Una vita in rosa

Attenzione, contiene spoiler.

Attenzione non è una recensione.

Attenzione è molto lungo.

Leggetelo solo se non volete andare a vedere il film Barbie (ma poi magari lo vorrete), se lo avete già visto o se non vi importa di leggere le anticipazioni.

Io lo scrivo per il piacere di poterlo poi rileggere a distanza.

Perché sono andata a vedere questo film?

La molla era scattata da un passaggio radiofonico in cui si annunciava Barbienheimer, ovvero l’uscita in contemporanea nelle sale di due film, Barbie ed Oppenheimer. Pare che molti si fossero prenotati per vederli entrambi la sera stessa della prima, per una maratona di oltre 4 ore di proiezione, roba per spettatori allenati.

Alla notizia avevo immaginato che potessimo suddividere la famiglia a metà e seguire le proiezioni in sale parallele, come già fatto lo scorso anno con Top Gun e i Minions.

In Italia però sarebbe uscito solo il film Barbie, intanto.

Quando le ragazze mi hanno chiesto di accompagnarle a vederlo mi ero immaginata un filmetto da bambine, e mi ero convinta di fare un’opera da mamma e portarle.

A supporto della richiesta mi avevano detto che per produrlo si era esaurito il colore rosa.

Poi ho iniziato a sentire diverse amiche che lo andavano a vedere o volevano andarci e mi è montata la curiosità.

L’unica delle tre che si è vestita di rosa per l’occasione comunque sono io.

Non avevo idea di cosa mi aspettasse, solo nel viaggio di andata Sofia mi aveva anticipato ciò che aveva desunto dal trailer.

Il film è ben confezionato e offre diversi livelli di lettura, adatti alle varie età.

È un film patinato, se fosse una rivista sarebbe Vogue.

Non ho colto le citazioni e i rimandi cinematografici a causa della mia ignoranza in materia.

Tutto ciò che dico sono osservazioni personali.

È gradevole da guardare: è lezioso, quasi stucchevole, un film recitato da attori ma nitido come un cartone animato.

Ci sono coreografie, balli, canti; vita da spiaggia e da discoteca, passeggiate, momenti tra amiche.

Se dovessi annoverarlo in un filone farei fatica: non è un musical, non è una commedia, non è un film di azione.

Non ci sono storie d’amore, men che meno di sesso; non ci sono combattimenti, nè battaglie epiche.

Qualche inseguimento, amicizia non saprei dire.

Direi che è un film ironico, satirico, a tratti forse demenziale.

Per certo è un film intelligente, fatto dalle donne e destinato a chi lo vuole recepire.

Ho sentito molti, per la maggior parte uomini, rifiutarsi a priori di vederlo.

Capisco poco questa presa di posizione: credo sia una forma snobismo per un film che si suppone sdolcinato, melenso o forse fintamente femminista.

Non lo è.

I dialoghi, oltre alle immagini a cui si è fermata Viola e ai quali non poteva arrivare del tutto Sofia, i dialoghi dicevo, e i commenti fuori campo, sono il pezzo forte del film.

La storia si apre sul mondo ideale di Barbieland, abitato da un numero imprecisato di barbie ed altrettanti ken.

Tutti loro non hanno altro nome proprio, si chiamano proprio tutte Barbie e tutti Ken e si salutano ciao Barbie ciao Ken.

Si scambiano reciprocamente la battuta per alcuni minuti mentre il narratore descrive la perfezione della routine quotidiana e l’incongruenza con le leggi della gravità (le barbie non scendono le scale ma si lanciano dal secondo piano della loro abitazione, trovando sotto l’auto ad accoglierle).

Due di questi elementi, una barbie un ken tra i mille, vengono eletti a protagonisti principali: lei è Barbie stereotipo, lui è Ken e basta (Kenough). Di Alan c’è un solo esemplare, e forse e anche di troppo.

Il Ken prescelto è interpretato da Ryan Gosling, che conciato come è uccide ogni fantasia sessuale delle spettatrici.

Le varie barbie si distinguono: c’è quella col televisore sulla schiena, quella un po’ in carne (prodotta veramente dalla Mattel: ne ho preso una per le mie figlie e mi sono stupita; soprannominata subito Barbie galoni, che in veneto significa cosce grosse), e persino una barbie in sedia a rotelle (mi domando come possa essersi ridotta così se pur lanciandosi dal secondo piano le barbie ne escono incolumi).

