Là ci darem la mano

Di Bassano tutti conoscono il ponte degli alpini. È il luogo più affollato della cittadina. Al sabato sera poi si concentrano un po’ tutti li, è quasi difficile il passaggio.
Certo la vista è suggestiva: il ponte storico, appena ristrutturato, fa da sipario al fiume Brenta, che scorre sotto e riflette in un’immagine tremolante i caseggiati sulla riva, frastagliandone i contorni ma vivacizzandone i colori.

In molti scattano foto a questo sfondo, e molti altri mettono loro stessi al centro dell’obiettivo, con il fiume alle spalle.

Però le cose belle si nascondono ovunque, e non necessariamente dove l’affluenza è maggiore.
Dall’altro capo del centro storico, quasi nascosta in una nicchia, una ragazza cantava.
Di artisti di strada sono piene le vie, soprattutto quando la primavera avanza e le temperature e la luce migliorano la vita all’aperto.
Questa però aveva una voce che definire bella è riduttivo.
Aveva una voce bella in modo imbarazzante, e cantava con fare superlativo.

Non ci avresti scommesso, a vederla.
Di corporatura minuta, per nulla appariscente, anche un po’ trasandata nel vestire; i capelli sembravano passati in candeggina, la pelle bianca come il latte, gli occhi truccati appena di nero, un piccolo orecchino rotondo sul naso.
Giovane anzi giovanissima.

In una mano reggeva una cassa di dimensione ridotta, rosso corallo, da cui usciva la base.
Nell’altra mano il cellulare, con una cover gommosa dello stesso pantone della cassa, per controllare il testo.
Se la vedevi avresti detto che stava facendo per gioco, come ai neo laureati per fare festa, gli fanno cantare una canzone.

Lei dimenava le braccia per darsi il ritmo.
E dalla sua gola usciva un suono potente, deciso, quasi metallico, che altalenava tra i toni in maniera convincente.
Non conosco il titolo del brano, nè avevo mai sentito quella melodia in precedenza.

Non aveva pubblico, solo due o tre attorno a lei che parevano suoi amici.
Davanti a sè aveva steso un cappello rovesciato, ma non credo che il fine suo ultimo fosse veramente raccogliere denaro.

Quando l’ho superata e la sua canzone mi è rimasta alle spalle ho sentito un brivido: io credo di non avere mai avuto l’onore prima di ascoltare una simile interpretazione canora.

Mi sono fermata e sono tornata indietro, per ascoltare il resto.
Non ho avuto l’ardire di scattare una foto o registrare un video, ma credete, era incantevole.

Al termine non ho saputo trattenere un applauso, e gli altri tre si sono uniti al mio.
Una ragazza l’ha abbracciata.

Eppure il ponte degli alpini, e tutta la gente, stavano dal lato opposto, nonostante le bellezze si trovassero proprio qua.

Scema & +Scema

C’è che la linea internet da sabato ha dato forfait, ed è un guaio; si sopravvive un minuto senza aria, un giorno senza acqua, per sempre senza una risposta, ma quanto senza connessione?

Questo pomeriggio il tecnico è uscito, dietro segnalazione ma senza alcun preavviso; tocca correre a casa perché pare debba verificare qualcosa di non meglio precisato sull’attacco, o sul router chi lo sa, e bisogna aprirgli la porta.
Ma del tecnico nemmeno l’ombra.
Faccio un paio di verifiche ma è tutto rotto come prima.
Finalmente la connessione ritorna e chiamo il marito, che si era occupato di contattare il tecnico, per comunicarglielo.
Proprio in quell’istante sento suonare il campanello ed interrompo la telefonata prima di ricevere risposta; vengo istantaneamente richiamata, ma non rispondo, perché impegnata ad accogliere il tecnico.

Gli riferisco che è tutto ok, gli faccio vedere che Netflix è ripartito.
Lui allora mi chiede di verificare anche il funzionamento del telefono fisso, ed è così che dal numero di casa, con il cordless, mi chiamo sul cellulare.
Eureka, va tutto, grazie e arrivederci.

Ed è qui che il genio si scatena: richiamo il marito, che avevo lasciato senza risposta (potrebbe sopravvivere per sempre ma io sono puntigliosa): dal cellulare ripeto l’ultimo numero, registrato a suo nome.

