L’ablativo insidioso

“Ho perso il pulmino” proclamavo ritornando a casa alle 8,20 con una faccia che più contrita non si può, disponendomi ad incassare la contrarietà di mio papà, che doveva accompagnarmi a scuola entro pochi minuti.

La scuola elementare che frequentavo (lo so, ora si dice primaria, ma io ho fatto le elementari!) si trovava ad un paio di km da casa, in centro a Vicenza, e non era raggiungibile a piedi per una bambina di quell’età, nè per distanza nè per tipologia del traffico.

Esisteva questo servizio aggiuntivo che faceva da taxi.

Il pulmino era un Westfalia, il furgoncino dei ‘figli dei fiori’; non passava davanti a casa ma infondo alla via e io, un giorno si e uno no, lo vedevo che era già passato, con sommo disappunto dei miei genitori.

Anche a me spiaceva perderlo, perché in pulmino ci si divertiva.

Sul pulmino avevo conosciuto altri bambini, scoperto rientranze inimmaginabili del viale principale, conosciuto il cubo di Rubik, cantato le canzoni di Sanremo.

Ogni tanto partiva uno sfottò corale verso una certa Elena – Balelena – faccia da culelena – che non ero io (a me hanno sempre preso in giro per la statura, mai per il peso); me lo ricordo ancora bene, e mi domando se quelli che adesso si scandalizzano tanto per il bullismo davanti alle scuole, a quel tempo vivevano sulla luna.

Ora non abito in città, la scuola primaria che frequenta Sofia si trova a qualche centinaio di metri da casa, è raggiungibile con un percorso poco trafficato.

La causa ambientalista ha sensibilizzato le famiglie un po’ in tutta Italia: anche da noi hanno introdotto il pedibus.

Mia nonna, che non conosceva il latino, usava comunemente e con aria canzonatoria la locuzione pedibus calcantibus per suggerire la passeggiata come mezzo di locomozione.

(Pur non conoscendo il latino diceva PEDIBUS e non PIEDIBUS: lo so che è stata sdoganata anche la seconda forma, ma non si può sentire!)

Le prime volte che ho sentito parlare del pedibus pertanto mi è venuto da sorridere: un nome altisonante e simpatico per indicare una buona abitudine, quella di andare a scuola a piedi e in gruppo.

Sofia si reca a scuola col pedibus da tre anni, e da tre anni Viola sbava alla finestra ammirando la sorella maggiore che si allontana, a volte anche in autonomia, sentendo nominare questo fantomatico pedibus che raccoglie i bambini dietro l’angolo, dove lei non arriva a vedere.

Ha raggiunto un’età in cui cammina senza troppe proteste, così ho pensato di proporle di andare all’asilo (ok scuola materna ok) sfruttando il pedibus.

Entusiasmo.

Esce di casa tutta fiera, attendiamo i bambini al capolinea e partiamo.

Rincorre un po’ sua sorella, arriviamo alla prima fermata in cui si aggiungono gli altri, e ripartiamo tutti in fila sul marciapiede.

Perplessa, vedendo che nulla di strano succede, solo camminiamo tutti uno dietro l’altro, ormai in dirittura d’arrivo mi chiede: “ma … mamma? … il pedibus… dove è?”

“Il pedibus siamo noi” le rispondo lapidaria.

Interdetta mi fissa: ma come?

Capisco dalla sua espressione che si immaginava un mezzo di trasporto concreto, ci è rimasta male.

Siamo abituati ad usare il suffisso -bus quasi unicamente per indicare mezzi collettivi, abbiamo perso il nesso con la sua accezione originale.

Sofia le spiega che pedibus si compone di pedi (piedi) e bus (che io traduco in ‘che ci vai’, una spiegazione dell’ablativo adatta ai bambini).

Ci è rimasta di sasso, come quelli che reclamano la presenza dello stato… e si dimenticano che lo stato… siamo noi!

