SI o NO?

Non capisco perché in molti si sentano in dovere di esprimere la loro preferenza pubblicamente, specie quando nessuno gliela ha chiesta.

Il voto, diceva mia nonna, è segreto. Poco importa se l’aggettivo è da intendersi in maniera possibilista, ovvero segreto perché non sei tenuto a dirlo.

Lei lo interpretava in maniera perentoria: il voto è segreto quindi non lo devi dire a nessuno.

Ognuno ha le sue valide ragioni per la scelta per cui opta, a mio avviso non c’è un completamente giusto o un assolutamente sbagliato.

Così per tutte le situazioni.

E io provo gran soddisfazione quando pongo una stessa domanda a due diversi interlocutori, uno di fronte all’altro, esprimendo un mio dubbio su un fatto oggettivo: mi piace quando entrambi, guardandomi con malcelata insofferenza per l’ovvietà della risposta a cui sono costretti, in coro e guardandosi in faccia scandiscono uno SI e l’altro NO.

Mi gusto lo spettacolo della sicumera dell’uno che prende la rincorsa e salta pogando contro la sicumera dell’altro, per ritrovarsi poi a terra, esattamente nello stesso punto in cui era rimasto, incolume, il mio dubbio.

Happy Birthday *

Frequentavo la quinta classe elementare e nuotavo nelle fila della squadra pre-agonistica; al termine del mio turno in piscina lasciavamo spazio alla squadra dei forti, la squadra dell’agonistica.
Tra i piccoli atleti che vi facevano parte spiccava una bambina dai capelli biondissimi, gli occhi verdi e la carnagione ambrata; indossava un costumino a stelle e strisce e si comportava da leader naturale dell’intero gruppo.
Guardavo con ammirazione quei forti e tra di loro lei catalizzava la mia attenzione.

Quello stesso inverno mia mamma mi aveva accompagnato in occasione della festività della befana ad un evento organizzato dall’amministrazione scolastica provinciale, e lì l’avevo ritrovata al di fuori del piano vasca.
La festa ovviamente era a carattere ludico e prevedeva la partecipazione dei bambini, divisi per fasce di età; in base al risultato del gioco a cui si prendeva parte si veniva premiati con una calza di caramelle o con qualche riconoscimento più consistente: una bambola, un’automobilina, un libro.
L’evento si svolgeva nell’aula magna dell’ITIS; i presentatori dal palco chiamavano i partecipanti a salire. Quando era toccato a quelli della mia età ero corsa e mi ero arrampicata, lacerando le calze collant che avevo indossato per quell’occasione di festa.
Era un abbigliamento insolito per me, e infatti non mi ci trovavo per niente a mio agio, per nulla pratico, sicuramente inadatto ad arrampicarsi.
Gli animatori ci avevano proposto di risolvere il gioco del 15 nel minor tempo possibile; ho detto gioco del 15 perché è il nome con cui i più conoscono questo gioco: una cartellina di plastica contenente 15 tesserine quadrate numerate da 1 a 15, colorate di bianco e rosso, scorrevoli tra di loro con un unico posto vacante. Il contenitore è quadrato e prevede 16 posizioni (4 x 4) ma una è lasciata vuota: l’obiettivo è quello di allineare gli elementi in modo che le tessere adiacenti si possano leggere in maniera progressiva.
La particolare versione che ci era stata assegnata però prevedeva una dimensione doppia, quindi sarebbe più corretto chiamarlo gioco del 31.

Ad ogni modo una volta avviato il cronometro, vuoi perché ero allenata che quel gioco in versione base lo giocavo spesso a casa, vuoi per la vergogna di trovarmi sul palco con le calze lacerate e la fretta di ridiscendere, vuoi per la smania di ottenere il primo premio, ero riuscita a comporre la sequenza nel minor tempo tra tutti i partecipanti.
Avevo alzato le mani ed ero corsa verso l’adulto che coordinava la gara ed avevo esibito la prova della mia abilità; a seguire dopo alcuni istanti erano arrivati altri che portavano anche essi la loro riuscita.
Tra questi ne spiccava una: quella bambina bionda, che però non si limitava a consegnare la tessera di plastica. Era contrariata e gridava che no, non era giusto, io non potevo partecipare, non potevo avere vinto perché io ero sicuramente più grande (lo deduceva dalla mia alta statura) e quindi non potevo essere lì con i bambini di quinta elementare. Il premio quindi secondo lei non spettava di certo a me.

