Rome swim Rome

Ho un’ora di anticipo sul treno di rientro, eppure non sono per nulla impaziente di girare la pagina finale di questa estate 2022.

Estate che mi è scivolata come sabbia tra le dita mentre a testa bassa ho continuato a provare di recuperare il disastroso tempo dei regionali.

Ho segnato l’iscrizione agli europei a maggio con un tempo di 30”50, che risaliva a febbraio 2021 e che non avevo mai più ripetuto.
Era un’iscrizione azzardata, che speravo mi ponesse al fianco di gente più forte di me che potesse darmi lo stimolo, mi facesse da lepre.

Niente, mi è andata male, sono finita in seconda batteria, quella che precede le papabili prime 10, ma in corsia centrale. Avrei potuto essere laterale tra le top 10 e invece no.

O forse non è stata sventura: a fianco da un lato una sconosciuta assente. Dall’altro colei che a Riccione, solo due mesi prima, si era presa l’argento staccandomi di nemmeno di due decimi.

Due decimi che mi erano rimasti sullo stomaco.

Migliore prestazione stagionale, prima di ieri, un 30”84, gli altri tempi tutti sopra il 31” fino ad un disastroso 31”81 (fratello minore del 32”) disputato appunto ai regionali.

Immagino che per i più parlare di decimi di secondo, addirittura di centesimi, di soglie psicologiche, di partenze reattive e arrivi decisi sia come discutere del sesso degli angeli o fare le treccine alle bambole.

Inezie, differenze minime, polvere di segatura, le cotiche del prosciutto che il salumiere leva e butta nello sfrido: un peso lordo minimo sacrificabile rispetto alla coscia intera.

Io per quel 31”81 ci ho pianto.
La rabbia e lo sconforto mi hanno tenuto compagnia per mesi.
Lo so che i problemi sono altri, che c’è il caro energia, la fame nel mondo, i bambini malati. Lo so.

Ma non posso farci nulla, quel tempo, quel risultato (e anche molti altri della stagione) mi pesava come un macigno, tanto da mettere in dubbio la sensatezza di iscrivermi al campionato europeo.

I master, a differenza dei nuotatori giovani, non hanno limite all’iscrizione, basta pagare. Per le competizioni di un certo livello esiste un tempo minimo, a portata di qualunque nuotatore di livello medio alto.

Ma appunto aveva senso investire tempo, energie e denaro in una avventura così?

Solo che gli europei proprio sotto casa sono un evento. Solo che chissenefrega del risultato, già esserci è un risultato.
Esserci significa nuotare nelle stesse vasche, nelle stesse strutture, con le stesse procedure osservate per i pro.
Pazienza che il foro italico è stato riservato agli uomini, le donne a Pietralata.

Esserci significa che il nome, la performance, il ranking, rimangono ufficiali negli archivi della LEN, la Ligue European de Natacion.

La volta precedente che avevo preso parte a un europeo era stata a Kranji nel 2007: nel 50 stile mi ero piazzata al 14 posto, avevo 15 anni di meno e avevo fatto 29”54.

Ritrovarsi all’11 posizione di partenza, prima delle escluse dalla top 10, con un tempo lungimirante di 30”50, aveva lanciato la sfida io vs me stessa.

Volevo rientrare nella top 10.
Così la boutade ‘ma si tanto è un 50’ si è trasformata in una sfida tranquilla: allenamenti seri fino a fine luglio, allenamenti ancora in vasca fino a ferragosto (compreso), allenamenti quotidiani tra le onde e le meduse da metà a fine agosto.

Poi ancora allenamenti in vasca: a casa e sul posto di gara.

La vasca di Pietralata non è suggestiva come quella del foro italico (che meraviglia la vasca interna: 50 m di lunghezza, profondità abissale, fondale in marmo, mosaici alle pareti) ma ha un enorme pregio, anzi due.

Il primo, forse legato anche allo stato di forma fisica, è di avere un’acqua leggera.
Il secondo è di avere sul fondo dei segni orizzontali intermedi.
Oltre alla classica linea nera longitudinale di mezzeria della corsia, oltre alle T che decretano la presenza del muro, da entrambi i lati, ci sono altre tre linee trasversali.

Una a metà vasca e le altre due a 15 metri dai bordi.
Una manna: la prima arriva che sei appena tuffata. La seconda non dista molto, e ti informa che sei già ai 25.
La terza è la più dura, ma la vedi. Il senso di fatica e pesantezza si acuisce ma l’occhio, quello che chiede la sua parte, la vede.

Ho parlato di soglia psicologica prima, riferendomi ai crono: stare sotto al 30”, stare sotto al 31”.
Ma anche in termini di distanza la psicologia fa la voce grossa. Quando non sei ancora ai 15 metri finali ma li vedi, e hai la percezione di essere in avvicinamento, ti sembra un po’ meno in salita.
Se poi di fianco, anzi un metro dietro, hai quella che ti ha soffiato l’argento agli italiani, allora sì che riesci a gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Partenza decisa (è stato rilevato anche lo stacco al via, 0,68; non so se sia buono, non ho riferimenti, non mi è mai capitata una misura precisa, e chissà quando si ripeterà; lo prendo per buono), arrivo di cattiveria, con la mano giusta stavolta, senza allunghi inutili.

Vittoria sulla batteria, tempo al display pari a quello di iscrizione, poi ufficializzato con 6 centesimi di più, in omaggio: 30”56.

Già va bene, poi si disputa anche la batteria finale e tirando le somme sono tra le prime 10, anzi meglio ancora: sono 8ava.

