La cattedra di matematica del triennio del liceo scientifico era rimasta vacante per il pensionamento dell’insegnante di ruolo, così l’istituto superiore che frequentavo aveva aperto il carosello delle supplenze annuali.
Dopo un anno trascorso con una prof. delle cui capacità logico razionali nutro a distanza di anni stima pari a zero, memore di quel dibattito nel quale lei sosteneva che il quadrato non è un (caso particolare di) rombo, e per questo il mio compito andava valutato meno dell’ottimo, era arrivata una prof. altrettanto giovane e inesperta, ma molto più zelante.
Portava il nome di una nota marca di prosciutti, e a guardarle il viso paffuto si sarebbe creduto che in effetti discendesse proprio da quella dinastia.
Mi piaceva immaginarla mentre sbocconcellava il suo panino al cotto e lo masticava lentamente, con la stessa pacatezza e meticolosità con cui ci spiegava la trigonometria.
Era arrivata ad assumere la supplenza con un lieve ritardo rispetto all’inizio dell’anno scolastico, non certo per causa sua, ma quando si era resa conto di non essere al passo con lo svolgimento del programma ministeriale aveva organizzato un ciclo di incontri supplementari, al pomeriggio.
Nel corso dell’orario mattutino avrebbe svolto il regolare programma, mentre nelle ore extra avrebbe fatto esercitazioni, in modo da non penalizzare quelli che, per qualunque ragione, non avessero potuto frequentare nell’orario straordinario, lasciando a ciascuno piena libertà di scelta sull’opportunità di frequentare quelle lezioni supplementari, che alla fin fine venivano presenziate da tutti.
Si trattava comunque di poche ore, una a settimana, per un breve periodo.
Non avevo una reale necessità di partecipare a queste lezioni di recupero ma era un modo per uscire di casa e trascorrere del tempo con i compagni di classe; inoltre mi piaceva la matematica e svolgevo sempre con entusiasmo ogni compito aggiuntivo, lo trovavo divertente e stimolante come lo sono molti passatempi rompicapo o di enigmistica.
L’orario di ritrovo era previsto per le 14.00. Le lezioni mattutine terminavano alle 12.20 quindi non avevo moltissimo tempo per rientrare a casa, pranzare e rientrare a scuola.
E poi come sempre ero in ritardo.
Pertanto pedalavo alacremente per le vie del centro storico, in una zona a transito limitato e per giunta contro mano, ma a quell’ora c’ero solo io in giro per le strade e mi sentivo in diritto di farlo.
Sono quasi giunta a destinazione quando sento il rombo di un motorino che percorre lo stesso corso Fogazzaro, anch’esso contromano.
Ritengo che chi lo guida sia in piena contravvenzione: passi per me che sono in bicicletta, non mi ritengo tenuta a rispettare rigorosamente i sensi di marcia, mi assimilo un po’ ai pedoni quando mi torna comodo.
Ma lui? tanto più che col motorino ci metti un istante a fare il giro corretto….
Il rumore è sempre più vicino… Sembra che il tizio si stia avvicinando proprio a me.
Che sia un amico che non riconosco che mi vuole cogliere di sorpresa? Mentre mi interrogo su questi aspetti mi volto a guardare e vedo che ha il volto semicoperto da un fazzoletto.
E’ ovvio che non lo riconosco, non lo si può vedere in viso! Ma quanto vicino mi viene? perchè ok se vuoi salutarmi e fare la strada con me ma così rischi di farmi cadere.
Siamo spalla contro spalla, lui afferra lo zainetto che ho alloggiato nel cestino davanti al manubrio, lo solleva, accelera e in un istante è già più avanti di me che non lo vedo più, solo da dietro.
Resto spiazzata, basita, attonita; ma con una prontezza di riflessi immediata inizio a strillare più forte che posso.
Non ricordo di aver articolato parole tipo ‘aiuto’ o ‘al ladro’, solo un urlo di avvertimento di pericolo misto a spavento, e il sollievo di non essere caduta per il contraccolpo.
Non è stato inutile: una parrucchiera che aveva il negozio lungo la via accorre immediatamente al mio richiamo e lo vede dritto negli occhi.
Io esaurisco l’inerzia del mio velocipede e il fiato nei polmoni, accosto sul marciapiede un po’ abbacchiata, più per non aver capito cosa stava succedendo che per il reale valore dell’ammanco.