Parole di Vicenza (e dintorni): sorate!

Quale sistema migliore per ripristinare una situazione di equilibrio? Isolare!

Sorarse significa letteralmente ‘portarsi sopra’ ovvero sora.

L’effetto del portarsi sopra è quello di raffreddarsi, quindi per estensione calmarsi.

“Aspetta che ‘l se sòra”, pronunciato con la O molto aperta, significa ‘aspetta che si raffreddi’ e in genere si riferisce alle pietanze che sono rimaste sul fuoco e sono troppo calde per essere fagocitate.

Molto usato anche dopo una fatica: ‘me sòro un poco’ ovvero mi riprendo, mi raffreddo dalla sudata, mi asciugo.

Io l’ho sempre sentito usare anche per i panni, che vengono stesi a ‘sorarse’.

Da qui deriva un’espressione che a me piace molto che è una sorta di raccomandazione: sòrate! Ovvero calmati: lo si dice a persone agitate invitandole a raffreddarsi, a sbollire.

Mi piace perché non è offensivo, pur assomigliando per assonanza all’esclamazione napoletana con cui ci si riferisce alla sorella dell’interlocutore, alludendo velatamente alla sua facilità di costumi.

Un consiglio estivo ed affettuoso da usare con cautela verso persone troppo irascibili.

Parole di Vicenza (e dintorni): scarpìa

“Chiudete le finestre perché tra poco passano da fuori a levare le scarpìe” ci viene raccomandato in ufficio.

“Eh?”

Il mio collega non ha colto, vuoi perché straniero vuoi perché un po’ sordo.

Ma anche in Italia, anche chi ci sente benissimo, lo sanno tutti di cosa si parla?

Io sono abituata a ripetere le frasi che non capisce, lui al mio fianco e l’altro di fronte a me spesso si parlano in diagonale, senza intendersi, e a me riesce naturale aiutarli a comprendersi, ripetendo le frasi e suggerendone il senso.

Come la scorsa settimana di ritorno dalla vacanza: all’imbarco in aeroporto la donna davanti a me protestava perché le avevano consegnato dei biglietti intestati ad altri nomi, ma quelli del check in non la capivano.

Io non capivo cosa non capivano, fino a che le hanno chiesto ‘speak English?’ e quella è ammutolita. Allora hanno rivolto a me la stessa domanda e poi mi hanno chiesto ‘translate?’.

Ma dicevo: scarpìa.

Alle elementari il maestro ci aveva fatto imparare una filastrocca in dialetto il cui verso conclusivo declamava che qualche parola è più dolce ‘de un baso’: la potenza dell’idioma regionale, alcune parole sono molto più evocative in dialetto che in italiano, ci sono parole più dolci dei baci.

Il maestro ci aveva portato l’esempio di carega, la sedia, cugina della famigerata cadrega con cui Giovanni e Giacomo tentano di smascherare i natali di Aldo.

Anche scarpìa a mio giudizio è un termine più suggestivo dell’omologa ragnatela.

Con una piccola ricerca ho scoperto che ha un etimo aulico, addirittura latino: deriva da carpire, prendere.

La scarpìa infatti non è la semplice ragnatela, quel capolavoro geometrico che il ragno alla mosca gli fa tze-tze.

La scarpìa ha origine da una ragnatela, si trasforma in scarpìa quando il ragno se ne va di casa e non paga più l’IMU: quel filamento appiccicoso e spiralidoso resta lì, a catturare (carpire appunto) la polvere.

I fiocchi di polvere, che dalle mie parti chiamiamo gati (gatti) rimangono intrappolati nella tela, e formano delle specie di tendìne: ecco che cosa è la scarpìa.

Di fatto la ragnatela è più nobile, ma la scarpìa assomiglia quasi ad una creatura mitologica, pur essendo una schifezza a tutti gli effetti.

