a braccia vuote.

Me l’hanno riportata più tardi che sembrava una mezza via tra Bridget Jones nei momenti di massimo sconforto e Bob Marley che si è fatto lo shampoo col crystal soleil, o ha confuso l’ammorbidente con la candeggina.

Altra ora di lavoro con il tangle teezer e olio di semi di lino, Sofia è tornata normale, le bionde trecce gli occhi azzurri e poi…

ha rinunciato a numerose ciocche che si depositavano sul pavimento mentre spazzolavo, ma il risultato finale è stato dignitoso.

Un tale di nome Hermann Ebbinghaus ha teorizzato la curva dell’oblio: essa illustra come le informazioni apprese decadano rapidamente con il trascorrere delle ore e dei giorni, per mantenerne comunque una parte sedimentata nella nostra memoria.

Sofia si ricorderà del suo sventurato gioco, e voi comunque non fatelo, nemmeno se siete stanchi della solita acconciatura.