Lei, capello rasato sulla coppa e platinatissima, mi viene incontro, chiedendomi cosa è accaduto; in poche parole le illustro i fatti.
L’empatia è immediata, perchè proprio poche settimane addietro la stessa Sabrina aveva subito un borseggio; passeggiava a braccetto del suo fidanzato nella vicina città di Bassano del Grappa e un tizio le aveva strappato la costosa borsetta dalla spalla ed era fuggito a gambe levate.
Vuole aiutare me per farla pagare a quello, trasferisce la sua rabbia sul ladro di turno.
La sua reazione nel prendere la cornetta e comporre il 112 è istantanea tanto quanto lo è stata la mia nel mettermi a gridare.
La questura si trova a poche centinaia di metri, in linea d’aria.
Le forze dell’ordine escono immediatamente, nemmeno 5 minuti e sono sul posto (percorrendo le strade nel giusto verso, senza infrangere il codice della strada).
Sembra un episodio da telefilm: raccontiamo loro l’accaduto in maniera concitata, io per la partecipazione in prima persona, la parrucchiera che ha risvegliato l’onda emotiva del suo momento passato.
Non solo Sabrina è scattata fuori dal suo negozio con un tempo di reazione pressochè nullo (o forse stava sulla porta a fumarsi una sigaretta in attesa della prima cliente), ma è stata così istintiva da cogliere e memorizzare un fotogramma essenziale per il riconoscimento del tizio che, ignaro di tutto, stava frugando dentro il mio Invicta nero e turchese sopra un ponte a pochi passi di lì.
L’uomo che viaggiava a bordo del Ciao aveva un’estesa chiazza rossa su un lato del viso, come un angioma. Riferisce questo dettaglio ai due poliziotti i quali ci spediscono in questura per formalizzare la denuncia (io) e la testimonianza (Sabrina), mentre iniziano a perlustrare la zona attorno.
Trovano Gianni, questo il nome del malvivente a volergli conferire un’aura di solennità, ma solamente un tossico disperato in realtà, sul ponte dietro la chiesa che rovista nel mio zaino e trova ahimè poca roba di suo interesse.
Il poveraccio infatti non poteva trovare un portamonete, unica cosa che potesse interessargli, perchè ne viaggiavo sprovvista, sistematicamente.
Trovava invece: il libro di trigonometria che avevo minuziosamente ricoperto con una pagina pubblicitaria di Benetton, raffigurante una delle fotografie di Oliviero Toscani tanto in voga all’epoca; un quaderno a quadretti formato A4 con gli esercizi; un astuccio con alcune penne, anche colorate (credo che risalisse a quell’anno il mio acquisto di un super pennone biro a 10 colori intercambiabili); unico pezzo ‘di valore’ una calcolatrice del formato di una carta di credito, altrettanto sottile, che avevo trovato in omaggio in un fustino di detersivo per lavatrice: di valore per il ladro, che se la è tenuta, e di valore per me, che avrei dovuto convincere mia mamma a comperare un altro fustino di detersivo ‘di marca’ per poterne avere un’altra.
Si trattava di una calcolatrice che arrivava al massimo a fare la radice quadrata, oltre le quattro operazioni.
Di gran lunga più sconfortata sarei stata se avessi subito lo stesso scippo pochi anni più tardi e mi avessero sequestrato gli appunti universitari, unici ed irripetibili in quanto catture estemporanee del flusso di informazioni dal docente verso il mio quaderno, che avevano transitato giusto per un frangente nella mia testa, il minimo indispensabile per essere cifrate nero su bianco, pronte per essere recuperate qualche mese più tardi ed essere assimilate per esteso.
Mentre io e Sabrina formalizziamo la denuncia, i poliziotti perlustrano il quartiere e trovano il soggetto, lo riconoscono e lo accompagnano in questura.
Qui lo fanno accomodare in una stanza con altri tre o quattro; poi chiedono a me e a Sabrina di riconoscerlo tra questi, attraverso un vetro dal quale lui non può vedere noi.
Per lei l’individuazione è immediata, per me un po’ meno, perchè l’ho visto solo di sfuggita.
Mille dubbi mi attanagliano, se sia veramente lui, e se non sia meglio scagionare un colpevole piuttosto che accusare un innocente.