Sento suonare il fisso e a questo punto mi spazientisco per la sua impazienza: possibile non riesca ad attendere che lo richiami?

Brillante idea, rispondo.
E mi aspetto di sentirlo, cioè di sentire lui, la sua voce, su entrambe le linee.
“Pronto? Pronto?”
Mah… è una voce femminile… Pronto?

La domanda rimbalza con un lieve sfasamento da un orecchio all’altro.

Ma chi è???? Chi parla???

AAH SI…. SONO IO!

Mi faccio la domanda, mi dó la risposta.

Rosso o blu? Questo è il dilemma

Negozio di bricolage una domenica mattina di quasi primavera. Clientela quasi esclusivamente maschile, tutti concentratissimi ad individuare tra gli scaffali la giusta brugola o il raccordo della misura cercata.

Nessuna musica allieta nè i dipendenti nè i visitatori.

Un tranquillo viavai di gente intenta a procurarsi il materiale per qualche manutenzione domestica, o forse per il lavoro settimanale.

Alle casse file importanti, anche 4 o 5 in attesa per ciascuna; ognuno ha pochi pezzi in mano o nel cesto, ma si formano delle batterie ordinate di gente che attende in piedi il proprio turno.

Improvvisamente un pianto interrompe il brusio sommesso che aveva regnato fino a poco prima.
Nessuno sembra curarsene. È un pianto che sembra più di noia, non è certo un capriccio nè un pianto disperato.

Proviene da un bimbetto che staziona sulle spalle del suo papà, in fila alla cassa come molti altri.

Nessuno sembra interessarsi alla causa; il bimbetto, sotto una cuffietta in jersey calata fino alle sopracciglia, non smette.

Dopo un certo numero di singhiozzi il papà, senza scomporsi, porge al figlio un ciuccetto di colore rosso.
Il piccolo lo accetta con la mano destra, se lo rigira un po’ mentre lo guarda da diverse angolazioni e anziché infilarselo in bocca ne estrae un altro dalla tasca del suo giubbetto con la mano sinistra, azzurro.

Brandendo entrambi i ciucci non accenna a smettere di piangere e, sempre singhiozzando, inizia a chiamare la mamma.

<<Mammaaaaa, mammaaaa>>.
ripete a ritornello.

Tra i presenti non sembra suscitare nessun interesse, nessuno si gira a guardarlo, nessuno interviene e soprattutto nessuna mamma sembra arrivare in suo soccorso.

Nemmeno il papà prova altri mezzi per quietare il piccolo, che con le manine sollevate esibisce i ciucci; sembra voler dire che i suoi bisogni sono altri, che la soluzione non era il ciuccio, è la mamma che lui vorrebbe: se voleva il ciuccio ne aveva già uno in tasca.

<<Mammaaaaa, mammaaaa>>.

Ma la mamma, nè nessun altro, arriva.

Rassegnato, e forse galeotto l’arrivo al proprio turno in barriera casse, infila il ciuccio azzurro in bocca e silenzia il suo stesso pianto.

L’altro, quello rosso, lo recupererà il papà dopo aver pagato, pronto per le prossime emergenze.

Ufficiale e gentiluomo

Poco dopo le 6.00 il richiamo dall’altoparlante ci annuncia che siamo prossimi a terra. Con qualche contorsionismo ci disincastriamo dal Tetris della cabina e raggiungiamo il bar, dove tira un vento gelido di aria condizionata polare.

Poco alla volta tutti si risvegliano; chi ha usufruito del passaggio ponte si attarda un po’, raccoglie le proprie cose sparpagliate attorno. Qualcuno approfitta degli ultimi attimi di sonno, coprendosi testa e orecchie per attutire il disturbo del via vai.

Si vede già terra, eppure lo sbarco si farà ancora attendere.

Verso le 7.00 iniziano a chiamare gli automobilisti, suddivisi per garage.

Quelli più prossimi alla discesa defluiscono ai piani inferiori, gli altri attendono pazientemente sulle scale.

Ogni tanto si apre un nuovo garage e la folla si riduce, permettendo di discendere un altro piano.