Nella vita perfetta di Barbie stereotipo, da qui in poi semplicemente Barbie con la B maiuscola, un giorno si insinua una crepa: l’acqua della doccia mattutina è fredda, l’uscita di casa un po’ stentata, i piedi perennemente arcuati si appiattiscono, osserva un accenno di cellulite sulle cosce, le si manifesta il pensiero che esiste la morte.

(Non credo che le mie figlie abbiano colto il problema oltre al piede piatto, ben illustrato dalle immagini, perché non sanno cosa sia la cellulite o comunque non si pongono il problema).

La community la indirizza senza dubbio alcuno a colei che di vita vera ne sa più delle altre: un tempo era anche una lei una barbie perfetta, poi le sono stati tagliati i capelli e le è stato pitturato il viso, e pur mantenendo le movenze da barbie, con la gamba tesa e la spaccata sempre pronta, si è trasformata in una specie di mostro, soprannominata barbie Stramba.

Barbie Stramba spiega che nel mondo reale ogni barbie ha un corrispondente in forma di bambola; forse la bambina che gioca con lei ha iniziato a manifestare pensieri di morte e urge correre là e risolvere la situazione.

A me barbie Stramba ha fatto morire dalle risate perché è esattamente l’incarnazione di tutte le poche bambole che ho avuto e a cui ho lavato dapprima i capelli, ritrovandomele con una scopa di saggina rovesciata in testa, e a cui ho cercato di porre rimedio con un taglio avanguardistico; in più si mixa alle miriadi di bambole delle mie figlie a cui hanno colorato coi pennarelli occhi e bocca.

Barbie Stramba indirizza Barbie al mondo reale e le suggerisce di indossare, in luogo delle scarpe col tacco, un paio di comodissime Birkenstock; orrore, lei rifiuta ma l’altra insiste.

È un dubbio amletico che vivo spesso quando si tratta di uscire: eleganza o comodità? This is the question.

Barbie quindi parte verso il mondo reale e l’amico Ken (ma sarà poi amico? Lui vorrebbe qualcosa di più ma a lei non potrebbe interessar di meno; forse lei sogna Big Jim che però nel film non è stato scritturato) la segue e la accompagna.

Attraversano l’interregno con tutti i mezzi disponibili (auto camper bicicletta astronave) e raggiungono la vita reale.

Qui si scontrano subito con le prime ostilità: percorrendo sui roller un viale incontrano degli operai in pausa pranzo che urlano apprezzamenti sul corpo di Barbie.

Lei si ferma a controbattere, dichiarando a gran voce che loro due sono privi dei genitali.

Ad altri importuni più invadenti, che le danno una manata sul culo, lei risponde con uno schiaffo, e vengono presi dalla polizia.

Rilasciati decidono di vestirsi diversamente e prendono dei nuovi abiti (ovviamente rosa) in un negozio; dovrebbero pagarli, ma nel mondo da cui provengono non esistono i soldi; non trovano soluzioni migliori che scappare. E di nuovo la polizia li cattura.

Si accorgono anche che quando bevono da un qualunque bicchiere il liquido che c’è dentro gli si rovescia addosso. Chi ha giocato almeno una volta in vita sua con le bambole troverà godibili i paralleli con la vita reale e con le incongruenze.

Mentre Barbie cerca (e trova) chi le ha fatto ‘il malocchio’, Ken prende coscienza del ruolo dell’uomo nel mondo reale, ben diverso da quello che viene riservato ai maschi a barbieland.

Tenta un riscatto della sua posizione imponendosi come medico (per esercitare la professione, nella sua idea, bastano un camice ed una penna a scatto; gli viene risposto che non funziona esattamente così, ed è una donna, di aspetto mediocre, a dirglielo). Nemmeno come bagnino lo vogliono perché, contrariamente alle apparenze di un fisico prestante, non sa nemmeno nuotare.

Barbie intanto viene intercettata dalla Mattel che vuole rispedirla nel mondo incantato dentro una scatola.

La gigantografia dei suoi polsi vincolati con le fascette bianche al supporto, lo confesso, mi ha instillato una buona dose di inquietudine: mi sono sentita io in trappola per lei, in un fotogramma ho rivissuto una costrizione a cui l’universo femminile viene sottoposto e la liberazione di Barbie è stata catartica.