Certo che non è niente di fantasmagorico, per il podio mi ci sarebbe voluto un motorino: le prime 3 fanno tempi che non facevo nemmeno da M30 e men che meno da agonista.
Avessi anche ripetuto il mio miglior tempo di sempre, di quando avevo 10 o 15 anni di meno, non sarei potuta arrivare meglio che quarta.

Avevo consultato le start list, le avevo cercate in rete, questa è gente che non bluffa, fortissime e consce delle loro possibilità.

Ma chiudere così la categoria M45, ad un secondo da quella che ero 15 anni addietro, ad un tempo inferiore a quello con cui avevo gareggiato a Palermo nel 2018, primo anno di categoria quindi in teoria il più vantaggioso, è un bel modo di guardare avanti.

Il problema è che tutto il mio pensare al 2 settembre come obiettivo dell’estate ha spostato quello che è la realtà. Lunedì è il 5 settembre e si ritorna al lavoro.

RICOMINCIAMO: LA FASE 2 DEL NUOTATORE

Dodici settimane: tanto è durata l’impossibilità di entrare in vasca.

La sera del 9 marzo ho preso la sacca del nuoto e sono partita alla volta della piscina, appena prima dell’inizio della storica diretta televisiva che ha dichiarato il lockdown; sono andata all’ allenamento ma già subodoravo che sarebbe stato l’ultimo.

I mezzi di comunicazione raggiungevano il bordo vasca ed ero in costante aggiornamento sul progresso dei decreti: gustatelo, questo allenamento, perché per un pezzo non potrai più nuotare!
Tanto tuonò che piovve.

Inizialmente doveva trattarsi di quattro settimane, e nella mia testa immaginavo che sarebbero potute essere quattro settimane di stop completo, dal nuoto e da qualunque attività motoria: uno scarico completo, un tapering totale.

Presto però, ben prima delle quattro settimane, il mio corpo ha avvertito l’impellenza di muoversi, di creare delle situazioni di fatica: crisi di astinenza da attività fisica.

Inizialmente scettica mi sono avvicinata alla ginnastica, nome con cui io definisco tutto ciò che avviene al di fuori dell’acqua.

Per il resto del mondo assume molti nomi, come il diavolo che si può chiamare Satana, Belzebù o Mefistofele.
Per i non nuotatori esistono la psicomotricità, il risveglio muscolare dei club vacanze, la Zumba, il CrossFit, la ginnastica dolce e ciascuna è ben diversa dall’altra.

Il diavolo a cui mi sono rivolta io si potrebbe chiamare interval training o functional workout.
È un mondo fatto di esercizi dai nomi accattivanti come push up, jumping jack, mountain climber, squat, burpees.
Tutti rigorosamente in inglese perché detti così sembrano quasi dei tranquilli passatempo.

Nei giorni di pioggia, in cui ero costretta a rimanere dentro casa, il diavolo si chiamava pilates, quel famoso stretching che per mancanza cronica di tempo non eseguo mai; quell’attività che sembra semplice per il fatto di essere statica, ma non lo è per nulla.

Con l’aiuto di questi esercizi sono riuscita a far lavorare il sistema cardiovascolare, e con l’aiuto degli elastici a riprodurre molti dei movimenti del nuoto.

Però quando a metà maggio il governatore della mia regione ha nominato in conferenza stampa la riapertura delle piscine ho esultato come se avessero estratto il mio numero alla lotteria di capodanno.

Trepidante, il 25 maggio, dopo dodici settimane di assenza ho potuto finalmente ritornare a nuotare. Non posso parlare di 12 settimane di inattività, non lo sono state: il tapering non ha avuto luogo.

Ho atteso il momento dell’ingresso in acqua con sonni agitati, come accadeva ai tempi di scuola quando ritornava settembre e iniziava il nuovo anno.
Mi chiedevo come sarebbe stato, cosa avrei provato.

Eppure il bisogno base, quello di muoversi, lo avevo soddisfatto: perché tanto gaudio nel ritornare in acqua?

La primissima sensazione, che avevo dimenticato, è stata la spinta di Archimede. Lavorare in acqua è differente perché ci si muove a peso ridotto e la sensazione è un po’ quella di volare: passeggiare sulla luna anziché camminare per le vie del centro.

Forse per volare bisogna aggiungerci un po’ di energia, ma ho riscoperto l’appoggio pieno che si riceve dall’acqua, che è come stare su un materasso morbido.

Dopo il sostegno ho riscoperto il piacere di sentirsi avvolti, come un ritorno al liquido amniotico.

Avvolti e sostenuti: entrare in acqua ad allenarsi è la sensazione di una coccola.
Non il duro del pavimento attenuato appena da un tappetino, ma fluttuare in un dolce abbraccio.

Presto però la nuotata zen si è rivelata insoddisfacente e a breve giro è emersa la consapevolezza che il nuoto è uno sport insidioso: basta stargli lontana una sola settimana per ricadere al livello base. Figuriamoci dodici: la velocità che con tanta dedizione avevo affinato si è dispersa, tocca ripartire a lavorare sui gesti.

Non mi è mancata solo l’acqua, mi è mancata proprio la piscina, con la riga nera che divide la corsia a metà e la T che indica dove virare. Mi è mancata la socialità delle parole che si possono scambiare tra una serie e l’altra. Mi è mancato quel senso di completezza della giornata che provo quando sfilo la cuffia e gli occhialini.