Etimologia

Orrido deriva dal latino horridus, che proviene da horrere, rizzarsi, riferito ai peli del corpo.

L’ho imparato oggi, dal sito unaparolaalgiorno, che offre un interessante servizio: ogni giorno presenta una parola e ne eviscera il significato, con esempi e citazioni.

Quella di oggi è stata una parola premonitrice, oltre che onomatopeica.

Stasera ho accompagnato al parco giochi le mie piccole; come prima giostra hanno scelto lo scivolo.

Nei loro piani io avrei dovuto fare la sbarra umana, che bloccava la discesa ed alzava il braccio al loro passaggio.

Io invece puntavo la panchina.

Il primo giro si fa alla maniera classica, salendo dalla scala.

Una volta in cima Viola si appresta alla discesa e mi chiama:

“C’è una lucertola”

Pochi giorni fa mi aveva avvisata della presenza delle vespe parlando di ‘zanzara che fa il miele’.

Sofia poco dietro con la tenera supponenza da sorella maggiore la corregge:

“È un topo morto”.

Stuzzicata dal dubbio, lucertola o topo?, abbandono per un istante la velleità panchinara e mi avvicino allo scivolo.

Sulla parte finale, quella in cui la pendenza si rimette orizzontale e addolcisce l’arrivo a terra, giaceva stecchito un piccolo sorcio.

Orrido: mi si sono rizzati tutti i peli e l’ugola ha iniziato a vibrare fortissimo per esprimere tanto ribrezzo.

Parole di VICENZA (e dintorni): Tambarare

Questo verbo ha una forza straordinaria: assomiglia all’italiano tamburare, inteso un po’ come suonare il tamburo.

Tambarare significa armeggiare, cimentarsi in qualche attività di cui chi osserva ignora l’arte, e spesso anche il protagonista del tambaramento procede un po’ alla cieca.

Il bambino che gioca in autonomia ‘è lá che el tambara’; oppure tambariamo con la programmazione dei canali televisivi fino a sintonizzarci con un’emittente locale.

Spesso il tambarare ha effetti collaterali: tambarando con il cellulare abbiamo inavvertitamente cancellato alcuni numeri dalla rubrica oppure portato tutti gli avvisi in lingua swahili.

Quando ero adolescente leggevo Cioè, un giornaletto in cui tra un cantante e l’altro qualche sessuologa rispondeva alle lettere che le lettrici scrivevano alla redazione; in ogni lettera qualcuna confessava di avere praticato ‘petting’: ecco, tambarare puó essere adoperato anche con questa accezione, inteso come attività con caratteristiche di casualità dovute ad imperizia.

Quando vediamo qualcuno tambarare in genere non sappiamo esattamente cosa sta facendo, e spesso non lo sa di preciso nemmeno lui. Per questo chi tambara lascia sempre un alone di perplessità.

Con il tamburare ha in comune un borbottio di sottofondo, una melodia un po’ ritmata un po’ no che si fa fatica a capire se segua uno spartito.

Parole di Vicenza (e dintorni): Molaghe!

Molaghe! è l’imperativo di mollare, inteso come rilasciare, abbandonare la presa.

Certo che se negli episodi di ER sentivamo dire ‘Libera!’ dai medici intenti a praticare la rianimazione, e non ‘Rilascia!’, anche nel caso di Molaghe!, pur avendo lo stesso significato di ‘Rilascia!’, non ne ha la stessa intensità.

Per capire la forza di questa espressione basti pensare a due squadre che si sfidano al tiro alla fune: se di colpo uno dei due gruppi lascia la presa, i componenti del gruppo avversario finiscono tutti con le gambe all’aria.

Molaghe! è l’intimazione al prossimo di terminare istantaneamente un’azione di disturbo alla quale siamo stanchi di far fronte.