Scappa Barbie per tornare a Barbieland, assieme alla ragazzina artefice della sventura e alla madre, vera responsabile del tutto; inseguita dal CdA Mattel, tutto al maschile (ma non c’è nemmeno una donna che lavora qui? chiede ad un certo punto la protagonista); anche Ken torna all’ovile, con una nuova consapevolezza.

Attraversano di nuovo l’interregno, cambiando abito per ogni mezzo di trasporto.

Ken, avviluppato in un pellicciotto fashion e molto kitch, è determinato a portare la rivoluzione a barbieland: organizza gli uomini, solleva le donne dai ruoli (mentre qualcuna esclama come è bello non dover decidere niente) e caccia Barbie dalla sua casa, che ora è diventata casa-villa-Mojo-Dojo (niente di cui sorprendersi di questi nomi: nella barbieland che sta dietro la mia cucina abbiamo casa Reshasa, casa Lislie e casa Noddle).

Lancia a Barbie tutto il guardaroba (oltre a possedere casa camper bicicletta ed astronave, barbie ha un sacco di capi di abbigliamento non strettamente necessari) dal secondo piano e costringe la sua (ormai ex) amica a trovarsi un’altra sistemazione.

Barbie stereotipo si trasforma in Barbie depressione e piange e si dispera; qui la struttura del film si rivela in tutta la sua bellezza con una voce fuori campo (quarta parete) che commenta ‘Bisognerà dire alla filmmaker che è poco credibile con un’interprete come Margot Robbie, che vengano recepite frasi come sono un cesso’.

La situazione ritorna sotto controllo, per farla breve, e nel finale Barbie sceglie di andare a vivere nel mondo reale dove, per prima cosa, ha appuntamento con la sua ginecologa.

In sala, durante la proiezione, mancava per un guasto l’aria condizionata e la mia poltrona per un altro guasto non si allungava.

Devo ritornare a vederlo perché un film così va gustato per intero!

(All’uscita c’era un gruppo di ragazzi giovani con la maglietta rosa, troppo carini, forse le nuove generazioni sono più libere da preconcetti.)

Top Gun Maverick – I miei 2 cents

Dicevano che era un gran film; dicevano che aveva effetti speciali; dicevano che Tom Cruise è inossidabile, che a 60 anni è rimasto tale e quale a quello del primo film, quando ne aveva appena 26.

Mi permetto di levarmi dal coro.

Il film, come ogni sequel, fa rimpiangere il primo.
Gli effetti, confermo, ci sono, e sono più o meno l’unico ingrediente.

Tom Cruise ha 35 anni in più. Si vedono, forse non tutti, ma si vedono. Per non farlo sfigurare troppo è stato selezionato un cast di basso profilo, per cui se andate a vedere il film per gustarvi l’occhio lasciate perdere. Vale anche per la componente femminile.

Maverick veste ancora lo stesso giubbotto e gli stessi occhiali a goccia; alla sua età ancora non ha imparato a infilarsi un casco prima di salire in sella a una moto.

La storia d’amore è stata inserita a forza, senza corteggiamento, nè scene di sesso, nè lieto fine. Solo un furtivo incontro guastato dalla presenza dei figli.

Il lessico ha subito, rispetto al primo film, troppa innovazione: quando mai adoperiamo il verbo brieffare per dire ragguagliare?

Anche la colonna sonora è rimasta la stessa, Highway to the Danger Zone, potete leggerlo canticchiando così vi sentirete già al 50% calati nella parte di spettatori.

Unica nota positiva: ho apprezzato la presenza di personaggi femminili (uno a dire il vero, forse una quota rosa) perfettamente integrati nella squadra, senza che si cadesse nei soliti stereotipi per cui a un certo punto ‘la donna non ce la fa’. Si è un po’ superato insomma il concetto che Venusia esce, spara due tette e poi è costretta a battere in ritirata e lasciare correggere il tiro a quel superdotato di missili che è ufo robot.

“Non conta l’aereo signore… conta il pilota!!!”

Arendelle, qual è il tuo segreto?

Realizzato molto bene, ma la storia ahimè un po’ sciappa. Se poi alla poltrona di fianco sta una donna che si sarà alzata all’incirca 250 volte la poesia se ne vola via.

Io mi calo nella finzione, cerco di lasciarmi portare dalla storia ma, interiezione di disappunto a scelta, se la storia è ambientata tra i ghiacci (FROZEN, non a caso) e tutti i personaggi sono vestiti di abiti di tulle, la verosimiglianza fatica a reggere.

