Una vita come tante

Sapevo in parte cosa mi attendeva, anzi proprio perché lo sapevo ho voluto affrontare questa sfida.

Avevo letto numerose recensioni, avevo capito che si trattava di un libro lungo (oltre le 1000 pagine) e ho voluto approfittare delle vacanze estive per affrontare una lettura unica anziché tanti libri di media dimensione.

E poi ero incuriosita dall’immagine di copertina.

Sapevo che il contenuto era sventurato e non farò spoiler raccontando brevemente che si narra di quattro amici legati da sentimenti profondi. Uno di questi, Jude St. Francis, ha avuto un’infanzia tormentata, oltremodo difficile. A causa di ciò assume nel resto della sua esistenza dei comportamenti autolesionistici.
Gli altri tre amici gli vanno, seppur in misura diversa, in soccorso.

La storia copre l’arco delle loro esistenze dai tempi del college in poi, e questo giustificherebbe la mole di pagine.

Avevo già afferrato che si trattava di storie tristi, dure, difficili.

A nessuno di loro manca la disponibilità economica ed è anche fastidioso leggere tanto spreco di possibilità che la vita offre: vero è che i soldi non fanno la felicità ma tanto valeva aggiungerci anche un po’ di povertà a tutte ste sofferenze, visto tanto impegno per inventarsi le sfighe una dietro l’altra.

Temevo a dire il vero un po’ di accanimento, una tendenza a rimestare nel torbido, una serie di pagine per stomaci forti.

Invece mi sono ritrovata di fronte a tanta ripetitività, a storie narrate “dietro a un finestrino”, a lasciar immaginare anziché coinvolgere.

Da un autore mi aspetto che mi prenda e mi conduca anima e corpo dentro la situazione: non dirmi che piove ma portami sotto l’acqua e fammi inzuppare i vestiti, fammi uscire fradicio dalle tue righe, fammi rimpiangere di non avere un ombrello.

Invece tutta una serie di allusioni, di sottintesi, di riferimenti vaghi.
Tante liste di nomi, di giorni della settimana e di mesi che si succedono, di compleanni.
Tanti, tantissimi, giorni del ringraziamento.

Stephen King ha scritto un saggio, intitolato On Writing, nel quale dispensa consigli di scrittura.
Ricordo bene che uno di questi consigli invitava a tagliare le parti in eccesso. Raccontava che durante la stesura di un suo romanzo aveva trascorso delle settimane a scrivere una digressione molto dettagliata su un personaggio. Poi si rese conto che non faceva parte della storia e che anzi era superflua, che la vita di questo personaggio interessava solo a lui. Così la taglió, senza nulla togliere al romanzo.

Avrebbe fatto bene anche Hanna Yanagihara a fare altrettanto.

L’amica geniale

In sintesi: un’opera superba.

Confesso che il primo mio tentativo di fruirne si era arenato in fretta, appena al primo capitolo. La descrizione della telefonata che Rino fa ad Elena, per dire che Lila è scomparsa, non mi era parsa avvincente, per usare un eufemismo, e avevo mollato li.

Tanto che quando in tv e sui social si discuteva sulla rivelazione dell’identità segreta dell’autrice, Elena Ferrante, mi era sembrata una trovata pubblicitaria.

Poi sono approdata agli audiolibri, e ho fatto lo sforzo di rimanere ad ascoltare un po’ oltre.

Col senso di colpa di chi schiva la fatica di leggere (ma che manna dal cielo per chi guida molto durante il giorno, per chi non ha una pausa pranzo con possibilità di sedersi, per chi ha la vista affaticata!) mi sono imposta di ascoltare comunque fino alla fine, anche come esercizio sociale.

Così ho compreso il senso della locuzione wikipediana “la tetralogia si apre con una forte prolessi”: la scomparsa di Lila avverrà ben quattro libri dopo, ed è normale che io non sapessi chi fosse Rino, chi Elena e chi Lila.

I quattro volumi della serie “L’amica geniale” narrano la vita di due amiche, Elena Greco detta Lenù ed Eleonora Cerullo detta Lila.

La voce narrante è quella di Elena, stesso nome che l’autrice usa come pseudonimo; ma poi sarà anche il nome della nipote, e putacaso è anche il mio nome.

La dovizia di particolari profusi nella narrazione impedisce al lettore di rimanere estraneo alle vicende.

Forse complice il nome, con la protagonista parlante mi sentivo un tutt’uno: quante volte mi sono trovata a considerare “ah ma allora non capita solo a me, non è così insolito sentirsi a quel modo”.

Elena è insicura, impacciata, dubbiosa, succube di personalità più marcate della sua; al contempo Elena è determinata, porta avanti le sue scelte fino infondo, nonostante tutto e tutti.

La vera protagonista della saga è però Lila, l’amica geniale, l’alter ego di Elena.

Lila è anticonvenziale, libera dagli schemi, un’esemplare unico. Sa essere feroce e anche enormemente generosa. Un personaggio a cui Elena è legata da un sentimento lungo una vita intera, nonostante gli alti e bassi. Un genere di donna di cui avere rispetto e paura.

Il rapporto tra Lenù e Lila è più intenso di qualunque altro vincolo di amicizia, parentela, amore che si narra nelle vicende.

Dice Elena di un momento trascorso con Lila a lavorare assieme ad una creazione artistica

Sospendemmo il tempo, isolammo lo spazio

definizione perfetta di un momento enucleato dalla realtà contingente, condiviso in maniera plenaria tra due persone.