Di fatto però è veramente accaduto che uno mi abbia scippata pochi minuti prima, e con tutta probabilità si tratta proprio di lui, di quell’uomo di cui anche io di sfuggita ho notato la chiazza rossa che deturpa il volto.
Così confermo che quell’uomo, che adesso mi sembra una scimmia rinchiuso in una gabbia allo zoo, è stato lui a scipparmi.
Viene trattenuto, mentre io e Sabrina torniamo alle nostre attività: lei al suo negozio di parrucchiera, io a scuola, alla lezione di trigonometria.
Entro in classe trafelata con più di 30 minuti di ritardo; su una durata complessiva di un’ora, rende la cosa opinabilmente sensata, ma è indescrivibile il senso di trionfo che provo quando mi giustifico per il ritardo con un ‘scusate, sono stata scippata’.
Nei giorni che seguono l’aneddoto riempie le mie conversazioni e il racconto si arricchisce di dettagli e particolari ad ogni sciorinamento.
Un paio di giorni dopo sul giornale locale viene pubblicata la notizia: un trafiletto di 30 righe nella pagina della cronaca locale, in cui sono riportate per esteso le generalità mie (nome, cognome ed indirizzo), della parrucchiera e da ultimo anche di Gianni.
Grazie a questa reciproca presentazione, mi è possibile individuare le successive perfomances di Gianni, che durante l’estate viene colto in flagrante mentre si allontana da un’automobile, alla quale ha sottratto l’autoradio, e se la è infilata tra la cintura dei pantaloni e la pancia, coprendola con la maglietta, sperando di passare inosservato.
A questo punto consegue ai miei occhi la laurea di ladro di galline, ad honorem, e inizio a provare nei suoi confronti un indicibile senso di pietà, più che di rabbia.
Ho la certezza che si muove a piede libero, non sta certo in galera, e pur conscia del fatto che potrebbe sapere dove abito, non mi sento minimamente in pericolo, anzi mi aspetto da un giorno all’altro di ricevere la notizia della sua scomparsa per overdose.
Gli anni passano e di Gianni mi resta il ricordo dell’episodio dello scippo e del suo indirizzo, una via a cui passo spesso davanti.
Diversi anni più tardi, la bellezza di 6 anni, ricevo una raccomandata, con la quale vengo invitata a presentarmi in tribunale, ad una certa data e ora, per partecipare al processo in cui si sarebbe giudicato quanto accaduto.
Avevo trascorso delle giornate intere a fantasticare sul processo, e “giura di dire tutta la verità dica ‘lo giuro’ ” con la mano sulla bibbia, e gli avvocati con toga e parrucca bianca, e il giudice che batte col martelletto di legno per chiedere il silenzio, io sul banco dei testimoni a riferire i fatti, la parrucchiera a testimoniare, Gianni in veste di imputato a difendersi e negare di essere stato lui; e poi l’arringa dell’avvocato, e la sentenza con relativa condanna del colpevole, per il quale provavo addirittura un po’ di apprensione.
Tutto questo film era stato proiettato nella mia mente dal ricevimento della convocazione a quel venerdì mattina in cui, rinunciando alla lezione universitaria, mi ero recata presso il tribunale.
L’unico elemento che corrispondeva con il mio film era la presenza di Sabrina, sempre platinata ma con i capelli un po’ più lunghi; ha dovuto chiudere momentaneamente l’esercizio per venire a testimoniare.
Per il resto rimango molto delusa: nessuno con toga e parrucca, l’aula non è altro che un ufficio, nessun banco degli imputati nè men che meno uno scranno per il giudice.
Manca persino Gianni, la cui apparizione mi procurava angoscia e che temevo di guardare dritto negli occhi.
Il processo, con circa un’ora di ritardo rispetto all’orario previsto, si svolge formalmente in due battute in cui viene richiesto a me e a Sabrina di confermare la nostra identità; grazie e arrivederci.
Non ci viene chiesto nulla altro, nessuno ci propone di ricordare quel pomeriggio di sei anni prima e ricostruire i fatti.
Solo e semplicemente il nostro nome, cognome e la data di nascita; due persone che lavorano hanno dovuto sospendere la propria attività mentre l’imputato chissà cosa stia facendo e dove si trovi.