Elsa ad un certo punto si sfila anche il vestito per domare il mare, e si leva pure gli stivali. Mi aspettavo di vederla nuotare ma niente da fare: surfa, cavalca, piroetta ma nuotare no, pare brutto.

Poi, una volta attraversato il mare meglio di Mosè, che si era limitato a separare le acque, le tornano ai piedi un paio di calzature: sandali! Sissignori, un paio di sandali quasi inesistenti, che per pattinare sul ghiaccio sono l’ottimale.

Avevo freddo io per lei.

Poi ci stupiamo che i bambini a carnevale, con temperature prossime allo zero, non vogliano coprire il costume con il giubbetto.

Ora che mi sovviene, anche mia nonna mi domandava dove andavo ‘spadina’ quando ad aprile me ne uscivo con la maglia leggera e senza nulla sopra.

Deve essere che sto invecchiando. Ma io ho freddo!

Maleficient 2

Dopo il film di Cenerentola e il film de La bella e la bestia la mia cultura cinematografica sulle principesse prosegue con Maleficent 2, il sequel dello spin off della favola La bella addormentata.

Da che sono diventata madre la mia frequentazione delle sale di proiezione si è convertita da cineforum settimanale a semel in anno licet Space Village, con tanto di pop corn; da Tarantino forever a Disney and Pixar only.

Che poi la fiaba classica non è garanzia di film adatto ai bambini, a volte le scene splatter, o la noia mortale, si camuffano bene anche nei cartoni animati.

Ricordo che durante Inside Out ci sono stati dei buoni quarti d’ora a rischio appisolamento, e che Sofia voleva uscire già a metà del Piccolo principe.

Maleficent pertanto era un rischio, che ho deciso di correre.

Mi sbagliavo: niente di cui temere, almeno sotto l’aspetto scene di paura; quanto a scorrevolezza della storia alcune lacune, ben colmate da effetti speciali e scene movimentate.

In breve Aurora (la bella addormentata) e Filippo decidono di sposarsi, ma le due consuocere attaccano briga ancor prima che finiscano i titoli di testa.

Malefica, galeotto anche il nome, sembra la cattiva; ma è presto chiaro l’equivoco, la perfida Ingrith è la vera strega.

Anche dovendo attribuire l’epiteto di addormentato si capisce presto che quello che dorme più di tutti è Filippo, che non si rende conto di quanto sta accadendo, mentre Aurora sa destreggiarsi bene tra le due donne in guerra.

Nel ruolo di Malefica una smagliante Angelina Jolie che grazie al trucco e al fotoritocco sembra ancora quella di Tomb Raider; nei panni di Ingrith una Michelle Pfeiffer che accusa invece tutti i segni del tempo che la separano dalla Catwoman che è stata.

Il film si rivela una copia del primo, del quale a onor del vero ho solo letto; girone di ritorno a campi invertiti di una partita tra le stesse squadre, creature della brughiera contro umani.

Alla fine il bene trionfa sul male e forse ci sarà un terzo set.

WHO’S BAD?

Quando un film arriva al terzo episodio della serie ha ormai esaurito la sua carica di novità, oppure ha acquisito finalmente maturità e spessore?

Se il filone di un film ha sèguito generalmente è perché il primo ha avuto gran successo ma poi i sequel ne trascinano un po’ il senso, consumandolo dell’originalità che lo ha fatto apprezzare.

Cattivissimo Me 3 è l’eccezione alla regola: avevo visto i primi due episodi parecchio annoiata, risvegliata solo dalla vivacità del giallo dei Minions.

Il terzo episodio, da poco nelle sale, mi ha invece aggradato parecchio.

Restano i Minions, geniali ed originali, disegnati ed animati con sapiente mano.

La storia dei Minions però è un elemento di contorno al film, che si articola su una trama un po’ più strutturata delle precedenti uscite.

Più che ‘Cattivissimo me 3’ andava intitolato ‘I 3 cattivissimi’, perché tanti sono i diabolici personaggi che si contendono lo scettro.

Oltre al solito Gru troviamo Bratt, l’antagonista, e Dru, il fratello gemello di Gru (carramba-che-sorpresa, non sapeva di avere un fratello).