Per me che sono un’insoddisfatta di natura, la ciliegina sulla torta sarà il ritorno alla competizione.

Non mi interessano le dispute a distanza: io voglio proprio quegli assembramenti che si formano prima della partenza, quei momenti di condivisione dei riti, quegli abbracci che anche dopo anni, a centinaia di km una dall’altra, ognuna chiuso fra quattro mura mi hanno fatta sentire vicina a chi vive la stessa mia passione, mi hanno regalato quel senso di identità e di appartenenza ad un mondo che pur essendosi eclissato per 12 settimane non ha smesso un solo minuto di pulsare.

Fase 2,5

Ho avuto un iniziale momento di rifiuto, in cui mi sono uniformata al divano.

Mi sono trasformata in runner, mio malgrado, quando essere un runner era più azzardato che arruolarsi da brigatista rosso.

Ho scoperto l’interval training: ho familiarizzato con i TABATA, gli AMRAP, gli EMOM.

Ho sperimentato i plank, gli squat, i jumping jack, lo skip nelle loro variegate forme.
Ho rivisitato il concetto di push up, che per me era solo un capo di biancheria, e scoperto che gli affondi bulgari non si vendono in gioielleria.
Sono passata a chiamare crunch gli addominali.
Ho odiato il mountain climber per poi farci pace, una volta passata alla guerra coi burpees.

Ho inspirato ed espirato al ritmo dettato dalla voce suadente dell’insegnante di pilates o di ginnastica posturale.

Ho stretto amicizie su Instagram e Facebook con i personal trainer, ho seguito le loro dirette in differita, studiato i loro video, ricercato gli esercizi su YouTube e su Wikipedia per poi poterli riprodurre senza crearmi traumi o lesioni.

Ho preso in prestito il tappetino e gli elastici a Sofia. Ho provato a variare i ritmi di lavoro e riposo per capire quali fossero più efficaci.
Efficaci per cosa? Boh, lo scopriremo, perché non so ancora bene che senso abbia avuto tutto questo.

Adesso finalmente so che presto potrò tornare semplicemente a nuotare.

Sberle, schiaffi, carezze

“Qui devi girare, a sinistra”

Qui? Non diresti mai che lungo quella stradina c’è un impianto sportivo.

E invece.

E che impianto.

E che musica.

L’anno 2019 riparte, agonisticamente parlando.

E ho preso una sonora legnata, anzi due.

Una me l’ha data un tizio che si stava riscaldando a secco, slanciava le braccia attorno a sè ruotando il tronco. Colpa mia che non l’ho notato, gli sono passata vicina, troppo vicina, lui non mi ha visto e … SBADABENG, un manrovescio che ha coperto in pieno labbra e naso; niente di rotto, solo per 20 minuti mi sono sentita molto Francesca Dellera.

Ma trascorsi 20 minuti tutto apposto.

L’altra legnata, quella morale, è durata di più, e me l’ha suonata il cronometro, ben due volte nella stessa giornata.

E ha fatto molto più male.

Forse, e sottolineo forse, dovrei prendere in considerazione l’ipotesi che non è una legnata: non è il cronometro che mi dà schiaffi, sono io permalosa che me la prendo. Lui dice la verità, se io abbassassi le pretese andremmo d’accordo.

Gli schiaffi, per alcuni aspetti, sono la stessa cosa delle carezze, cambia solo la rapidità con cui la mano arriva sul viso.

Se per gli schiaffi l’impatto è violento, e ce li si ricorda, le carezze arrivano morbide, e vengono sottovalutate.

Come nel buio più totale anche un singolo lumino può sembrare un bagliore intenso, così faccio tesoro dei led che mi si sono accesi e rinfrancato l’autostima, che viaggiava parecchio rasente il suolo.

“Hai un bel delfino”

detta a me, che da agonista dicevano “quando nuoti a delfino fa’ finta di non conoscermi” non è un lumicino, è un faro nella notte scura; ancora di più se penso che appena tre giorni prima sono stata apostrofata da un’utente del nuoto libero con un “SIGNORINA??? Scusi ma se nuota così non ci stiamo insieme in corsia … e il nuoto… NON È MICA SUO”.

“Quanto mi piaci”

riferito a un selfie supportato da una valida resa dell’illuminazione, e che ritenevo l’unica cosa ben riuscita della giornata; per me che ogni mattina passo un certo numero di minuti a scendere a patti con la mia faccia, altro faro nella notte.

È molto di più di un generico “quanto sei bella” perché aggiunge valore con tutta la soggettività del caso.

“Dovresti tenere bassa la testa nella subacquea”

I consigli al volo che ricevi da altri partecipanti sono sempre preziosi.

Anche i massaggi.

“Che fatica…! brava tu, sei andata forte”

detto dalla vicina di corsia che ho staccato.

Non è vero, non sono andata forte, ma era la sua prima gara e capisco il suo punto di vista.

A volte abbiamo un’evidenza davanti agli occhi, qualcosa che riusciamo a vedere per il semplice fatto che ce l’abbiamo di fronte.

La stessa cosa, per chi la impersona, non è altrettanto evidente.

È paradossale, perché nel momento stesso in cui ci risulta lampante non riusciamo a renderci conto che chi indossa l’abito non se lo vede attorno.

Per questo certe frasi, che magari sembrano banali o scontate a chi le dice, o sceglie di non dirle perché teme di essere ridondante, a chi se le sente dire fanno un effetto stranissimo, e fanno enormemente piacere.