Attorno a loro, il rione, Napoli, il mare. Ma anche Firenze, Roma, Bologna, Milano, Genova, Torino, Parigi, Boston.

La narrazione parte dall’età prescolare e arriva alla vecchiaia; ovvero inizia nell’immediato dopoguerra e arriva ai giorni nostri.

Gravitano attorno alle due amiche le loro ed altre famiglie, che si intrecciano a doppio filo.

Presto ciascuno dei personaggi assume caratteristiche ben marcate, si concretizza e si anima al punto che non è difficile riconoscere nella propria quotidianità un Marcello Solara, o uno Stefano Carracci.

Per non dire di Giovanni Sarratore, detto Nino, il collante dei quattro tomi, il terzo protagonista.

La finzione (ma sarà poi tale?) collima con la realtà, con i fatti della cronaca degli anni della narrazione: l’esplosione di Chernobyl, il rapimento di Aldo Moro, il terremoto a Napoli, l’attacco alle torri gemelle, le contestazioni del ‘68.

Esiste una sorta di circolarità nei fatti: la zoppia della madre di Elena poi colpisce anche ad Elena; la pazzia di Melina si ripete sul figlio Antonio; Nino disprezza il padre Donato, ma si rivela uguale a lui.

La storia potrebbe continuare con le generazioni successive, tanto è ciclica: il segmento di vita narrato, sembra emergere, è quello del momento, ma si ripeteva uguale prima e si deduce analogo poi.

I personaggi sono poliedrici, si rivelano in diversi aspetti a seconda del contesto e dell’età

In quale disordine vivevamo! Quanti frammenti di noi stessi schizzavano via come se vivere fosse esplodere in schegge

Il linguaggio è una musica: tanto colto quanto semplice, pulito, lineare. Mai piatto, a volte crudo, a volte popolare, sempre adatto al contesto, mai gratuito, mai scontato.

La narrazione procede senza mai confondersi, rispettando tutti i passaggi logici, riprendendo a distanza elementi che apparivano marginali e che invece sono delle pietre miliari (ad esempio il braccialetto che Elena ha avuto dalla madre).

I fatti narrati non sono mai inverosimili, c’è da pensare in effetti che lo pseudonimo sia necessario a mascherare le tracce di una possibile realtà riconoscibile.

La logica della lampara

Sullo sfondo della muntagna ritorna Vanina Guarrasi con un altro caso da risolvere, ma soprattutto ritorna Vanina Guarrasi con il suo essere umana: le vicissitudini personali, un passato remoto a cui rendere giustizia (il padre), un passato prossimo da riconciliare (Paolo Malfitano); le debolezze gastronomiche; le conquiste passate (Alfio) e presenti (Manfredi).

Attorno a lei gravitano gli stessi personaggi conosciuti in ‘Sabbia nera’: Adriano, l’anatomopatologo con cui divide la passione per i film d’essay; Giuli, l’avvocata più trendy di Catania, che costringe Vanina ad una forma minima di vita sociale; Bettina, la vicina di casa che veglia su di lei e non le fa mancare pietanze sfiziose quando rincasa ad orari ormai inutili per preparare una cena.

Nella squadra del vicequestore ritroviamo la bresciana Marta Bonazzoli, che allenta la segretezza sul suo rapporto con Tito Macchia; Lo Faro, la gola profonda che trova spazio per redimersi; il fidato Carmelo Spanò; il povero Nunnari, vittima di un piatto vegano; e l’immancabile Biagio Patanè, in pensione ma sempre pronto ad entrare in azione e fornire elementi chiave per la risoluzione del caso, nonostante i malumori della moglie Angelina.

La logica della lampara è un titolo mutuato al mondo della pesca; il romanzo si apre con la scena di due amici su un peschereccio di notte, ma l’ambiente ittico viene abbandonato già dal secondo capitolo, dove riprendono le colazioni a base di dolcetti e dialoghi catanesi, e le indagini portate avanti in maniera non convenzionale, con il pragmatismo e la coerenza che caratterizzano Vanina.

Sono stata talmente coinvolta dalla lettura che solo arrivata a tre quarti del libro mi sono chiesta il perché del titolo.

Perché forse, ho immaginato, la lampara è la lampada che viene accesa per attirare i pesci, similmente a ciò che nella caccia sono gli specchietti per le allodole; allora, forse, i fatti narrati mirano ad attirare l’attenzione del lettore, ma…

E poche pagine più avanti lo stesso concetto è spiegato più o meno allo stesso modo.

Non mancano le ambientazioni nella splendida Catania, città che porto nel cuore, e le fughe a Palermo, che non è da meno. Ciliegina sulla torta, c’è anche una gita a Roma. Tris di regine.

Ultimamente fatico a trovare letture gradevoli: mi imbatto in romanzi che emergono per la spinta delle case editrici e in romanzi che emergono per recensioni positive inspiegabili (forse di amici).

Ritengo pertanto che un romanzo valido come questo vada segnalato: merita di essere letto perché è scritto bene, ha personaggi ben caratterizzati, racconta una storia avvincente e realistica, descrive paesaggi suggestivi.

Ovviamente sto già aspettando la prossima storia di Vanina!

Chi è stato?

Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.

(Arthur Conan Doyle)

La verità è che la verità non esiste; non esiste più dal momento in cui inizia ad essere ricostruita a posteriori.