Sull’ultima rampa sta disteso un uomo. La testa avvolta in un indumento, i piedi scalzi dalla pianta nerissima.

Indossa un paio di jeans sdruciti e una t-shirt consunta, che non copre le braccia macilente.

Attorno a lui bottigliette vuote, qualche effetto personale e tanta, tanta confusione.
Lui dorme, profondamente.

Gente che va e viene, bambini, cani, schiamazzi.

Tutti in piedi, lui disteso, dorme profondamente.

Bisticci di bambini assonnati, chiamate urgenti alla reception, risate da relax post vacanziero.
Lui dorme.

Passa un uomo dell’equipaggio, tenta di svegliarlo blandamente, gli dice che stiamo attraccando a Olbia, mentre siamo a Livorno.

Lui dorme, profondamente.

Scompiglio per l’annuncio errato tra gli astanti. Una famiglia in difficoltà a svitare il tappo della sua bottiglia di acqua.

Lui dorme.
Ormai dovremmo esserci, tra poco scenderanno tutti, sono ormai le 8.00.

Arriva un altro uomo dell’equipaggio, più alto in grado, prova a chiamarlo in modo perentorio.

“Signore, signore! Deve svegliarsi, siamo arrivati”

Niente, nessun segno di vita.

Una donna avvisa che già un collega aveva tentato la missione, senza successo.

Il tizio in uniforme bianca, con la spallina blu e le stelle dorate, i capelli neri raccolti in un codino, la barba che sa di pulito, non capisce.

“Un collega? Chi?”

La donna paziente gli risponde che non sa, un altro dell’equipaggio.

Nuovo tentativo più deciso del precedente: “Signore si deve svegliare” che però non sortisce alcun effetto.

L’uomo in uniforme inizia a spazientirsi e la tensione si fa palpabile.

Si accovaccia e prova a muoverlo, meditando a voce alta di chiamare la sicurezza.

Il tizio disteso accenna un lieve rotolamento, protesta da sotto la giacca che gli fa da turbante e mascherina.

Di nuovo un richiamo: “Signore deve svegliarsi”

L’altro prende forza e ribatte a voce impastata “ma io vivo qua” senza aprire gli occhi.

Disappunto tra i presenti, mormorii.
L’uomo in uniforme sta per rialzarsi e chiamare rinforzi.
Poi qualcosa lo attrae, ritorna abbasso e chiede “Ma tu… mica se’ Joseph???”

Ed è lui!
Carramba che sorpresa! L’uomo che dormiva si alza lentamente in piedi, con aria stralunata, la barba incolta, i capelli rasati, un occhio semi chiuso, peserà 50 kg.

“Joseph, che bello rivederti! Vieni vieni con me, che fai qua?”

I due si abbracciano e sembrano sinceramente felici di vedersi.

Il contrasto tra le due figure, il barbone e l’ammiraglio, si fonde: ora non sono più i ruoli che rappresentano, ora sono loro due, sono amici che non si vedono da un sacco di tempo.
Hanno recuperato ciascuno la propria dimensione umana.

“Vado a trovare i nipoti e tu?”

“E io ci lavoro! Vieni dai che ti faccio vedere un po’ in giro! Dove hai parcheggiato la macchina? Ti offro da bere!”

Il pubblico, non pagante, si scambia incredulo occhiate coi lucciconi mentre Joseph e l’ammiraglio si allontanano.

Sardegna 2022

Cosa riporto a casa da questa vacanza?

Rigorosamente in ordine random:

  • la sigla del tg1 delle 8,00 che riecheggia dalle finestre del vicino;
  • una cavigliera da ragazzina che ho trovato sul fondale mentre nuotavo;
  • un bel po’ di sabbia, sospinta dal vento incessante, e rimasta appiccicata agli asciugamani;
  • il monito che dentro un barattolo con la dicitura ‘zucchero’ potrebbe nascondersi altro (mamma come è salato questo the);
  • gli abitanti del centro che siedono sulla soglia di casa a fare salotto, direttamente sul ciglio della strada;
  • il sapore del sale chehaisullapelle chehaisullelabbra che dopo i primi 5 minuti di nuoto ti arriva fino in gola e hai voglia a sciacquare quando esci: non va più via;
  • che se vuoi la pasta senza formaggio devi precisarlo;
  • le seadas, il mirto, il pecorino, il pane carasau, il porcellino, i malloreddus, le sappuedas, il melone verde, l’acqua smeraldina e i tappi delle bottiglie che a Viola non piacciono;
  • il materasso del letto che pare un tagadà;
  • le visite alle miniere di Serbariu e al sito archeologico di Barumimi, la preparazione e la cortesia delle guide che ci hanno accompagnato, la totale mancanza di indicazioni stradali per raggiungere i luoghi;
  • il ballo della scopa che partiva in spiaggia appena si liberava un posto e tutti correvano a riaccaparrarsi la posizione migliore;
  • le folate improvvise che rovesciano gli ombrelloni e la gente che corre a riprenderli; noi siamo riusciti a rompere il nostro al secondo giorno: non male considerato che ci sono suppellettili in terracotta che resistono per millenni;
  • le figlie che socializzano con i coetanei (in misura diversa! ) e spariscono; poi ritornano (sempre in misura diversa);
  • l’esercente che non vuole rovinare il layout del suo plateatico e ci chiede di cambiare tavolino;
  • gli oleandri, le alghe, le meduse, l’acqua limpidissima su fondale bianco e sabbioso, un paesaggio insolitamente verde;
  • i reticoli di strade fittissimi con le auto parcheggiate ovunque;
  • la gelateria fantasma, sparita nel nulla dopo che avevo convinto il resto della famiglia ad una tappa;
  • il vento che mi pettina alla Mirko dei bee-hive e che quando si ferma rivela un caldo torrido quasi africano.

Top Gun Maverick – I miei 2 cents

Dicevano che era un gran film; dicevano che aveva effetti speciali; dicevano che Tom Cruise è inossidabile, che a 60 anni è rimasto tale e quale a quello del primo film, quando ne aveva appena 26.

Mi permetto di levarmi dal coro.

Il film, come ogni sequel, fa rimpiangere il primo.
Gli effetti, confermo, ci sono, e sono più o meno l’unico ingrediente.

Tom Cruise ha 35 anni in più. Si vedono, forse non tutti, ma si vedono. Per non farlo sfigurare troppo è stato selezionato un cast di basso profilo, per cui se andate a vedere il film per gustarvi l’occhio lasciate perdere. Vale anche per la componente femminile.

Maverick veste ancora lo stesso giubbotto e gli stessi occhiali a goccia; alla sua età ancora non ha imparato a infilarsi un casco prima di salire in sella a una moto.

La storia d’amore è stata inserita a forza, senza corteggiamento, nè scene di sesso, nè lieto fine. Solo un furtivo incontro guastato dalla presenza dei figli.

Il lessico ha subito, rispetto al primo film, troppa innovazione: quando mai adoperiamo il verbo brieffare per dire ragguagliare?

Anche la colonna sonora è rimasta la stessa, Highway to the Danger Zone, potete leggerlo canticchiando così vi sentirete già al 50% calati nella parte di spettatori.

Unica nota positiva: ho apprezzato la presenza di personaggi femminili (uno a dire il vero, forse una quota rosa) perfettamente integrati nella squadra, senza che si cadesse nei soliti stereotipi per cui a un certo punto ‘la donna non ce la fa’. Si è un po’ superato insomma il concetto che Venusia esce, spara due tette e poi è costretta a battere in ritirata e lasciare correggere il tiro a quel superdotato di missili che è ufo robot.

“Non conta l’aereo signore… conta il pilota!!!”

Cosa resterà?

Cosa resterà di questo anno ‘20?
Cosa resterà di mille regole astruse, spesso incompatibili tra loro, sempre incompatibili con la vita quotidiana?

Le prime a sparire saranno le autocertificazioni, quelle in cui ogni 14 giorni dichiari che stai bene.
Anzi l’esercente di turno lo compila al posto tuo, te lo legge in faccia che stai bene.

Le altre autocertificazioni, quelle che effettui uno spostamento al fine inderogabile di effettuare uno spostamento (necessario) sono già morte da un pezzo.
Si sono evolute più veloci della luce, ogni 8 ore ne usciva un modello contenente la modifica su una riga.
Hanno bruciato le tappe: un’esistenza breve e intensa.