Non è un semplice imperativo ‘smettila!’, è molto di più: quando chiediamo al nostro prossimo di sospendere un’azione non ci attendiamo necessariamente una contro reazione da parte nostra; se invece sbottiamo Molaghe! ci aspettiamo di venire sollevati istantaneamente da un disturbo diventato insostenibile.

Molaghe de telefonarme! ad esempio, può essere la supplica di una ragazza stanca delle telefonate del suo ex.

Si usa anche con un oggetto, anziché con un verbo: Molaghe con quel flauto! può esclamare la madre esasperata dai solfeggi del figlio alle prime armi con lo strumento a fiato, agognando un po’ di pace per le orecchie.

Molto spesso l’espressione viene minacciosamente utilizzata senza alcun complemento, perché si dà per sottinteso quale sia il disturbo da cessare.

Molaghe! e basta. Tu sai cosa e perché.

“Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”

Quando andavo alle scuole elementari portavo una cartella dentro cui stavano un quaderno a righe, uno a quadretti, l’astuccio e il diario. Stop!

Semplice no? Elementare direi, Watson.

Oggi le elementari si chiamano primarie, e di elementare hanno perso anche i connotati.

Quaderni a quadretti, a righe, ad anelli; mi raccomando che abbiano i margini; e poi le copertine, ad ogni colore corrisponde una materia; rivestire i libri, etichettare tutto. I pastelli, i pennarelli, a punta fine e a punta grossa. Il diario datato (che sti paraculi dei produttori hanno trovato il sistema per vendere negli anni a seguire i fondi di magazzino). L’album con i fogli per disegnare, le forbici con le punte arrotondate, le scarpe da ginnastica in un sacchetto di stoffa col nome.

I primi giorni di scuola è una corsa all’approvvigionamento, genitori e figli accaniti nelle corsie ‘cancelleria’ dei supermercati e nelle cartolerie: i genitori ad ottimizzare la spesa, i figli a scegliere tra i diari e gli astucci: un delirio, sembra il Toys al 24 dicembre.

Quest’anno alla lista si è aggiunto un elemento: il dizionario della lingua italiana.

Panico: la chat di WhatsApp inizia a fibrillare a poche ore dalla ricezione della lista.

Quale?

Eh sì: di quale dizionario dotare i figli?

In casa non ne abbiamo nemmeno uno, ma i produttori le liste del materiale devono averle avute con largo anticipo perché TOH ecco lì al supermercato una bella torretta ricolma di dizionari, di marca e prezzo variabili.

D’un tratto i pensieri che dovrebbero aiutarmi a scegliere mi risucchiano al mio inizio del liceo: una carriola di materiale da comprare; i miei per contenere la spesa avevano costruito con le loro mani un parallelografo e recuperato dei pennini a china di quelli a serbatoio, non a cartuccia.

Di fatto hanno ucciso sul nascere la mia scarsa propensione per il disegno tecnico, che qualche anno dopo all’università sono riuscita a farmi bocciare all’esame, uno di quegli esami cosiddetti salvanaja in cui prendono tutti 30 senza troppa fatica.

Dodici??? Ho chiesto vedendo il voto. No, che 12… R… RITORNARE! (Non aveva una mano tanto meglio della mia il professore, ma a sostenere l’esame ero io… Non gli pareva vero di bocciare qualcuno e restituire un po’ di dignità a quell’esame che tutti consideravano già fatto).

Vabbè mi sono rifatta un paio di anni dopo, conseguendo al primo appello un bel 28 in Scienza delle Costruzioni, roba che altri studenti impiegavano anni a superare, e alcuni rinunciando abbandonavano l’ateneo.

Ma sto decisamente divagando!

Dicevo che oltre al materiale per il disegno tecnico, all’ingresso al liceo era richiesto anche il vocabolario di latino.

Suggerimento degli insegnanti IL Castiglioni Mariotti, un voluminoso tomo con copertina bianca su cui l’articolo IL campeggiava a piena pagina.