La verità è un istante, un puntino, un fotogramma.

Quando la definizione della verità viene affidata ad un tribunale tutti ne escono sconfitti; non a caso verità non fa rima con giustizia.

Avevo già letto alcuni libri dedicati a grandi crimini mai perfettamente risolti: il delitto di Cogne, il delitto di Perugia, il delitto di via Poma.

Forse per questo Amazon ha pensato potesse interessarmi il libro di Vittorio Pezzuto sul caso di Marta Russo.

Ed ha pensato bene.

Il giornalista ripercorre le vicende processuali che sono seguite all’omicidio della studentessa romana; ne esce un racconto corposo e dettagliato, che riporta integralmente alcune parti del processo e degli interrogatori.

Pur essendo minuzioso e voluminoso, il saggio non annoia in nessuna parte.

La lunga lettura è stata avvincente dall’inizio alla fine, lo scritto alterna parti documentali a libere considerazioni dell’autore.

Ad ogni paragrafo mi ritrovavo a scuotere la testa ed esclamare ‘è pazzesco!’.

Che cosa è pazzesco? È pazzesco che io abbia sempre dato per scontato che coloro che erano stati additati come i colpevoli, e che sono stati processati come tali, lo fossero a prescindere dall’esito del processo.

Sostiene Pezzuto, argomentando in maniera esaustiva, che l’indagine abbia risentito della pressione mediatica derivante da precedenti casi irrisolti (Simonetta Cesaroni, Alberica Filo della Torre) e che abbia imboccato una via arbitraria, senza più recedere.

Emerge dall’analisi che potrebbe essere stato Giovanni Scattone l’autore del delitto, nella stessa misura in cui potrei essere stata io.

Il filone del racconto è quello della condanna di due innocenti.

Eppure io non avevo mai nutrito dubbi a riguardo, ma la spettacolarizzazione del caso ha versato il suo contributo prevalentemente sul piatto dei colpevolisti.

A sostegno di ciò vengono riportati i titoli delle testate giornalistiche legati alle fasi processuali che si sono susseguite.

La giustizia italiana ne esce con un ritratto a tinte fosche: sembra che il modus operandi sia partire da un assunto, plasmare i testimoni per confermare le ipotesi, condannare i presunti colpevoli.

Se l’assunto iniziale perde veracità – anche le scienze più esatte hanno abbondanti margini di errore quando si calano nelle condizioni al contorno – bisognerebbe ricominciare tutto da capo.

Invece una volta messa in moto la macchina processuale, l’inerzia è troppo grande per permettere di rivedere posizioni ormai assodate.

La separazione delle carriere dei magistrati, inquirenti e giudicanti, assume un significato nitido.

Come in un romanzo i personaggi vengono ben caratterizzati.

Il mio preferito è il padre di Scattone, ingegnere che per amor del figlio si reinventa leguleio, e rinviene numerosi vizi formali e sostanziali nelle procedure.

Una ricostruzione che mi ha fatto riflettere; all’epoca degli avvenimenti anche io frequentavo gli ultimi anni del corso universitario, ero concentrata sul mio percorso, non avevo approfondito la vicenda e mi ero ‘fidata’ dei giornali.

A distanza di oltre vent’anni, e leggendo il libro, ho provato ad immaginare se un fatto simile avrebbe mai potuto accadere a Padova, e come avrebbe reagito l’ateneo.

Si è tanto discusso dell’omertà de La Sapienza, ma sembra piuttosto, stando alla ricostruzione, che si trattasse più di alienazione dai fatti: quando non si sa è opportuno tacere o pur di dire qualcosa è preferibile assemblare tre ricordi a caso?

Emerge chiaro il peso di una calunnia: se anche l’illazione si rivela infondata, una volta detta una cosa non si riesce più a considerare i fatti a prescindere da tale supposizione.

La storia la scrivono i vincitori: generalizzando viene da chiedersi quanto di tutto quello che ci è stato tramandato sia accaduto proprio così.

Il trucco c’è …

Ho letto molti libri nell’ultimo periodo, ma di tanti solo uno mi ha soddisfatta, gli altri sono stati una (più o meno) gradevole compagnia da ombrellone.

Non si tratta di un romanzo ma di un saggio.

No aspettate, non abbandonate, merita.

Il libro si intitola ‘Il trucco c’è e si vede’ e lo ha scritto una biotecnologa, Beatrice Mautino.

Ancora due cose prima che decidiate che la cosa non vi interessa.

Uno: parla di cosmetici, da non intendersi esclusivamente come rossetti, ombretti o smalti, ma in senso più ampio come prodotti per la cura del corpo: shampoo, creme, dentifrici.

Due: è scritto in modo da essere rivolto a tutti i lettori, non è necessario capirne di scienza per poterlo seguire, ed è anche scritto in maniera gradevole, discorsiva.

Da qui in poi un breve excursus sui contenuti.

Avete mai ricevuto una di quelle mail che diffidano ad utilizzare una serie di shampoo? Quelle che additano i solfati in essi contenuti come il male assoluto?

Avete mai letto post sui social che il dottor taldetali dell’ospedale di culoalmondo dichiara che determinati prodotti (con elenco specifico) che contengono alcuni ingredienti sono da evitare come la peste nera?