Il metro di distanza, in caso di attività fisica addirittura due o anche tre, sta facendo la fine dei miei rientri serali da minorenne: contrattavi un orario e poi di volta in volta ci aggiungevi 5 minuti. Il metro di volta in volta si accorcia di 5 cm. Siamo già molto prossimi a bucare la mia bolla di sicurezza personale.

I pannelli di plexiglas, immancabili negli scoop giornalistici, che lo immaginano ormai anche a letto tra marito e moglie, presto perderanno lucentezza, in quei rari casi in cui sono stati realizzati: già me li vedo tappezzati di adesivi appiccicati a casaccio.

Le strisce sul pavimento, applicate in maniera artigianale, si staccheranno e voleranno via: troveremo pezzetti di nastro giallo e nero ai bordi delle strade, li confonderemo con grossi calabroni schiattati.

Le file ordinate di persone fuori dai negozi, dalle banche, dai supermercati, dalla posta, al primo giorno di pioggia si faranno solubili.
Gli ingressi da un lato uscita dall’altro si confonderanno al primo che dimentica una cosa uscendo e inverte la marcia.

Le mascherine, già ritenute superflue all’aperto, ma che ancora penzolano sotto il mento ai più, finiranno come il casco appeso al braccio di certi scapestrati in motorino.
In un paese dove ancora c’è gente che fuma o che non allaccia la cintura di sicurezza alla guida, incurante dei danni concreti e immediati che reca a se stesso, figuriamoci quanto facile diventa ricordarsi di portarsi dietro un accessorio inutile e fastidioso.

I termoscanner che ti rilevano una temperatura corporea di 33 • vengono adoperati con malcelata sufficienza dal malcapitato addetto.

I guanti monouso (ha ha ha, mi fa troppo ridere monouso: cioè li usi una volta sola: chi mi spiega quando inizia e quando finisce la volta?) beh quelli comunque appartengono già al museo (degli orrori: pensa a tenerli addosso qualche ora, quando li levi …).

Le canzoncine della durata di 40 secondi per aiutare il lavaggio delle mani? Dai chi le canta ancora?

Resisteranno i flaconi di gel, quelli si: agli ingressi troveremo ampia disponibilità di quei dispenser che non riescono ad erogare e che non sono stati consumati; oppure resisterà la presenza di quei gel oleosi che ti impiastrano le mani e non vedi l’ora di lavartele per davvero.

Resisteranno come le bandiere arcobaleno con la scritta PACE, rimaste appese dai primi anni del nuovo secolo, stinte al punto di non distinguere più i colori.

Resisteranno gli arcobaleni disegnati dai bambini, a cui avete raccontato che andrà tutto bene e chissà se lo credevate davvero: sono ancora tutti esposti ‘sti disegni, come i babbi Natale ancora appesi al terrazzo al 25 di gennaio.

Ho il presentimento che resisteranno anche tutti gli aumenti, applicati per far fronte all’emergenza covid, che ad emergenza conclusa ci si dimenticherà di far rientrare.

Addio o… ciaone?

Ho sempre creduto che addio significasse ‘a mai più rivederci’. Esiste anche un’interpretazione più morbida, secondo cui è un saluto un po’ altisonante con cui si raccomanda il prossimo all’onnipotente.

È una parola che a me, comunque, non piace: se addio significa, come ho sempre inteso, ci rivedremo al cospetto di, è adatta solo in caso di dipartita definitiva.
È il saluto da riservare al decuius.
E questo è il caso che esula dalle mie riflessioni.

In tutti gli altri casi ‘chi non muore si rivede’.
Pertanto mi rivolgo a tutti coloro che si stanno struggendo in questi giorni per la fine inconsueta dell’anno scolastico / accademico / sportivo di questo bizzarro 2020: sursum corda!

Non esiste addio, almeno sotto questo aspetto, èandatotuttobene.

La scuola finisce, molti si ritroveranno a settembre, forse un po’ più distanziati, forse attraverso una lastra di plexiglas, forse dietro una mascherina, forse ancora dallo schermo di un computer.
Ma si ritroveranno!