In spogliatoio mentre mi rivestivo osservavo una concorrente che al mattino aveva nuotato un 100 delfino in maniera strepitosa; al pomeriggio aveva disputato l’australiana arrivando ‘solamente’ seconda.

Forse era una mia impressione ma sembrava contrariata; dal canto mio invece la vedevo sull’Olimpo.

Non ho avuto il coraggio di dirle nulla.

Invece sono riuscita ad esprimere la mia gratitudine alla signora che ha mantenuto lo spogliatoio in condizioni impeccabili per la durata intera della manifestazione.

Dulcis in fundo:

“Leggo sempre i tuoi pezzi con piacere”

Questa mi ha riscaldato, oltre che illuminato.

Più che un faro, un faló in spiaggia nella notte di ferragosto, con musica e mohito a volontà.

Ad majora.

RIP Mr Hyde

Ore 9.00 – Dr Jekyll

“Oh bene, oggi è giorno di allenamento”

Ore 10.00 – Bip bip – Messaggio whatsapp con l’allenamento per la serata – Mr Hyde

“Oh no… 16×100 forti… non ce la posso fare”

Ore 14.00 – Dr Jekyll

“Dai forza che stasera ci si allena: il lavoro sedentario richiede una forma di compensazione, altrimenti sarei un rudere… senti questi che hanno il fiatone per aver salito una rampa di scale”

Ore 19.00 – Mr Hyde

“Ma chi me lo fa fare? Ma sono veramente stanco, non ce la faccio! Ma se rimanessi a casa? Non cambierebbe nulla, tanto ormai le gare non le vinco più.

Fuori piove, magari le strade sono allagate…

Ma se per una volta scegliessi divano, copertina, una tisana e un libro? Ma se io facessi la nonna di me stessa? Ma la tv non la guardo mai, potrei cominciare stasera.

Ma se andassi a letto presto? Sento il richiamo del cuscino, guadagnerei in riposo!

Ore 20.00 – Mr Hyde ALZA LA VOCE

“Perché vuoi proprio andare? Sei sicuro? Pensaci dai… per una volta…”

Dr Jekyll afferra le chiavi dell’auto e scende le scale.

Mr Hyde si accorge, a 200 m da casa, di aver lasciato la patente sul tavolo, vicino alla frutta. Mr Hyde si sente molto Gloria ma a guidare è Dr Jekyll, che intanto ha individuato una canzone piacevole alla radio.

Dr Jekyll parcheggia e si cambia.

A salire sul blocco di partenza però è Mr Hyde che giudica la temperatura dell’acqua ad occhio nudo: è fredda.

Mr Hyde indugia, chiacchiera, tentenna, temporeggia.

Dr Jekyll dà una spinta.

Mr Hyde esclama “ ‘mmazza se è fredda!” ma Dr Jekyll inizia a girare le braccia.

Viene il turno dei 16×100 forti: Mr Hyde si propone di farli al risparmio, Dr Jekyll ha l’udito sopraffino e sente i compagni proporre “li facciamo misti?”

Decide Dr Jekyll, misti siano!

Scende a patti con Mr Hyde e cinquantapercentizza la cosa.

Dopo i primi 2×100 comunque Mr Hyde progetta di sospendere la seduta e fuggire.

Dr Jekyll lo trattiene, e li completa.

Mr Hyde soccombe.

In spogliatoio, fiero, ritorna Dr Jekyll da solo.

RIP Mr Hyde

Trofeo Salus Pueri – 2018

Beeep beep beep

La sveglia: no, ma perché? Di sabato: perché?

Mi alzo come un automa, con scarsa convinzione, ripetendomi la domanda: perché?

Mi preparo ed esco di casa, dormono ancora tutti. In giro però c’è già gente che corre, i ciclisti, i ragazzi che aspettano l’autobus che li porta a scuola, i gatti e ricci morti sulla carreggiata, investiti durante la notte.

Non sono sola, non è nemmeno l’alba.

Carico i compagni di squadra in auto con me, in maniera un po’ hazzardiana perché ho una portiera bloccata.

Siamo tra i primi ad arrivare, troviamo un parcheggio ottimo: vicino all’ingresso ed in ombra. L’aria è ancora frizzante, ma l’acqua è veramente accogliente,

La manifestazione si apre e procede molto velocemente, alle 9,30 ho già concluso la prima prova; la seconda è prevista per le 12.

Tra una gara e l’altra prendo il sole, scambio un po’ di chiacchiere con amicizie datate e recenti, bevo un caffè, scatto qualche foto, seguo le gare degli altri, acquisto un paio di occhialini.

Il venditore si raccomanda di risciacquarli con acqua e null’altro; sarà dura dopo una vita che, come ogni nuotatore è abituato a fare, ci slinguazzo dentro per non farli appannare, abbandonare questo gesto di discutibile eleganza.

Anche la seconda prova si svolge in perfetto orario: una manifestazione quasi svizzera questo trofeo Salus Pueri, immeritatamente snobbato.

In un enorme parco verde, a qualche decina di minuti da casa, chiude il circuito Gran Prix Veneto in maniera egregia. Eppure l’affluenza è modesta.

Prima di uscire vado a ritirare la medaglia ma mi comunicano che le classifiche sono sospese perché una signora che è arrivata più tardi ha gareggiato con gli uomini e quindi devono stilare di nuovo le graduatorie per integrarne la posizione.

Una signora? Ah beh ma allora non c’entra nulla con me, potete darmi la medaglia.

Mi riferiscono l’anno di nascita della signora, che è lo stesso mio, quindi la graduatoria da rivedere è proprio quella della mia categoria.