Io ricordo che un giorno, nella vita reale, ero in spogliatoio in piscina e mentre mi rivestivo una tizia, mai vista prima e più vista poi, mi ha assalito (verbalmente si intende, ma ci mancava poco che passasse alle mani); vedendo che mi spruzzavo il deodorante sotto le ascelle si è messa a urlare “noooooo non farlo, i deodoranti causano il tumore al seno!!!”.

La cultura del senza imperversa, è diventata una tecnica di marketing; se ci si fa vanto che lo shampoo sia privo di solfati e il deodorante non contenga alluminio, bisogna chiedersi:

1. perché quel componente viene impiegato come ingrediente?

2. perché quel componente è ritenuto nocivo?

3. cosa ci si mette al suo posto?

Scopriremo che i prodotti chiamati ‘naturali’ o ‘bio’ non sono confezionati dal contadino direttamente con i semi di pompelmo, tanto per dirne una, ma che i semi di pompelmo vengono trattati con agenti chimici notoriamente cancerogeni; noi però siamo tutti concentrati sui laurisolfati che forse potrebbero esserlo (cancerogeni si intende) e non ci poniamo il problema della formaldeide.

Io l’ho spiegato male, in maniera succinta, leggendo il libro il concetto è molto più chiaro.

I prodotti per la cura della persona vanno acquistati con uno sguardo alla lista degli ingredienti, sul retro, in piccolo, più che ai claim in grande sul fronte, o sullo scaffale, o sulle riviste patinate.

Impariamo a leggere le informazioni che servono, chè a fornirci quelle superflue ed accattivanti, spesso prive di reale contenuto o di riscontro, ci pensa la grande distribuzione.

La legge è in grado di proteggerci fino ad un certo punto perché ‘riduce’, ‘coadiuvante’, ‘intenso’, ‘clinicamente testato’ sono locuzioni subdole, difficili da regolamentare.

Ci sono ingredienti che sono proibiti per legge, eppure ci sono produttori che ne fanno un vanto, loro non li usano, hanno anche il certificato.

A parte che si tratta di pubblicità ingannevole, ma il certificato credete non abbia un costo? E indovinate un po’ chi lo paga?

Nel libro si parla delle creme solari: quanta ne serve? È vero che ha scadenza? Come si misura la protezione?

Si parla dei cosmetici in senso stretto, e della possibilità di segnalare ogni effetto indesiderato che l’uso può provocare.

E poi: i grandi marchi (Elizabeth Arden, Dior) in cosa differiscono dai più commerciali (Kiko, Deborah)? Sono prodotti diversi o diversa è solo la confezione?

Si parla delle creme anti cellulite: no, non servono a nulla, ve lo confermo.

Ma vi posso raccontare di quella volta che la commessa mi voleva rifilare anche un prodotto coadiuvante, altrimenti la cellulite non si sarebbe sciolta con la sola crema anti cellulite.

Volevo risponderle che io in verità non ce la avevo nemmeno la cellulite, ma mi piace l’effetto liscio che lascia sulle gambe.

Invece ho tagliato corto e le ho detto che lo avevo già a casa.

E i parrucchieri che con fare inquisitorio vi domandano che shampoo usate a casa? Vi è mai capitato? Quello del supermercato? Ommioddio nooo devi provare questo, che generalmente ha il prezzo dell’oro.

E voi (io, l’autrice) vi sentite quasi come se quello shampoo del supermercato lo aveste rubato, o come quando si studiava il Bignami al posto del libro ufficiale e il prof se ne accorgeva.

Bene, dopo aver letto il libro vi sentirete più sereni nel confessare che fate uso di un comunissimo prodotto da scaffale, che non è junk shampoo ma è altrettanto valido dell’oro colato che ci sta per appioppare il parrucchiere.

A questi ed altri interrogativi risponde il libro in maniera esauriente ed intrattenitiva.

Un libro che fa riflettere perché gli stessi meccanismi di ragionamento si possono applicare anche ad altri ambiti, per esempio quello alimentare.

Consigliatissimo.

La signora del giallo

Agatha Christie è l’autrice da cui ho iniziato a leggere i libri per intero.

Alle scuole elementari c’era una specie di biblioteca di classe ma credo di non essere mai andata oltre il primo capitolo delle ‘Piccole donne’ o di ‘Zanna bianca’ o delle ‘Avventure di Tom Sawyer’.

La mia nonna paterna era una accanita lettrice di romanzi gialli e di avventura, ed era la mia pusher.

Prima di partire per le vacanze estive andavo a salutarla e lei mi riforniva di libro adatti alla mia età; così le avventure di Miss Marple e di Hercule Poirot, un poco alla volta, sono entrate tutte nel mio background culturale.

E questi era impossibile non portarli a termine!

Diversi anni più tardi ho visto sullo scaffale della sala ‘Io uccido’ di Giorgio Faletti, e le ho chiesto come fosse, era il best seller del momento.

Mi rispose schifata “prenditelo e portatelo via, fallo sparire, non lo voglio più indietro”.

Insolito da parte sua che conservava gelosamente anche le edizioni economiche in una fornitissima biblioteca personale, e che amava rileggere anche più volte uno stesso libro.

L’ho ascoltata, portandolo via, e l’ho letto.

A me era piaciuto molto, tanto che poi Faletti è rimasto per molti anni il mio autore preferito, soprattutto col suo secondo ‘Niente di vero tranne gli occhi’.

Ma è innegabile che dal punto di vista stilistico è un modo tutto diverso di scrivere i gialli.