Qualcuno ha concluso un ciclo e ne inizierà uno nuovo: ripartirà dalla prima di un nuovo percorso di studi, ripartirà con una diversa attività sportiva, tenterà di inserirsi nel mondo del lavoro.

Per inclinazione il mio sguardo è sempre in avanti, verso ciò che mi attende, verso quel che sarà.
Se immaginiamo ogni transizione come l’attraversata di un lago con una barca a remi, possiamo vogare volgendo le spalle alla riva che dobbiamo raggiungere o a quella da cui ci allontaniamo.
A prescindere da quale sia la voga più efficace, il mio modo di affrontare la vita che scorre è quello di guardare avanti.

Non si tratta di cinismo o di irriconoscenza: è semplicemente più comodo rivangare il passato, che si conosce; guardare all’ignoto puó essere spaventoso. Ma spesso riserva sorprese migliori.

Addio è ipocrisia: spesso lo diciamo a persone che non rivedremo più per mancanza di occasioni.
Può trattarsi di un compagno di scuola, un collega di lavoro, una persona in genere con cui abbiamo un rapporto quotidiano che viene a cessare.
Ecco, vorrei insistere su questo aspetto: cessa di essere quotidiano.
Magari quella persona abita a pochi isolati da casa nostra; magari invece si trasferisce in un’altra città o in un’altra regione.
Nel primo caso nulla ci impedisce di frequentare quella stessa persona in altri momenti della giornata.
La vicinanza ridotta ai momenti di svago può rivelarsi anche migliore: tempo di qualità, anziché quantità di tempo.

Nel secondo caso i mezzi di comunicazione oggi sono talmente potenti che riescono a mantenere vivi i rapporti nonostante le distanze, se questo è ciò che desideriamo.

Se invece non è ciò che desideriamo, ovvero mantenere vivo il rapporto ci richiede energie che non siamo disposti a dedicare… beh allora inutile farla tanto lunga con gli addii: ciaone può bastare.

RICOMINCIAMO: LA FASE 2 DEL NUOTATORE

Dodici settimane: tanto è durata l’impossibilità di entrare in vasca.

La sera del 9 marzo ho preso la sacca del nuoto e sono partita alla volta della piscina, appena prima dell’inizio della storica diretta televisiva che ha dichiarato il lockdown; sono andata all’ allenamento ma già subodoravo che sarebbe stato l’ultimo.

I mezzi di comunicazione raggiungevano il bordo vasca ed ero in costante aggiornamento sul progresso dei decreti: gustatelo, questo allenamento, perché per un pezzo non potrai più nuotare!
Tanto tuonò che piovve.

Inizialmente doveva trattarsi di quattro settimane, e nella mia testa immaginavo che sarebbero potute essere quattro settimane di stop completo, dal nuoto e da qualunque attività motoria: uno scarico completo, un tapering totale.

Presto però, ben prima delle quattro settimane, il mio corpo ha avvertito l’impellenza di muoversi, di creare delle situazioni di fatica: crisi di astinenza da attività fisica.

Inizialmente scettica mi sono avvicinata alla ginnastica, nome con cui io definisco tutto ciò che avviene al di fuori dell’acqua.

Per il resto del mondo assume molti nomi, come il diavolo che si può chiamare Satana, Belzebù o Mefistofele.
Per i non nuotatori esistono la psicomotricità, il risveglio muscolare dei club vacanze, la Zumba, il CrossFit, la ginnastica dolce e ciascuna è ben diversa dall’altra.

Il diavolo a cui mi sono rivolta io si potrebbe chiamare interval training o functional workout.
È un mondo fatto di esercizi dai nomi accattivanti come push up, jumping jack, mountain climber, squat, burpees.
Tutti rigorosamente in inglese perché detti così sembrano quasi dei tranquilli passatempo.

Nei giorni di pioggia, in cui ero costretta a rimanere dentro casa, il diavolo si chiamava pilates, quel famoso stretching che per mancanza cronica di tempo non eseguo mai; quell’attività che sembra semplice per il fatto di essere statica, ma non lo è per nulla.

Con l’aiuto di questi esercizi sono riuscita a far lavorare il sistema cardiovascolare, e con l’aiuto degli elastici a riprodurre molti dei movimenti del nuoto.