No ma allora… perché la chiamate signora? Vi sembra coerente? Vi sembra educato? Un po’ di rispetto per queste M45!

Introspezione post gara

Se c’erano 20 bambini, venivano disposte 19 seggiole; musica di sottofondo e tutti a scorrazzare; quando la musica veniva interrotta tutti dovevano sospendere la danza e correre a sedersi; chi restava senza la seggiola era fuori.

Poi la musica ripartiva, e si levava un’altra sedia, stesso copione a ripetizione: vinceva il gioco colui che al termine delle esclusioni si accaparrava l’ultima sedia.

Era un gioco molto popolare quando ero piccola.

Sullo stesso principio si basa il meccanismo della staffetta australiana nel nuoto: si ripetono i 50 stile a partire da una batteria completa e si esclude ad ogni ripetizione l’ultimo che tocca la piastra.

Per chi la disputa è una gara parecchio faticosa perchè richiede tanta capacità di gestione e di ripetere lo scatto con poco riposo.

Per chi la guarda è puro spettacolo! e poi dicono che il nuoto è uno sport che non riesce ad entusiasmare le folle.

Forse per animare un po’ la manifestazione e creare la suspense, non tanto nelle tribune ma direttamente in vasca, su questo stesso meccanismo hanno basato anche la gestione del tabellone elettronico la scorsa domenica a Spresiano: vasca ad 8 corsie, tabellone elettronico a 6 posizioni.

Quando concludi la distanza alzi gli occhi per vedere l’unica cosa che in quel momento ti interessa: il tempo con cui hai chiuso. Se hai dato il massimo non ti resta tanta lucidità per i giochi enigmistici: in alcune manifestazioni attrezzate con dispositivi all’avanguardia compaiono cognome e nome, e vai a colpo sicuro.

Io che mi chiamo con poche lettere ci sto per esteso.

Più comunemente invece si legge una sigla tipo P3 L5 che va interpretata come P:posizione 3 L:lane (corsia) 5.

Nell’istante dell’arrivo, se sei stato attento, hai una vaga cognizione di quale era la tua lane ma difficilmente conosci l’ordine di piazzamento.

Mettersi a cercare è un garbuglio, se poi le scritte scorrono è una rincorsa vana, come leggere la targa di un malvivente che scappa dopo una rapina.

Ho letto tutti i tempi, a valore crescente, senza trovare la mia lane, e ho dedotto di aver disputato un tempo maggiore dell’ultimo visualizzato, di essere rimasta senza la seggiolina alla fine della musica.

Un tempo inqualificabile, nemmeno degno di apparire sul display.

Me ne sono tornata in tribuna rassegnata, convinta di aver performato il peggior tempo di sempre, senza nemmeno riuscire a rapportare con coerenza le sensazioni provate a tanto disastro.

Ho ricevuto però una piacevole sorpresa: il mio tempo non era così pessimo, solo avevo perso l’istante in cui veniva visualizzato. Carpe diem e carpe tabellonem.

La soddisfazione, moderata per vero, è durata poco: piuttosto che peggio è meglio piuttosto, diceva mia mamma, ma è una magra consolazione.

Presto è subentrata l’analisi della prestazione nei dettagli cronometrici, considerando che su 100 metri ho percorso i primi 50 in un tempo di pochissimo inferiore ai secondi 50.

Il tuffo di partenza rende matematicamente la prima parte più veloce, si può dire che io abbia nuotato in negativo.

Il che significa due cose: la prima è che ho un livello di preparazione sufficiente ad arrivare al termine della gara senza schiattare; la seconda è che ho una fottuta paura di bruciarmi e ho fatto l’abitudine a risparmiare nella prima parte di gara. È giusto ‘cercare la nuotata’ ma dovrei riuscire a farlo nei primi metri, invece me la prendo comoda, un po’ troppo, la cerco proprio bene.

Dovrei provare a tirare a mille la prima metà e poi quel che viene viene; ma è un istinto di sopravvivenza primordiale: se ti dicono di lanciarti a folle velocità contro un muro con l’auto, garantendoti che il muro è di gommapiuma, il piede andrà comunque a cercare il freno.

È accaduto in altre occasioni che a 15 metri dall’arrivo mi sia calato il sipario, game over proprio; memore di quelle sensazioni negative non riesco più a spingere dall’inizio.

Mentre rifletto mi accomodo in tribuna in attesa della seconda gara: è quel momento in cui ti scevri di tutti gli orpelli della vita quotidiana, sovrastrutture dell’età adulta; in quel momento non sei la pettinatura che porti, non sei l’abito che indossi, non sei la casa in cui abiti, non sei la macchina che guidi, non sei il lavoro che fai nè ciò che hai o non hai studiato, non sei la mamma di o la moglie di, sei unicamente un valore astratto: il tempo che hai disputato.

Il crono è un risultato oggettivo: non dipende dalla valutazione di un giudice, dalla simpatia di un esaminatore, dall’affiatamento tra compagni di squadra; ed è un risultato meramente individuale che ti pone allo specchio e ti fa confrontare con te stesso.

Non esiste un parametro assoluto di bene o male, una soglia di riferimento globale con cui confrontarsi.

Esiste ciò che hai fatto negli anni precedenti, lo stato di forma attuale, la tattica che hai adottato, la concentrazione che hai profuso.

È un’autovalutazione, nessuno ti loderà o ti schernirà per un secondo in più o in meno, nè per dieci secondi di differenza: si tratta di un faccia a faccia con lo specchio, davanti al giudice più severo, quello che sa veramente cosa hai combinato e non ti concede sconti.