IL Castiglioni-Mariotti costava parecchio, potrei azzardare una cifra intorno alle 80000£, e a casa mia giaceva sonnecchiante un vecchio vocabolario di latino, senza copertina e senza autori illustri. Forse proprio senza autori.

“Quello va benissimo, di certo non ci sono neologismi nel latino, non vediamo che senso abbia spendere tanto quando hai già tutto” avevano sentenziato i miei.

Che è un po’ il filone logico per cui a Natale ricevevo la Tania in luogo della Barbie e il motivo per cui adesso voglio l’iPhone e non l’Huawei.

Obiettivamente neologismi no, ma il motivo per cui IL C-M era così corposo e il mio era tanto snello c’era!

Io l’ho scoperto alla prima versione in classe!

La versione è un compito in cui l’insegnante distribuisce un foglio con un brano da tradurre, tratto da qualche opera generalmente di Cicerone.

Si chiama versione e non traduzione perché il lavoro maggiore non consiste nel tradurre i vocaboli, ma nel ricostruire il senso logico delle frasi, individuando principalmente soggetto e predicato, quindi assegnando un valore logico coerente ai complementi, sostantivi declinati nei casi corrispondenti.

Un esercizio molto più matematico che linguistico, nel quale il pensiero laterale a volte si rivelava fondamentale.

Dove non arrivava il pensiero laterale, arrivava IL C-M: tu cercavi un termine e trovavi tutta la frase già tradotta.

Io invece cercavo un termine e trovavo il suo primo significato.

In questo modo mi sono trovata costretta a girare e rigirare il mio vocabolario vintage come fosse un motore di ricerca, e ad ingegnarmi per fornire un senso compiuto a frasi che apparentemente non ne possedevano alcuno.

Qualche anno dopo, quando mia sorella ha iniziato il liceo, in casa ha fatto ingresso il famigerato IL.

“Quello ormai è distrutto, perde le pagine, ha fatto la sua epoca” avevano ammesso i miei.

Questa considerazione mi è rimbombata mentre dalla torretta dei dizionari avevo preso in mano un Garzanti che costava più del triplo degli altri.

Poi lo userà anche Viola, mi sono sorpresa a pensare. Ma il fatto di avere qualcosa di riciclato è un deterrente per appassionarsi alla materia.

Meglio questo, più facile da utilizzare, con i colori a bordo pagina per individuare di primo acchito la lettera iniziale.

“Il mio primo dizionario” mi pare adatto ad una terza elementare, e il costo contenuto non mi farà rimpiangere di doverne comperare presto un altro.

Scelta fatta.

In fin dei conti avere uno strumento limitato ha affinato la mia capacità di fare ricerche mirate su Google, 30 anni dopo.

Per poi sentirsi dire da Sofia, una volta a casa la sera “Mamma… questo è proprio QUELLO che le maestre hanno consigliato di prendere!”.

Parole di Vicenza (e dintorni): snasare

Rieccoci all’appuntamento assolutamente random con i termini dialettali.

Faccio una premessa: da poco più di un anno seguo il sito UnaParolaAlGiorno che, proprio come da copione, analizza ogni giorno significato ed uso di un vocabolo della lingua italiana.

Alcuni giorni fa è stata la volta di Usmare:

Il significato di ‘usmare’ è semplice: odorare, fiutare. Possiamo però anche dire che si tratta di un fiutare particolarmente intento, animale. 

Aaaahh… SNASARE mi sono subito spiegata.

Snasare è l’azione che si fa col naso, significa letteralmente annusare. Ma non è un’azione semplice di percezione odorosa, è più un’indagine, una ricerca di particolari, è quello che farebbe un cane da tartufo sulle tracce del prezioso tubero.

Si snasa il vasetto di pomodoro per sentire se è andato acido, o i calzini rimasti sul pavimento per capire se sono stati portati.