Ora a distanza di decenni ho ripreso in mano la Christie, con il suo romanzo più famoso ‘Dieci piccoli indiani’, che misteriosamente non mi era mai stato proposto come lettura.

Il filone del romanzo giallo rimane uno dei miei preferiti, e recentemente avevo individuato un valido prosecutore del genere in Donato Carrisi, salvo decidere di punto in bianco, dopo tre opere lette, di non volerlo più affrontare: più che giallo è un genere horror/splatter.

Ritornando alla Christie, ora mi è chiaro perché lei rimane un’icona di riferimento, una stella polare del romanzo giallo.

I gialli di Agatha Christie non riempiono le pagine di materia cerebrale che schizza dalle orbite, di vermi che sguazzano nella decomposizione dei cadaveri, di lame che affondano negli organi vitali, di colpi di rivoltella sparati davanti a una webcam collegata con il compagno di vita della vittima.

Per Agatha Christie la morte di un personaggio è una semplice operazione algebrica, un -1; le morti si susseguono numerose senza che venga versata una sola goccia di sangue.

Non usa descrizioni truculente per inorridire il lettore e mantenerlo attento: preferisce lasciare rimuginare i personaggi, a crogiolarsi nel dubbio, a ripercorrere le possibili piste, a ricostruire gli scenari da prospettive diverse.

Se l’assassino usa il veleno lei ti dirà come se lo è procurato e come lo ha somministrato, ma non indugia nella dinamica del trapasso che la sostanza provoca.

‘Dieci piccoli indiani’ è la traduzione politically correct di ten little niggers, dieci negretti.

La storia si svolge a Nigger Island, una località vacanziera dove tale U.N. Owen (leggasi unknown, sconosciuto) ha convocato dieci individui, dieci assassini mancati, dieci persone che hanno commesso un delitto solo indirettamente, pertanto sono sfuggite alla giustizia.

Una dopo l’altra queste persone muoiono tutte: per mano di chi?

Ad ogni morte sparisce una delle statuine di porcellana che si trovano nella hall dell’albergo.

Nella camera di ciascuno degli ospiti è appesa una filastrocca che narra come i dieci negretti, uno dopo l’altro, soccombano.

Ad ogni omicidio i superstiti diventano via via più guardinghi e sospettosi, ma è chiaro che non ne rimarrà nessuno (‘… and then there were none’ è infatti uno dei titoli alternativi dell’opera, da cui sono state tratte numerose rappresentazioni teatrali e cinematografiche).

La storia ha i suoi limiti, e alcuni passaggi sono forzati. Ma non è tanto il mistero la trave portante dell’opera, quanto il meccanismo del sospetto che va a cadere sull’uno o sull’altro personaggio, in virtù dei preconcetti.

Perché dovrebbe essere stato il dottore oppure non può essere stata una donna? O viceversa.

Dove sta il confine tra indizio e prova? Esistono persone al di sopra di ogni sospetto, o persone che più probabilmente di altre sono colpevoli? Che ruolo gioca la posizione sociale in questa gerarchia?

Romanzo scritto quasi un secolo fa (1939) che risulta quanto mai attuale.

Due come loro

Più leggo e più mi rendo conto che divento esigente in materia: leggere un libro che non mi piace mi sembra una perdita di tempo, sprecato quando potrei leggere di meglio.

Ma come posso sapere se un libro mi piace? Devo iniziarlo!

Nel caso di ‘Due come loro’ è stato amore a prima riga: al termine della prima pagina avevo già deciso che il libro mi piaceva, tanto, e adesso che l’ho terminato posso confermare che non mi ha deluso, anzi è andato oltre le migliori aspettative.

Shapiro lavora come freelance per due datori di lavoro antitetici: entrambi gli forniscono ogni mese una lista degli aspiranti suicidi, corredata di luogo e data del fatto.

Il suo compito è quello di intervenire e persuadere o dissuadere il tizio dall’estremo gesto.

L’antitesi fra i due mandanti risiede proprio lì: se l’aspirante suicida si salva la missione viene compiuta per Dio; altrimenti punto per il diavolo.

Ecco spiegato chi sono i ‘due’.

Shapiro è entrato nel team perché a sua volta è stato un aspirante suicida, salvato in extremis.

Il problema che lo aveva condotto lì lo ha poi portato a lasciarsi con Viola, la sua ragazza, che ora sta con Pino Moneta.

Sulla lista un bel giorno compare proprio il nome di Moneta.

Shapiro fa precedere ogni suo intervento da un’analisi sulle ragioni che spingono l’individuo all’insano gesto, in modo da agire con cognizione.

Nel caso di Moneta non è del tutto imparziale, perché la sua dipartita significherebbe campo libero con Viola.

Ma davvero la sua mancanza sarebbe sufficiente a riconquistare la ex?

Lo stile è accattivante, il racconto procede come se si stesse guardando un film, ricco di dialoghi e di sceneggiature.

Marsullo è irriverente come John Niven nel romanzo ‘A volte ritorno’ ma il suo racconto è più umano: non è Gesù a tornare sulla terra ma un uomo a conferire ora con il rappresentante del bene, ora con quello del male.

Dio è un tipo che organizza un sacco di feste a tema, a cui partecipa sempre molta gente.

Il diavolo invece è più tipo da cena a due.