Gli ideatori del film devono aver capito che al cinema i bambini ci vanno accompagnati dai loro genitori, e fatti due conti sulle loro età, hanno servito un revival degli anni ’80 su un piatto d’argento: i nastri magnetici, l’aerobica di Jane Fonda, le Big Babol, le pettinature cotonate, le giacche con le spalline, i disegni animati con i robot antropomorfi guidati da un umano, con la consolle dei comandi dentro la testa (ricordate “ha la mente di Tezuia”?).

Il tutto condito da una base musicale di eccezione: Michael Jackson, Dire Straits, Madonna.

Lo scontro tra anti-eroi è il filone principale; la storia è attualissima nella collocazione temporale, ed è allineata alla tecnologia corrente (dispositivi touch per illustrare i piani di azione, che reagiscono allo swipe in tempi immediati); mentre Bratt ‘vive’ ancora negli anni ’80, le scene ‘dei giorni nostri’ sono accompagnate dalle musiche di Pharrel Williams.

Ad intrecciare la storia dei tre antagonisti, c’è la raffigurazione dei ruoli genitoriali di Gru e Lucy, che sono (non più) cattivi per lavoro ma umanissimi con ‘le ragazze’.

A loro spiegano la realtà, nonostante questo equivalga a disilluderle, a rivelare che Babbo Natale (o l’unicorno) non esiste; le difendono a spada tratta, le salvano dai pericoli, quelli reali e anche quelli immaginari, da bravi genitori apprensivi; si pongono dubbi sulla loro condotta e sui modelli che devono trasmettere; e poi si sciolgono quando si sentono dire ‘ti voglio bene’.

In particolare gli ideatori devono aver capito che ad accompagnare i figli al cinema sono le madri: la vera vincitrice-risolutrice infatti è una donna, così come donna è la nuova mega presidente del comitato anti crimine.

Interessante anche il tema del rapporto tra le tre sorelle, di diverse età, e la forma di protezione / guida che sviluppano dalla più vecchia alla più giovane, sopperendo laddove i genitori non arrivano.

Ma non voglio raccontarvi troppo del film… è bello da vedere!

Baby boss

In una domenica pomeriggio di maggio che sembra novembre: andiamo al cinema? Tramite l’app dello Space Village prenoto online due biglietti, uno per me e uno per Sofia, scegliendo orario e posti a sedere: che comodità non correre più il rischio di arrivare al cinema e non trovare il posto per lo spettacolo prescelto.

La rotellina sullo schermo dello smartphone gira un bel po’ e poi mi avvisa che ‘Timeout – operazione non riuscita’: fiduciosa ripeto immediatamente la procedura e ottengo lo stesso risultato!

Nella lista prenotazioni non risulta nulla, però per scrupolo verifico la casella di posta e trovo il biglietto in formato .pdf con l’orario della prima prenotazione. Tempo qualche minuto e ricevo anche la mail della seconda.

Avevo fatto una prenotazione per 2 e ora mi ritrovo con 4 biglietti in mano; manca circa un’ora all’inizio dello spettacolo; telefono al numero verde ma accettano solo nuove prenotazioni, nessun codice da digitare per le disdette.

Mi avvio per tempo al multisala, sperando che l’operatore dello sportello sia comprensivo e mi possa stornare l’operazione.

Imbocco le scale che scendono in garage per prendere l’auto, seguita da Sofia e… da Viola, che grida entusiasta ‘si va al cinemaaaa’ e imita la sorella maggiore. Il loro papà, già comodamente piazzato sul divano per seguire ogni curva del motomondiale, certo che Viola avrebbe fatto il riposino pomeridiano, si arrende all’evidenza e abbandona le velleità della domenica relax: tutti al cinema!

Il film di animazione racconta, senza una storia troppo strutturata, cosa accade in una famiglia di tre persone quando arriva un fratellino, confrontando la vita della famiglia a tre e a quattro, l’impatto sui genitori e sul figlio maggiore, paragonando l’alternativa ‘figlio unico’ a quella ‘fratelli’.

In cuor mio ritengo che fosse proprio un film adatto ad una visione comunitaria, sono contenta che Viola e Sofia lo abbiano visto insieme.

Viola si è divertita tantissimo, forse è quella che lo ha apprezzato maggiormente: già dai trailer incitava ‘un altro’ a proseguire la proiezione e non ha mai ceduto al sonno, ha seguito dall’inizio alla fine con immutato entusiasmo, anzi verso la fine si è messa in piedi sulla poltrona a ridere.