Disputo la stessa gara che facevo quando avevo 15 o 25 o 35 anni; ma mi rendo conto che adesso la affronto in maniera più prudente, allora mi ci buttavo con incoscienza.

Il tempo è aumentato perché il corpo risponde diversamente o perché la testa è cambiata?

Mi si avvicina un signore e mi saluta, sostenendo con certezza che ci conosciamo.

Lo scruto cercando qualche dettaglio nel suo viso che me lo riporti a galla nella memoria.

“Nuotavamo assieme” afferma.

Ma quando? Dove? È una vita che pratico questo sport.

Mi fornisce dei riferimenti vaghi, insufficienti a delinearlo.

Non si scoraggia, continua a parlare a ruota libera fino a che, dal suo soliloquio, emergono un paio di dettagli che mi accendono la luce.

Davanti a me rivedo quel ragazzo seduto al mio stesso tavolo di esame durante la prova scritta del corso per istruttori di nuoto, risento quelle stesse parole fluttuanti, la medesima parlantina.

Pronuncio quindi il suo nome, con intonazione interrogativa.

È come quando dopo tanto tempo ti restituiscono un libro che hai prestato: te lo ricordi nuovo ed ora ha le pagine un po’ ingiallite, gli angoli smussati e la copertina sgualcita. Ma è sempre quel libro.

Così quello che io definisco signore si rivela essere un mio (quasi) coetaneo, che non vedevo dal ‘92.

E cosi anche il 100 stile: sempre 4 vasche da 25 metri, anche se non ho più lo zelo di sbranare la gara dai primi metri.

Sentieri (del nuoto libero) – Puntata 4738532

Centro sportivo – Piano vasca – Interno giorno – Tardo pomeriggio

Un orario insolito per i miei allenamenti ma per una serie di incastri sono finita lì, nell’orario e nello spazio dedicati al nuoto libero.

Che poi non è che sono fuori contesto: è libero (e pagante) anche il mio di nuoto.

Lo spazio c’è, per tutti. A volte è il buonsenso che scarseggia.

Non sembra questo il caso in oggetto: tutto scorre tranquillo.

Quando entro in corsia ci sono due donne che nuotano insieme, mi lasciano spazio, ci incrociamo pochissime volte perché aspettano alla parete che io riparta.

Sono più veloce di loro ma questo non sembra infastidirle minimamente.

Quando escono per qualche istante mi ritrovo da sola in corsia; in pochissimo entra in acqua una ragazza in avanzato stato di gravidanza.

Siamo solo io e lei, ci incrociamo e la supero senza nessun problema: nuota pianissimo, è quasi ferma, non faccio nemmeno fatica, non serve accelerare nè fare grandi spostamenti laterali.

Poi ad un certo punto qualcosa mi taglia la strada: una terza signora è entrata in corsia con noi e anziché percorrerla per lungo la attraversa in larghezza.

Così come per strada c’è un senso di percorrenza da rispettare e delle precedenze, le stesse vigono in vasca.

Niente, questa donna incurante della presenza pregressa di altri utenti si prende la libertà di circolare a modo suo.

Penso stia cercando di uscire, mi sembra in difficoltà, non la vedo in grado di rimanere dove si è messa; suppongo che stia cercando di portarsi nella corsia lungo il muro.

Mi sbaglio: questa tizia inizia a nuotare, tutto a modo suo; ha scelto la corsia in cui mi trovo io.

Indossa un costume di quelli con la sgambatura anni ‘30, che le copre interamente i glutei.

Mentre nuoto riesco a distinguere chiaramente l’una dall’altra: una con la pancia prominente, l’altra con una specie di burqa.

Con un minimo di attenzione quando le incrocio riesco a portare avanti il mio lavoro senza difficoltà, senza creare situazioni di pericolo.

È un lavoro prevalentemente di soglia il mio, con qualche variazione di velocità e adeguato riposo.

Quando arrivo a toccare la parete e mi fermo la seconda signora, quella col burqa sulle chiappe, mi prende una mano.

Lei non poteva sapere che mi stavo per fermare, quindi posso tranquillamente affermare che mi ha interrotta.

Niente di paragonabile al tizio che una volta, mentre facevo una virata e cercavo di chiudere una distanza in velocità, mi ha afferrato per una caviglia e apostrofata ‘ehi tu… guarda che non sei mica Federica Pellegrini’.

Però anche questa a suo modo è stata piuttosto invadente.

E per cosa mi ha fermata?

“Scusa ma tu… sbagli la bracciata!”

Che se mi avesse detto che sbagliavo candeggio l’avrei guardata con la stessa bocca spalancata.

“Tu fai così” prosegue mimando il mio recupero a braccio teso “mentre la bracciata corretta è così” e in quello mi dimostra un movimento a gomito alto.

“No perché con quel braccio lì ho paura che mi colpisci”.

Quindi il suo consiglio non solo non produce effetti in termini di efficacia della nuotata, ma ha un secondo fine, nemmeno troppo velato.

La rassicuro che sono in grado di nuotare in mezzo agli altri senza entrare in collisione, che non si preoccupi, ma lei insiste che “questo è”.

In cuor mio ricevo la conferma che si è messa in una corsia non adatta a lei, ce ne sono altre, spero le prenda in considerazione.

Il mio tempo di riposo è scaduto, riparto e cerco di accontentarla stringendo il più possibile il braccio in fase di recupero, almeno nei tratti in cui ci incrociamo.