Tra i personaggi del romanzo spiccano Melinda, nuova leva da addestrare; e il dottor Poggini, uno psicoterapeuta dall’innovativo metodo ‘Facciamo le cose e intanto parliamo’: perché non sfruttare i momenti di analisi per i lavori di bricolage e le riparazioni domestiche? La vita non aspetta che riflettiamo, ma procede inesorabile.

Mi è capitato di non apprezzare un romanzo quando rilevo troppa presenza di fumo: per me le sigarette andrebbero bandite non solo dai luoghi pubblici, ma anche dai film e dai libri. In questo caso però rendono bene l’idea dell’ansia che tormenta il povero Shap.

Ha commesso un errore molto grave: togliersi la vita può ripararlo?

Tra i vari personaggi che si avvicendano nel tentativo ho sempre riscontrato motivazioni piuttosto deboli; ma probabilmente è così anche nella realtà, perché obiettivamente nessuna ragione è valida.

Il racconto tocca temi molto delicati in un modo assolutamente insolito, senza cadere mai nella retorica e valutando punti di vista alternativi senza esprimere giudizi.

L’ambientazione è Roma, inferno e paradiso al tempo stesso; a seguito di un incidente, descritto magistralmente in uno dei capitoli, Shapiro non guida più l’auto e si sposta esclusivamente in bicicletta, inseguimenti compresi.

Un romanzo intenso e leggero al tempo stesso, che si può leggere per sorridere e poi ci si ritrova ad inciampare su considerazioni profonde, dubbi esistenziali, domande interiori.

Una disamina sul bene e sul male condotta in una narrazione quotidiana surreale al punto giusto: come professa il dottor Poggini, intanto che si fanno le cose si parla; e intanto che si legge si riflette.

Le assaggiatrici

Immagino un po’ il rammarico di Rosella Postorino quando ha scoperto che la donna che voleva intervistare non c’era più.

La donna che voleva intervistare si chiamava Margot Wölk e nel 2013 aveva rivelato alla stampa tedesca il suo segreto, di avere lavorato per il Führer.

La notizia, molto particolare, era stata ripresa anche dalla stampa italiana ed aveva incuriosito la scrittrice.

Purtroppo il tempo non ha giocato a suo favore e la Postorino è stata costretta a lavorare di fantasia ricostruendo una storia attorno all’esistenza reale di un gruppo di assaggiatrici, donne con la missione di pre-gustare le pietanze servite ad Hitler, che viveva nella fobia di essere avvelenato.

Immagino il suo rammarico dico, perché appena dopo aver letto la prima pagina del libro ho iniziato a ripensare alle mie nonne e a quei racconti del tempo della guerra, ai quali prestavo orecchio dissimulando noia e che invece avrei fatto meglio ad ascoltare.

Me ne ricordo uno in particolare: la nonna materna raccontava che nell’estate del ‘44, a pochi giorni dal termine della sua prima gravidanza, con un pancione così, riceveva la visita di due soldati fascisti sulle tracce di un partigiano, e le puntavano contro i fucili, contro il suo pancione così.

Del suo racconto conservo il dettaglio del sudore: sudava per la canicola, sudava per la gravidanza, sudava per la paura.

Quell’episodio l’aveva segnata, per quel fatto giustificava ogni comportamento di suo figlio, mio zio, nato ‘in tempo de guera’.

Il ritardo nella ricerca a mio avviso è stato provvidenziale: non potendo intervistare Margot Wölk l’autrice ha dato vita a personaggi inventati e reso un quadro molto suggestivo delle vicende.

Margot Wölk diventa Rosa Sauer (forse alter ego di Rosella, nome di battesimo della Postorino) e narra in prima persona ciò che ha vissuto: come ha lasciato Berlino per arrivare al confine con la Polonia, come ha perso i genitori, come è stata arruolata per la missione di assaggiatrice, e come l’ha svolta.

Oltre alla descrizione delle attività quotidiane il romanzo si dipana nel racconto di molti altri aspetti: il rapporto con il cibo, i legami di amicizia, i soprusi, la vita che va oltre la guerra.

Lo stile è fluente, pur essendo ricco di dettagli nelle descrizioni, molto realistiche.

Il racconto passa dai pensieri alla realtà, dalle ipotesi al concreto, dal passato al presente e rende il lettore compartecipe delle situazioni.

Molte le riflessioni che la lettura mi ha indotto: l’ambivalenza del cibo, nutrimento ma possibile veleno mortale; l’ambivalenza dell’atto sessuale, fonte di senso di colpa quando avviene al di fuori degli schemi e pulsione vitale al tempo stesso; la rivoluzione che è stata introdotta nella società dall’uso dei contraccettivi; i meccanismi dell’odio e della prevaricazione che nonostante sia trascorso quasi un secolo non hanno subito mutazioni; i rapporti di amicizia al femminile, così controversi e così intensi.

La figura di Hitler c’è ma non si vede: nonostante venga descritto da lontano, avvolto da un alone di mistero, che nemmeno le SS arrivano tutte ad incontrarlo, alla fine anche lui è un tubo digerente; quando ingoierà quegli stessi succulenti piatti preparati da Briciola, il cuoco, se mangia gli asparagi la sua urina avrà lo stesso odore caratteristico di chi il piatto l’ha mangiato un’ora prima di lui.

Nessuna indulgenza nei suoi confronti: viene descritto come un pazzo, un maniaco ossessivo compulsivo, uno che, al di là delle crudeltà della guerra, manda i suoi soldati a ripopolare il bosco di rane, dopo che erano state uccise assieme alle zanzare, perché senza il loro canto non riesce ad addormentarsi.