Però quando a metà maggio il governatore della mia regione ha nominato in conferenza stampa la riapertura delle piscine ho esultato come se avessero estratto il mio numero alla lotteria di capodanno.

Trepidante, il 25 maggio, dopo dodici settimane di assenza ho potuto finalmente ritornare a nuotare. Non posso parlare di 12 settimane di inattività, non lo sono state: il tapering non ha avuto luogo.

Ho atteso il momento dell’ingresso in acqua con sonni agitati, come accadeva ai tempi di scuola quando ritornava settembre e iniziava il nuovo anno.
Mi chiedevo come sarebbe stato, cosa avrei provato.

Eppure il bisogno base, quello di muoversi, lo avevo soddisfatto: perché tanto gaudio nel ritornare in acqua?

La primissima sensazione, che avevo dimenticato, è stata la spinta di Archimede. Lavorare in acqua è differente perché ci si muove a peso ridotto e la sensazione è un po’ quella di volare: passeggiare sulla luna anziché camminare per le vie del centro.

Forse per volare bisogna aggiungerci un po’ di energia, ma ho riscoperto l’appoggio pieno che si riceve dall’acqua, che è come stare su un materasso morbido.

Dopo il sostegno ho riscoperto il piacere di sentirsi avvolti, come un ritorno al liquido amniotico.

Avvolti e sostenuti: entrare in acqua ad allenarsi è la sensazione di una coccola.
Non il duro del pavimento attenuato appena da un tappetino, ma fluttuare in un dolce abbraccio.

Presto però la nuotata zen si è rivelata insoddisfacente e a breve giro è emersa la consapevolezza che il nuoto è uno sport insidioso: basta stargli lontana una sola settimana per ricadere al livello base. Figuriamoci dodici: la velocità che con tanta dedizione avevo affinato si è dispersa, tocca ripartire a lavorare sui gesti.

Non mi è mancata solo l’acqua, mi è mancata proprio la piscina, con la riga nera che divide la corsia a metà e la T che indica dove virare. Mi è mancata la socialità delle parole che si possono scambiare tra una serie e l’altra. Mi è mancato quel senso di completezza della giornata che provo quando sfilo la cuffia e gli occhialini.

Per me che sono un’insoddisfatta di natura, la ciliegina sulla torta sarà il ritorno alla competizione.

Non mi interessano le dispute a distanza: io voglio proprio quegli assembramenti che si formano prima della partenza, quei momenti di condivisione dei riti, quegli abbracci che anche dopo anni, a centinaia di km una dall’altra, ognuna chiuso fra quattro mura mi hanno fatta sentire vicina a chi vive la stessa mia passione, mi hanno regalato quel senso di identità e di appartenenza ad un mondo che pur essendosi eclissato per 12 settimane non ha smesso un solo minuto di pulsare.

Fase 2,5

Ho avuto un iniziale momento di rifiuto, in cui mi sono uniformata al divano.

Mi sono trasformata in runner, mio malgrado, quando essere un runner era più azzardato che arruolarsi da brigatista rosso.

Ho scoperto l’interval training: ho familiarizzato con i TABATA, gli AMRAP, gli EMOM.

Ho sperimentato i plank, gli squat, i jumping jack, lo skip nelle loro variegate forme.
Ho rivisitato il concetto di push up, che per me era solo un capo di biancheria, e scoperto che gli affondi bulgari non si vendono in gioielleria.
Sono passata a chiamare crunch gli addominali.
Ho odiato il mountain climber per poi farci pace, una volta passata alla guerra coi burpees.

Ho inspirato ed espirato al ritmo dettato dalla voce suadente dell’insegnante di pilates o di ginnastica posturale.

Ho stretto amicizie su Instagram e Facebook con i personal trainer, ho seguito le loro dirette in differita, studiato i loro video, ricercato gli esercizi su YouTube e su Wikipedia per poi poterli riprodurre senza crearmi traumi o lesioni.

Ho preso in prestito il tappetino e gli elastici a Sofia. Ho provato a variare i ritmi di lavoro e riposo per capire quali fossero più efficaci.
Efficaci per cosa? Boh, lo scopriremo, perché non so ancora bene che senso abbia avuto tutto questo.

Adesso finalmente so che presto potrò tornare semplicemente a nuotare.