Lei invece esce: non la vedo più e dopo essermi accertata che non è rimasta sul fondo completo le mie sequenze.

Trascorre circa mezz’ora e quindi esco anche io.

Sono pronta per andarmene, lavata e vestita, in spogliatoio trovo un’amica e non resisto a raccontarle immediatamente l’accaduto.

E lì mi si materializza dal nulla la stessa signora, che evidentemente non aveva troppa fretta nemmeno fuori dall’acqua: mi riprende di nuovo a spiegare la sua tecnica, commentando che io, oltre a sbagliare, sono troppo aggressiva.

“Vedi, io voglio solo insegnarti come si fa… ho fatto agonismo quando avevo 6 anni. Tu invece ti alteri, non accetti i miei consigli…”.

Istantanee dal campo gara: Desenzano

Il Trofeo città di Desenzano aveva la nomea di campionato italiano invernale master, pur non esistendone uno ufficialmente.

Per un insieme di caratteristiche (la vasca scorrevole, la disponibilità di numerose gare, la data di metà anno agonistico, la precisa organizzazione) ha sempre attirato iscritti da tutto lo stivale, garantendo confronti di buon livello.

Andare a podio a Desenzano, più ancora che rispetto ad altre manifestazioni, è sempre stato motivo di prestigio.

Nel 2010, anno in cui i costumi gommati sono stati dichiarati fuori regolamento, c’era stata l’ultima edizione, prima che il trofeo si spostasse a Gussago.

Ho un ricordo nitido di quella ultima gara a Desenzano, ormai prossima alla nascita di Sofia; una gara disputata in costumino e senza sforzare, eppure con risultati che adesso mi sembrano sorprendenti.

Ho un ricordo vago di Desenzano come città, sede dell’ospedale in cui ho tentato il rivolgimento di una principessa podalica: quando sono uscita dalla struttura sanitaria, dopo un intero giorno di digiuno, mi sono precipitata al Mc Donald.

Desenzano, meta di qualche gita domenicale primaverile, con la passeggiata sul lago in mezzo a tantissimi turisti tedeschi.

Desenzano un tempo sede del campionato italiano invernale assoluto, quello vero e proprio, a cui ho avuto il piacere di partecipare in giovane età solo come frazionista di staffetta.

Sirmio ocelle insularum, decantava Catullo; ma anche Desenzano non scherza, aggiungo io.

Dopo 7 anni di latitanza la manifestazione è ritornata alla sua sede originale, e in memoria di quelle che erano valide prestazioni disputate un tempo, ho puntato la mia preparazione orientandomi a questo evento.

Non potevo prevedere i malanni di stagione, giusto un paio di settimane prima.

Accidenti, lo stato di forma fisica e le sensazioni in acqua post influenza mi avevano instillato un tarlo: ha senso presentarsi e gareggiare quando sai già a priori che il risultato sarà sottotono?

D’un tratto però ho iniziato a rivedere nella mia mente i volti di gente forte che ad un certo punto si è ritirata dalla scena; e ho valutato che difficilmente ci si riesce a presentare in chiamata solo quando si ha la certezza di ottenere un buon crono.

In poche parole ho considerato che non presentarsi sarebbe equivalso ad un primo passo verso l’abbandono.

Andrà come andrà ma almeno ci ho provato.

Non so se si possa considerare un atteggiamento vincente o perdente, a volte il mio tentare ad ogni costo sfora nella cieca cocciutaggine.

Ad ogni modo questo è il mio carattere quindi si va.

Il McDonald è sempre al suo posto e anche l’impianto arroccato sopra la città ha sempre il parcheggio al completo.

Mentre infilo il costume per il riscaldamento altre donne stanno già indossando quello da gara; in particolare al mio fianco due giovani ragazze e una signora attempata si aiutano a vicenda a perfezionare la calzata delle spalline.

Le due ragazze si rivolgono alla signora dandole del lei, e scherzando le richiedono un compenso di 10€ per l’aiuto.

Una delle due ragazze giovani ha un paio di tette esemplari, di quelle che andrebbero conservate a Parigi presso l’Ufficio internazionale dei pesi e delle misure, assieme al kilogrammo e al metro di riferimento: l’archetipo della tetta.

La signora controbatte chiedendo di abbassare a 5€ la tariffa; mi inserisco nella contrattazione chiedendo di aiutare anche me ad aggiustare le spalline.

Mentre la sua amica mi aggiusta, la ragazza tetta-di-riferimento mi dice, in maniera del tutto inaspettata “e complimenti per il fisico!”.

In quel preciso istante sento di avere già dato un senso alla mia ostinazione, ancora prima di presentarmi al blocco.

Anche se il risultato finale non sarà quello sperato, il benessere psicofisico che traggo dall’allenamento è già un traguardo importante.

Non mi ha dato del lei, non mi ha detto ‘per la tua età te li porti bene’. No.

Una perfetta sconosciuta, per giunta di considerevole aspetto, di diversi anni più giovane, senza nessun secondo fine, mi ha regalato una frase che mi ha lasciato di stucco e con una sola parola: grazie!

Forte di questa massiccia dose di autostima ho anche la fortuna di partire fianco a fianco con l’avversaria che nella mia categoria ha il miglior tempo di iscrizione.

Non vinco, ma ottengo in un solo colpo di abbattere due muri psicologici, quello cronometrico dei 30” e quello della soglia dei 900 punti.

Posso dirmi, cosa rara, abbastanza soddisfatta.