Rosa ha anche un marito, Gregor; avrebbe un marito, perché lui l’ha lasciata con i suoceri ad attenderlo, mentre andava al fronte a combattere; aveva un marito, perché dal fronte viene annunciato come disperso. Avrà un marito, ma… non voglio anticipare troppo i contenuti e guastare la lettura.

Rosa ha un amante, se lo si può considerare tale in contumacia del marito.

Un amante che forse non la ama, o a cui non è concesso di amarla, ma che, non sappiamo a costo di quali rischi, le salva la vita.

L’autrice descrive l’uno e l’altro rapporto senza retorica nè luoghi comuni, rendendo perfettamente il dilemma nel lettore.

Viene affrontato il tema della maternità, della procreazione consapevole e responsabile, e anche di quella fortuita.

Il gruppo di donne, inizialmente estranee l’una all’altra, e per alcuni aspetti in contrasto tra loro, a poco a poco diventa un nucleo di amiche, seppure con affinità distinte.

Sul pulmino che le conduce al lavoro sembra di sedere accanto ora a Ulla, ora a Beate, ad Heike, a Leni, ad Elfriede e ad Augustine; come se la loro cattività costringesse anche noi ad approfondirne la conoscenza.

Le assaggiatrici non sono tutte convinte della bontà delle idee del Fuhrer: solo un paio di loro sostengono la causa tedesca.

I capitoli conclusivi del romanzo sono magistrali: su un treno che, come quello di de Gregori, non fa più fermate neanche per pisciare, Rosa ancora una volta si trova a stringere nuove amicizie, a condividere i suoi viveri, a consolare un pianto. Fino ad arrivare a casa, fondendo passato e presente in modo superlativo.

Pur descrivendo fatti accaduti quasi un secolo fa, alcuni di essi mi hanno richiamato potenti analogie con episodi di cronaca attuali, come lo stupro nei casi in cui viene sollevato il dubbio di un possibile consenso da parte della vittima; o come la condizione dei migranti.

Al contrario di un altro romanzo che racconta vicende accadute nello stesso periodo storico, e che non sono mai riuscita a terminare (‘La banalità del male’), ho divorato questo in pochi giorni: ha saputo raccontare la guerra in tutta la sua crudeltà senza creare orrore e raccapriccio, appigliandosi a ciò che di positivo vive sopito nel corso del conflitto.

Nella caserma di Krausendorf rischiavamo di morire ogni giorno – ma non più di chiunque sia vivo. Su questo aveva ragione mia madre, pensavo mentre il radicchio mi croccava tra i denti, e il cavolfiore impregnava le pareti del suo odore domestico, rassicurante.

L’uomo del labirinto

Sono consapevole di non scrivere delle vere e proprie recensioni, perché non seguo lo schema classico, anche se per semplicità le identifico così.

Evito di raccontare la trama, per non spoilerare e perché è inutile: di riassunti il web è già sovraffollato.

Dopo che ho letto un libro, o visto un film, o più in generale uno spettacolo (una rappresentazione teatrale, una mostra, un evento, una fiera) mi limito ad esporre le mie personalissime considerazioni.

In questo caso mi discosto dal cliché: questa non è la presentazione delle mie opinioni ma una richiesta di confronto, un grido di aiuto, SOS spiegatemelo.

Io non ho capito.

E non mi vergogno a ripeterlo.

Io non ho capito.

Solo per le prime tre pagine la storia si presenta piatta e banale. Poi si viene letteralmente risucchiati in un vortice di eventi, scaraventati verso destinazioni imprecisate come i bastoni ai cani da riporto, travolti dalle vicende di numerosi personaggi completamente estranei l’uno all’altro.

Come ne ‘La ragazza della nebbia’ i personaggi hanno nomi ibridi, in cui o il nome proprio o il cognome sono stranieri; come ne ‘La ragazza della nebbia’ la località in cui si svolgono i fatti è imprecisata; come ne ‘La ragazza della nebbia’ il protagonista è un anticonformista, le indagini vengono svolte in maniera informale e parallela alla polizia; come ne ‘La ragazza della nebbia’ i fatti si svolgono in condizioni climatiche estreme, là la nebbia, qui il caldo torrido.

Fine delle analogie.

Si perché se ne ‘La ragazza della nebbia’ forse c’era stato un omicidio, di fatto si sapeva che una ragazza era scomparsa, e solo alla fine si sono appresi alcuni dettagli macabri, detti in punta di penna, ne ‘L’uomo del labirinto’ Carrisi non ci va così leggero.

Il raccapriccio permea già i primi capitoli, i morti si susseguono come le tessere del big domino rally, frequenti i passi in cui si rimesta nel torbido.

Se per la regia de ‘La ragazza della nebbia’ Carrisi aveva pensato a Steven Spielberg io qui ci vedrei bene Quentin Tarantino.

Prendendolo come un genere splatter per non farmi impressionare troppo, ho divorato una pagina dopo l’altra, seguendo con attenzione ed interesse le vicende, svegliandomi anche la notte col desiderio di proseguire la lettura.

La storia presenta alcune analogie con un grande classico, Alice nel paese delle meraviglie: potrebbe esserne la rivisitazione in chiave horror.