Anche Sofia ha apprezzato il lungometraggio e credo che abbia anche assorbito il messaggio.

Quando in famiglia arriva un nuovo elemento succede un po’ come quando si aggiunge un uovo all’impasto della torta.

Dapprima è un corpo estraneo, non c’entra nulla, il composto era già coeso, perchè introdurre un nuovo elemento? poi piano piano, mescolando con pazienza come canta Masha, l’ingrediente si amalgama all’impasto e lo migliora, conferendone elasticità e corpo, ed è impensabile di rimuoverlo. Ci si chiede anzi come si facesse prima, e come si potesse essere convinti che se ne poteva fare a meno, tanto è integrata la sua presenza.

L’ingrediente aggiunto per ultimo non è l’ultimo arrivato, è parte integrante del tutto e ha pari dignità con il resto.

A parte il messaggio, tornando al film, mi è discretamente piaciuto, ma l’ho trovato un po’ monotono, privo di trama, piatto. La versione italiana non vanta l’impreziosimento del doppiaggio di Alec Baldwin e la storia (il boss della grande industria di bambini mandato sulla terra sotto forma di infante) mi è sembrata un po’ forzata.

Bei disegni, belle musiche, pochissimo intreccio, qualche gag divertente.

Se sapessero come fanno i bambini non ne vorrebbero mai uno. Lo stesso si può dire per i wuster.


La bella e la bestia

Ho letto due pareri su questo film, in prima visione nelle sale cinematografiche.

Due pareri opposti: uno a uno palla al centro. Sofia vede il trailer e mi chiede di accompagnarla a vederlo: detto fatto.

Sono arrivata a 44 anni senza mai aver letto la storia, nè sentita raccontare, nè visto il cartone animato; sono entrata in sala come una bambina, un foglio di carta bianca su cui scrivere. Della trama sapeva più Sofia di me.

È una fiaba rivoluzionaria: per la prima volta il personaggio femminile, futura principessa, è innanzitutto una persona autonoma, che si arrangia a fare le cose, senza necessità di un uomo che la aiuta.

Predilige la lettura a tutte le altre attività a cui si dedicano, almeno nel film, le ragazze della sua età.

Mentre i panni si lavano in una sorta di lavatrice lei legge e insegna a leggere ad una bambina.

Per queste sue inclinazioni viene vista come ‘quella strana’ e diffidata dal creare proseliti.

Il bello del paese, Gaston, è innamorato di lei. Rettifico: Gaston, che resta il bello del paese, ha individuato in lei la preda; non è innamorato perché non condivide nemmeno una delle passioni di Belle, nè ne coglie le qualità migliori. Ha semplicemente deciso che il suo obiettivo è farsela moglie: un trofeo, un remake di Don Rodrigo con Lucia, anche se Belle non è promessa a nessuno (ma la peste è tema di entrambe le storie).

Belle, contrariamente alle varie Cenerentole che sposerebbero il principe solo per il titolo nobiliare ed eventualmente il bell’aspetto, lo rifiuta.

“Non sono ancora pronta ad avere dei bambini” è un’affermazione avanguardistica! (Lorenzin mi leggi?)

Il personaggio di Gaston è emblematico e ben rappresentato: quanti Gaston conosciamo nella vita di ogni giorno? Quante volte riusciamo a varcare la soglia del bell’aspetto e, aperta la confezione variopinta sentire la puzza di marcio? È difficile.

La mia mamma mi diceva di preferire il cattivo allo stupido, perché il primo una volta a settimana si riposa: nel caso del film il cattivo è anche brutto, mentre lo stupido è bello. Gli elementi si confondono e non è sempre immediata la distinzione.

Belle, la storia è nota, si ritrova prigioniera nel castello della bestia, un principe che un incantesimo ha trasformato in una specie di licantropo 24h.

Belle fa di più che rifiutare il bello che non balla: supera la repulsione per un aspetto sgradevole e apprezza le doti intellettive, la generosità e la sensibilità della bestia, e arriva ad innamorarsene.

In questa storia non è il principe (uomo) che deve baciare Biancaneve, o Aurora, cadute nel sonno profondo (detto fra noi: morte! e anche un po’ sventate per il modo in cui lo hanno fatto); tocca a Belle baciare la bestia (un po’ come il ranocchio che solo dopo un bacio assume nuovamente le sembianze umane).