Nel frattempo che non è più stato adibito a campo gara l’impianto non è cambiato, ma ho avuto modo di conoscere tanti altri impianti, di nuova costruzione.

Un po’ come quando ritrovi un amico di vecchia data, e negli anni che non lo hai visto hai conosciuto altra gente: è sempre lui, ma lo trovi invecchiato. E subito ti domandi: lo sarò anche io?

Per la vasca il dettaglio che tradisce il tempo trascorso sono i blocchi di partenza: ma davvero mi tuffavo senza alette?

Poi la gara dei 100 misti mi restituisce il pensiero: si, sono passati anche per me degli anni da quel personal best che Desenzano mi aveva aiutato a disputare!

Il bilancio della partecipazione è comunque positivo: la giornata ha avuto il merito di ridare pieno senso ai miei sforzi, di ottenere qualche consiglio direttamente dal piano vasca, di ritrovare vecchie conoscenze e di scoprirne altre di nuove; e di ascoltare la pioggia di proclamazioni di nuovi record, confermando che la manifestazione rimane uno standard di riferimento elevato.

Perché se Sanremo è Sanremo… Desenzano è Desenzano!

X Trofeo master Nuoto Vicenza

Ogni volta la stessa domanda, ogni volta una diversa risposta, un nuovo tassello del puzzle.

Cosa mi entusiasma del nuoto master? Dove trovo la spinta a continuare a praticare il medesimo sport e a cimentarmi nella competizione?

Nel caso della manifestazione di casa la risposta appare ovvia, quasi scontata: l’evento si svolge a pochi km da dove abito, è un’occasione di incontro con tante persone senza nemmeno scomodarsi a fare strada.

Ma non si tratta di ciò, o almeno non è la spiegazione che ho formulato in questo caso.

Il trofeo master Nuoto Vicenza ha compiuto 10 anni, è come se avesse ormai conseguito la licenza elementare.

Mi sembra ieri che la gara di novembre (la squadra partecipa di norma ad una gara ogni mese) veniva scelta tra Bologna e Vimercate, nell’indecisione se affrontare la nebbia verso ovest o leggermente più a sud.

La prima edizione del trofeo era surreale: inverosimile rivedere tutti quei volti nella propria città, e contestualmente disputare la gara in una vasca scorrevolissima.

L’organizzazione è partita con alti standard ed ha progredito verso la perfezione: tabelle di marcia rispettate al minuto consentono a chi come me abita nei pressi di gestirsi le iscrizioni e conciliarle con altri impegni.

Gli anni passano, le prestazioni non sono più quelle delle prime edizioni; ma su un migliaio di gare disputate provate a chiedere ai concorrenti se sono soddisfatti del risultato: risponderà SI la minima parte. Eppure continuano ad essere in tanti gli iscritti, sempre più numerosi, sempre più frequenti le liste di attesa per partecipare.

Tra quei disillusi recidivi io.

Perché?

La risposta questa volta mi è arrivata su due fronti.

Per una delle gare in programma sono ricaduta nell’ultima batteria, la più veloce, cosa che un tempo davo per scontata, ora non avviene sistematicamente.

Mi sono ritrovata in compagnia di ragazze che potevano essere, anagraficamente e senza troppa fantasia, quasi tutte mie figlie.

Una di queste in particolare celebrava il momento come se fosse in gita scolastica, con cori di incitamento alla compagna di squadra che partiva al suo fianco.

Per una volta io non ero l’accompagnatrice: in gita e con lo stesso entusiasmo ci ero anche io, anche se lo davo a vedere in maniera meno eclatante.

La seconda spiegazione, quella più illuminante, me l’ha data la fotografia.

Il giorno seguente all’evento le foto scattate durante la manifestazione sono state pubblicate sul web: foto di amicizia in primo luogo, e di concentrazione, di sforzi, di risultati e di premiazioni.

E poi un primo piano mio, mentre guardavo (lo so io, nella foto non si vede) il cronometro.

Non è il primo piano del mio viso ad avere nulla di particolare, solo essendo il mio l’ho osservato abbastanza approfonditamente da rilevare un dettaglio.

Lo stesso dettaglio che, con un po’ di attenzione, emerge da tutte le foto simili a questa.

Sono vanesia, passerei ore davanti allo specchio a farmi le boccacce, ma in questo scatto rimiro non tanto il volto, quanto il rapimento.

Mentre guardo il tabellone emerge che l’unico pensiero in quell’istante è la ricerca del riscontro, la domanda che tutti si pongono appena toccata la piastra: quanto ho fatto?

È un dialogo con un’entità astratta: è lo sguardo di un bambino che osserva un prestigiatore mentre fa le sue magie.

È lo stupore e la meraviglia di chi guarda un dispositivo elettronico ma in realtà sta attendendo l’oracolo.

Non importa se la risposta è quella che si vorrebbe, ciò che conta è che in quel momento siamo esattamente dei bambini in balia del mistero; non fa differenza se babbo natale ci porta i doni o la befana il carbone: il vero regalo è riuscire per mezza giornata a dimenticare la spesa, l’appello all’università, il traffico del rientro, la multa da pagare, le bollette, il rincaro della benzina, le paturnie della suocera e mettersi ad osservare una sequenza di led, agognando una soddisfazione.

È questo il dono più grande che una passione sportiva ci consegna; per un attimo ritorniamo ancora più indietro che alla gita scolastica: per qualche istante regrediamo alla pura fanciullezza, e il cronometro è la finestra che ci permette di affacciarci su quell’epoca.