In senso figurato si snasa una situazione, per capire già a priori che non è vantaggiosa; tipicamente si snasa da distante che ‘c’è del marcio in Danimarca’. 

E il curioso, il ficcanaso, si chiama lo snason.

Parole di Vicenza (e dintorni): la s-c

Dopo il successo di s-ciapo e la pioggia di richieste che ne è conseguita (due sono una pioggia no?), oggi ritorno alla mia rubrica dialettale con un gruppo di vocaboli che contengono la coppia di consonanti s-c.

Abbiamo già citato il mas-cio, detto anche porseo (maiale, porcello).

Non abbiamo però detto che al maschile la parola che porta S-C in principio, pur iniziando con la S regge l’articolo il / un e non lo / uno.

Esempio:
el s-ciopo o un s-ciopo è lo scoppio, anche sineddoche di fucile, attrezzo che emette lo scoppio;

el s-ciantiso è la scintilla; mia nonna chiamava s-ciantisi quelle candeline scoppiettanti che a volte si mettono sulle torte.

L’aggettivo s-ceto deriva da schietto e significa appunto schietto, sincero (‘dighelo s-ceto = diglielo onestamente’); oppure significa puro, non contaminato (vin s-ceto è il vino non allungato con acqua).
La s-cianta è la scheggia; trattandosi di una quantità molto piccola di materiale, la s-cianta si intende anche come una piccola parte di qualcosa; tipicamente è quanto avanza in un piatto di portata (ghi n’è vanzà ‘na s-cianta, chi xe che lo vole? ne è avanzato un pochino, chi lo vuole?); in realtà la s-cianta non è un quantitativo troppo esiguo, perché trova spazio per il diminutivo s-ciantinea, piccola s-cianta.
Dopo il temporale il tempo se s-ciara, cioè si rischiara.
El s-ciocco non è lo sciocco, altrimenti detto stolto, ma lo schiocco (s-cioccare i dei = schioccare le dita; tirare un s-ciocco = essere colpiti da attacco cardiaco, spesso in senso figurato, inteso come non sopportare più la fatica, arrendersi).
Da s-ciocco deriva anche s-cioccarola, che identifica l’organo sessuale femminile, ma di cui non riesco a ricostruire l’etimo.

Parole di Vicenza (e dintorni): s-ciapo 

Mentre percorrevo la statale un nugolo di automobili lente si è immesso da una via laterale, approfittando del fatto che io avessi rallentato in vista di un semaforo rosso.

“Che s-ciapo de machine!” mi sono ritrovata ad esclamare.
S-ciapo si scrive col trattino per non mescolare la S e la C, il loro suono non si deve fondere come nella parola scivolare, non va confuso con il diagrafo italiano SC; il suono delle consonanti deve rimanere distinto, tipico della parlata veneta: anche mas-cio (che significa maiale) si dice così, con la S e la C ben disgiunte.
S-ciapo quindi non è sciapo, non è insipido. S-ciapo è un manipolo, un gruppo, un insieme numeroso.

Un gruppo di belle ragazze che girano assieme è spesso identificato come uno “s-ciapo de fighe”.

Invece un luogo isolato è “fora s-ciapo” (fuori mano) così come è “fora s-ciapo” un elemento che non si uniforma al gruppo.

Fora s-ciapo può anche essere il costo di una vacanza che va oltre il budget.

Il top di gamma di una serie produttiva può essere fora s-ciapo per le nostre tasche e una prestazione sportiva fora s-ciapo per le nostre capacità.

Fora s-ciapo denota comunque un senso di inferiorità.

Da cosa derivi non lo so, ma provo a immaginarlo: senza il prefisso della S privativa, ciapo è indicativo presente di ciapare, acchiappare.

Così lo stormo, il gruppo, essendo entità numerose, non puoi pensare di prenderle: s-ciapo inteso come ‘non ce la faccio a tenerli tutti insieme’; ma mi sa che è tirata per i capelli.