Biancaneve al risveglio non può fare altro che accettare di sposare il principe, in segno di ringraziamento; mentre Belle non accetta ma chiede, anzi esige, di riportare la bestia in vita, per poter restare con lui (che già è innamorato di lei e ammette di poterla perdere piuttosto che tenerla prigioniera).

Ho riconosciuto altri elementi comuni a diverse fiabe famose: il castello di ghiaccio non è lo stesso in cui è confinata Elsa? Che poi è chiara la metafora ghiaccio = difficoltà a esprimere i sentimenti.

I lupi nel bosco, non erano già in Cappuccetto rosso?

E il castello in cui Belle è segregata, priva della sua libertà, mi ricorda un po’ la torre di Rapunzel, in cui la madre la teneva prigioniera.

Lo specchio che conduce Belle a vedere altrove (che la riporta a Parigi dalla madre) non è fratello dello specchio specchio delle mie brame?

Che poi quando Gaston se lo ruba e lo mostra a tutti per far vedere la bestia col suo aspetto terribile mi ricorda un po’ le dirette Facebook: uno stolto che mostra alla folla qualcosa che sembra inconfutabile. Esibisce la fonte del raccapriccio, commenta, aizza.

Ma questa, della diretta Facebook, è una fiaba moderna.

La gente crede a Gaston: lui è bello quindi ciò che dice è vero. Il sillogismo fa’ acqua da tutte le parti, eppure è tristemente quotidiano.

Un altro personaggio degno di nota è LeTont (lefou in lingua originale, el mona in dialetto veneto). Spalla costante di Gaston, di aspetto meno prestante ma decisamente più elegante nel ragionamento.

Cerca di fare riflettere l’amico sulle sue azioni scellerate, lo conforta, lo calma; alla fine lo asseconda sempre, perché ne è innamorato: ma quale altra storia Disney parla di amore gay? Questa è avanti anni luce!

Alla fine del film (dai non è spoiler, credo di essere l’unica che non conosceva la storia e comunque mi aspettavo il lieto fine) gli oggetti animati, che erano persone prima che l’anatema cadesse sulla bestia, ritornano esseri umani: per me è stato un po’ come aver conosciuto dei personaggi nascosti dietro un avatar (Lumiere, Mrs Bric) che si rivelano a fine film, cosa che oggigiorno accade di frequente con i profili virtuali usati nei vari social; e mi sono stupita perché li avevo immaginati diversi, nell’età e nell’aspetto.

Il mio giudizio complessivo è sicuramente positivo anche se forse non troppo adatto ad un pubblico di bambini.

E comunque io la bestia la preferivo in versione animale, l’umano mi sembra quasi banale.

Ciak si gira!

Ho finalmente avuto un’oretta di tempo vuoto e ho pensato di guardare un film; su Netflix avevo visto scorrere tra i più riprodotti il riquadro di “Sole a catinelle”, di Checco Zalone.
Non conosco molto bene questo comico ma il film è stato girato in parte nel paese in cui abito da alcuni anni, ed ha vinto anche diversi premi della critica.

Un sabato mattina di fine luglio che avevo appena comprato la bicicletta, emblema della mia radicalizzazione nel posto (quando hai la bici diventi stanziale), stavo andando al mercato rionale.

Strade transennate; un uomo mi ferma e mi ostruisce il passaggio: di lì, ovvero davanti alla Forall, non si passa. Il motivo è che stanno girando un film. Guardo intorno alla ricerca di attori, regista, comparse… niente! Costumisti? Niente! Scenografi? Niente! Addetti alle macchine da presa? Niente. Macchine da presa? Niente!

Oh bella… ma che film è? “Cioè – mi spiega il tizio addetto alla guardia – girerANNO il film”. Nel frattempo il passaggio è impedito.

Provo a insistere: si tratta di pochi metri, fa un caldo torrido, non sporco e faccio silenzio, non lo dirò a nessuno… niente da fare, la guardia rimane impassibile, mi tocca fare il giro.

Comprensibile che mi sia rimasta la curiosità: ecco, a distanza di alcuni anni, è stata soddisfatta!

Un film terribile, remake delle commedie all’italiana anni ’70.

Checco Zalone è un mix tra le espressioni demenziali di Franco Franchi e la dialettica disarmante di Ciccio Ingrassia. Un uomo per due attori, come le offerte speciali al supermercato.

Inutile aggiungere che dopo 20 minuti di film dormivo!