I brevi capitoli si alternano in un ritmo serrato, dalla narrazione fluida: un colpo al cerchio (l’introspezione della vittima) e uno alla botte (il confronto tra il detective Genko e i vari personaggi che dovrebbero condurre a Bunny), come uno spettacolo pirotecnico in cui si eleva o si abbassa il tiro per non sovrapporsi al fumo che si va dissolvendo dal precedente scoppio.

Il romanzo non è solo un thriller, così come non lo era il precedente, ma si sofferma anche su un tema importante ed attuale: il senso della vita e l’attaccamento ad essa quando vengono meno i presupposti della qualità.

Fino all’80% dell’avanzamento dello scritto è da dieci e lode.

E poi? Poi non si può dire che lo stile sia variato. Ma io ho perso il filo: tutti quei personaggi hanno trovato, nel giro di poche pagine, una loro collocazione.

Alcuni aspetti hanno assunto una luce che anche il lettore più sgamato non avrebbe potuto immaginare.

Io sono rimasta spiazzata e con molti interrogativi, allo stesso modo di quando ho terminato la visione di Vanilla Sky.

Cerco qualcuno con cui confrontarmi!

La ragazza nella nebbia

“Hai letto ‘La ragazza nella nebbia’?” mi chiede un’amica una sera a cena.

No.

Mi suggerisce questo thriller che ha, dice, dei risvolti interessanti per come tratta il tema delle indagini.

Lo inizio stancamente, senza capire molto, come se nella nebbia mi ci sentissi io; lo continuo perché a questo punto sono un po’ la protagonista.

Lo stile è scorrevole, ma la storia complicata: continui andirivieni nel tempo, fatti accaduti prima e dopo del giorno X, personaggi non troppo distinti, avvolti anch’essi nella nebbia.

Senza capire nemmeno cosa esattamente è accaduto.

Nel momento in cui sono stata abbastanza coinvolta ho iniziato a vedere le locandine del film tratto dal romanzo, in prima visione nelle sale cinematografiche.

Ho dato un’accelerata: volevo finirlo prima che qualcuno me lo raccontasse.

Il mio interesse è diventato travolgente, tanto che alla fine temo di averlo letto troppo in fretta.

Non voglio rivelare i dettagli, dirò solo che è un giallo in cui si narra di Anna Lou Kastner, un’adolescente con uno stile di vita morigerato, che non fa ritorno a casa; e delle indagini per individuare il colpevole della sua scomparsa.

Quanto frutta un delitto? Quale indotto genera un crimine?

Avveniva un crimine ogni 7 secondi. Tuttavia, solo ad un’infinitesima parte di essi venivano dedicati articoli di giornali, servizi nei notiziari, intere e seguitissime puntate di talk show.

In questi casi fortunati i mass media giocano un ruolo chiave nello svolgimento delle inchieste, perché pilotano l’opinione pubblica e di conseguenza le risorse che l’amministrazione sceglie di destinare alle indagini.

Basta una piccola azione per scatenare fenomeni di emulazione di massa, agli stessi a cui sembrava non importare nulla del caso in pochissimo si trasformano in protagonisti.

Un mastodontico seguito si muove: troupes televisive, giornalisti, avvocati, squadre scientifiche. I ristoratori locali, sull’orlo della chiusura, vivono una nuova affluenza.

La popolazione si ritrova sul palcoscenico di un teatro che può trasformarsi in un vero e proprio trampolino di lancio per una inaspettata popolarità.

Quanto pesa l’immagine dei testimoni nella loro credibilità? Esiste un giusto indennizzo per un innocente ritenuto colpevole? Quella che emerge in ultima analisi è comunque la verità o un compromesso legato alle facoltà di difesa del singolo?

A queste ed altre simili questioni tenta di dare una risposta l’autore, perdendo talora di vista la fluidità e la coerenza della narrazione.

Ho letto molte recensioni che celebrano il finale, ritenendolo un capolavoro di inventiva e straordinarietà; alcuni invece si definiscono scettici, giudicandolo affrettato.

Io ritengo che sì, sia un po’ forzato ma sicuramente sbalorditivo; ma reputo anche che la forza della narrazione non risieda tanto nelle vicende, nel mero susseguirsi dei fatti: secondo me gli accadimenti sono un pretesto per indurre il lettore a riflettere su altri temi.

Noi tutti facciamo parte, nella realtà quotidiana, dell’opinione pubblica: noi tutti leggiamo i giornali, navighiamo sul web, guardiamo la tv. Davanti ad episodi di cronaca, non avendo elementi diretti, giudichiamo in base a ciò che ci viene riferito.

Siamo sicuri che quanto ci perviene sia la verità? E qualora lo fosse, ci rendiamo conto che la stessa può venirci presentata distorta da filtri e viziata da inerzie che la trascinano in direzioni fuorvianti?

Nel racconto ho riscontrato possibili riferimenti a fatti di cronaca realmente accaduti, per certi versi poteva adattarsi a casi famosi: UnaBomber, il delitto di Cogne, o quello della val Brembana.

Cosa sappiamo in realtà oltre a quello che ci è stato riferito? Eppure ci siamo fatti delle opinioni a riguardo, dentro di noi abbiamo maturato giudizi di parte.

E se le cose fossero andate diversamente, o magari proprio così ma con retroscena di cui restiamo all’oscuro?

Siamo tutti vittime e carnefici.

Lo cantava Umberto Tozzi e deve averlo ripreso Donato Carrisi per scrivere questo libro.