Oggi di tanti anni fa, nel 1944 per l’esattezza, sul finire della seconda guerra mondiale, nasceva Ernő Rubik.
Questo signore è poi diventato un architetto.
La professione di architetto per me è sempre stata un po’ misteriosa: in parte tecnico, in parte artista, uno strano ibrido.
Come ogni professione, anche l’architettura ha diverse specializzazioni: sia l’oculista che il dentista sono medici, ma non mi farei mai curare una carie dal primo, nè prescrivere delle lenti dal secondo.
Così l’architetto può dedicarsi ad aspetti diversi della sua materia: le opere civili, il design, l’arredamento, l’urbanistica…
Il nostro Ernő è diventato famoso per l’invenzione dell’omonimo cubo.
No, non lo ha chiamato il cubo di Ernő, non servivano ulteriori complicazioni!
Lo ha chiamato cubo di Rubik: un solido di plastica formato da 3×3 fette, per un totale di 27 cubetti.
Le fette sono imperniate e ruotano, nelle tre direzioni.
Sulle facciate dei cubetti sono applicati degli adesivi: in uno stato iniziale ogni facciata ha lo stesso colore.
Fortunatamente chi legge il post sa esattamente di cosa parlo perché mi rendo conto che è difficile immaginarselo per come l’ho descritto.
Comunque dicevo, in uno stato iniziale le 6 facce sono ciascuna di un colore; poi inizi a ruotare le fette un po’ a caso e nel giro di pochi passaggi hai creato il rompicapo: riportare l’ordine.
Questo passatempo, tuttora venduto negli autogrill e tuttora giocato (ne ho visto pochi mesi fa uno coi miei occhi in mano al figlio di un’amica) negli anni ’80 aveva letteralmente spopolato: era un po’ l’antesignano di Candy Crush.
Probabilmente la fortuna di entrambi pone le radici nel comune uso dell’alternarsi dei colori base e dei loro diretti derivati; e anche nella novità di ogni partita che non ripete mai la precedente.
In casa mia ne circolavano addirittura due: uno era più morbido, ruotava con più facilità; si faceva quasi da solo.
Quasi: in realtà si disfava da solo, talmente era labile.
Mia mamma continuava a ricomporlo, era diventata velocissima, dopo aver appreso la tecnica che prevedeva di comporre due facce parallele ed ordinare anche i cubi adiacenti gli spigoli: in questo modo rimaneva solo la fetta centrale poi da allineare.
Sembrava che l’entropia, limitatamente al cubo, girasse all’incontrario.
In realtà è gradevole da vedere anche sfatto; usurato e con gli adesivi smozzicati dà prova che è stato ricomposto numerose volte, o almeno ci sono stati fatti molti tentativi.
Un po’ come dicevano in quegli anni delle Timberland, che chi le ama le distrugge.
Ma, come accennavo, in casa ne esistevano due, da quando questo primo aveva subito una sorta di sfregio: qualcuno aveva adottato il metodo MaomettoCheVaAllaMontagna, staccando gli adesivi e riportandoli nella posizione risolutiva.
Per non essere da meno anche il secondo, quello più duro da girare, aveva subito un danno: rimasto vicino ad una fonte di calore aveva un vertice semi fuso.
Però le facce erano stampate, quindi al sicuro.
In tutto questo racconto resta che io ad oggi non sono in grado di ricomporlo!