Identità

Grande liceo cittadino, interno giorno.

Varco l’ingresso di buonumore, baciata da una giornata di sole e con il timore reverenziale che si nutre verso le pubbliche istituzioni o gli studi medici, a prescindere dal motivo della visita.

Nel corridoio che segue l’atrio di ingresso, di fianco alla portineria, alcuni ritardatari della prima ora attendono silenziosi di poter accedere alla classe per l’inizio della seconda. Ripassano ognuno la propria materia senza eccessiva convinzione; qualcuno scrive su un quaderno in bell’ordine.

Io sono li per il ricevimento degli insegnanti: non sono più una di quegli studenti e non sono nemmeno una prof, nè mi sentirei di esserlo. Mi viene più facile calarmi nei panni dei ragazzi che capire l’oscuro mondo dei docenti.

Sono una figura ibrida, a metà della piramide di cui gli studenti sono alla base e i prof al vertice: sono un genitore, quindi sono un’adulta che però pende dall’oracolo che uscirà dal magico cilindro dei sommi.

Non mi interessa sapere che voti prende mia figlia, che il registro elettronico lo so leggere da me: sono li per conoscere gli insegnanti e farmi conoscere dagli stessi.

Ho prenotato ben quattro incontri nella stessa mattina, per ottimizzare i tempi.

Le prime due che mi ricevono non si dimostrano preparate: pur avendo avuto oltre un mese di anticipo per capire chi è lo studente di cui dovranno offrire un brevissimo resoconto, non sono riuscite ad arrivare pronte e annaspano sotto il mio sguardo, cercando di fare mente locale con il supporto del registro elettronico per capire chi è la ragazza di cui mi aspetto notizie.

Candidamente rivelano di non ricordarsi chi è.

Temo che con la fine dell’incontro la conoscenza non sarà reciproca: gli elementi di me che ho offerto a loro saranno evaporati col suono della campanella; rimarrà la loro impressione su di me.

Con il cambio dell’ora uno

sciame di adolescenti si sposta da un’aula all’altra.

Diversi ma tutti uguali; camminano a gruppi di tre o quattro, qualcuno da solo; zaino in spalla e un libro o due in mano.

Dai loro volti traspare preoccupazione – per una interrogazione o un compito – e la serenità dei loro anni; le due cose convivono senza collidere.

Alcuni chiacchierano sotto voce, molti tacciono: è un trasferimento garbato, forse un po’ assonnato.

Se mi chiedessero di descriverne uno, o una, proprio non saprei: si mimetizzano l’uno con l’altro, si uniformano, si confondono, si assomigliano.

Anche negli sgabuzzini dei ricevimenti c’è l’avvicendamento: è il cambio della guardia, i prof della prima ora raggiungono la classe ed arrivano quelli della seconda ora.

Alla postazione 5 c’è il mio vecchio prof di matematica. Quando era il mio prof era fresco di laurea, ora è prossimo alla pensione.

Non lo vedevo dall’esame di maturità, il mio. Meglio: non ci vedevamo, perché la cosa è reciproca.

Io ho ricevuto lo spoiler dal tabellone in cui era scritto il suo nome ma fatico un po’ a riconoscerlo.

Mentre attendo il prossimo turno, quello del terzo colloquio, mi perdo in chiacchiere con gli altri genitori e con un’amica di vecchia data che, coincidenza, attende di parlare proprio con lui.

Viene il turno della mia amica che mi cede spazio per un breve saluto.

Mi avvicino quasi in punta di piedi, chiedendo sommessamente se si ricorda di me.

“Vieni vieni qua” mi ordina, dandomi direttamente del tu.

Mi sento come se fossi stata chiamata alla lavagna per l’interrogazione; mi avvicino e mi scruta da vicino, abbassando gli occhiali.

I suoi lineamenti sono gli stessi di un tempo, solo i colori sono sbiaditi; è rimasto lo stesso e al contempo non è più quel ragazzo fresco di laurea catapultato in una classe di irriverenti maturandi, ma ha mantenuto lo spirito giocoso, l’accettazione dello scherzo da cui non si sottraeva.

Esordisce con “Tu sei…”, prosegue con una piccola pausa; poi dice il mio nome di battesimo, e dopo un’altra brevissima pausa il mio cognome. Precisi, puliti.

Si ricorda anche che corso di laurea ho seguito, gli manca solo di sapere cosa ho fatto poi. Qualche minuto di come stai e come sta, mi chiede chi ho in questa scuola e poi ci salutiamo, cordialmente.

Sono trascorsi alcuni giorni e io sono ancora commossa: se la norma è che un insegnante non sa riconoscere un suo alunno attuale, pur con l’anticipazione di ricevere la visita del genitore, lui che non poteva minimamente immaginare la mia comparsa ha saputo rinvenire a colpo sicuro nel database della sua memoria la mia faccia, trent’anni dopo.

Tanta, ma veramente tanta stima!

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