Non era certo l’inizio canonico di una solida amicizia: mi stava facendo vergognare di essere lì e non ho ricordo di aver ritirato proprio nessun premio, ma di essere scappata via.
Qualche mese più tardi, a giugno, la scuola era giunta al termine e con il conseguimento della licenza elementare si era chiuso il primo ciclo della scuola dell’obbligo. Anche la pre-agonistica nuotava tutti i giorni come l’agonistica, non si limitava più ai tre pomeriggi settimanali; grazie alle temperature più calde e al tempo libero al mattino, le due squadre trovavano spazio per nuotare parallelamente.
Era stato in quelle circostanze che l’allenatore si era accorto, probabilmente, che il divario tra il mio livello di abilità natatoria e il successivo non era così profondo; c’erano state anche delle garette organizzate internamente, a livello sociale, alle quali avevo partecipato e disputato tempi oggettivamente in linea con quelli attesi.

Così il mio passaggio all’agonistica; ero entusiasta, mi sentivo promossa, con un’accezione reale del termine, non quella scontata che si attribuisce ad un bambino che supera le classi della scuola elementare.
Andavo a nuotare piena di zelo; in quel periodo si stavano tenendo le olimpiadi di Los Angeles, Olimpic fever cantava la sigla televisiva, e infervorata, allo stesso modo, mi sentivo anche io.

Così l’inizio della nostra amicizia: attendevo nell’atrio dell’impianto che arrivasse quella ragazzina accompagnata da sua mamma a bordo di una Fiat 126 verde e finchè aspettavamo l’allenatore con l’auto targata Treviso, spesso in ritardo, avevamo iniziato a trascorrere parecchio tempo insieme: chiacchierando tantissimo prima dell’inizio degli allenamenti, di tutti quegli argomenti di cui possono parlare due ragazzine che frequentano le scuole medie; facendo capriole ed acrobazie attorno ai pali che delimitavano il parcheggio antistante, quando non pioveva e il clima lo permetteva; facendo commarò con la segretaria nei giorni più freddi.

Per me non era solo l’inizio di un’amicizia ma era la nascita della mia prima vera amicizia, la prima delle grandi amicizie nate sotto l’egida del nuoto e dell’ambiente natatorio.

L’appartenenza alla squadra agonistica prevedeva la partecipazione alle gare che si disputavano alla domenica nelle città limitrofe: ad accompagnarci erano, a turno, i nostri genitori.
Noi salivamo sul sedile posteriore dell’automobile e parlavamo ininterrottamente tra di noi, da quando si chiudeva la portiera e si partiva fino a quando il motore si arrestava e noi scendevamo. Mio papà si scocciava di questa modalità, diceva che lui non faceva il tassinaro e che io avrei dovuto salire davanti e non lasciarlo lì da solo.
Per la verità le gare non si disputavano solo nelle città limitrofe, quelle erano le gare zonali, alle quali entrambe partecipavamo; lei era più forte e partecipava anche a manifestazioni di livello superiore: quando era andata al meeting internazionale di Trento era uscito un articolo sul giornale locale che la presentava come ‘la punta di diamante della società’.

Facevamo stili diversi, lei la rana io lo stile libero, pertanto non capitava mai che ci incontrassimo nella stessa specialità, tranne che ai Giochi della Gioventù organizzati a livello scolastico, dove tutti gli agonisti erano ridotti a competere sulla distanza ‘trasversale’ dei 200 metri misti, e dove lei mi soffiava sempre il primo posto a livello provinciale.

Non faceva un mistero di questa sua superiorità, anzi la rimarcava quando poteva: alle finali regionali di categoria juniores, per le quali mi ero classificata anche io, aveva puntato il dito verso Cristina Chiuso, quella che poi sarebbe diventata una delle compagne di staffetta di Federica Pellegrini, facendomi notare ‘lei sì che va forte, non tu’.
Aveva lasciato cadere lì questa frase appena fatto ingresso nell’impianto, ancora vestite; io ci avevo rimuginato su per tutta la fase preparatoria; poi quando era giunto il momento di concentrarsi veramente,  ero rimasta sul blocco allo sparo del via dei  50 m stile libero, ad osservare quanto forte andava in effetti, lei e tutte le altre; poi dopo alcuni metri delle avversarie e secondi preziosi miei avevo realizzato che da quel blocco si dava il caso che mi dovessi tuffare anche io, e magari contemporaneamente a loro.

Da questo episodio avevo capito comunque che era sincera con me, e mi diceva esattamente quello che pensava.

Il tempo che trascorrevamo insieme era sempre di più; crescendo avevamo iniziato a raggiungere la piscina in bicicletta. Abitavamo nella stessa area della città, anche se non proprio nello stesso quartiere, lei passava per casa mia a prendermi e facevamo tutta la strada insieme, chiacchierando di tutto e di tutti, interrogandoci sugli argomenti più svariati; una mattina di giugno avevamo sogghignato vedendo un nostro compagno di squadra arrivare con un paio di shorts rosa, ‘come sei sexy’ avevamo commentato ridacchiando, tenendo la e un po’ aperta, che sembrava quasi una a; lui per tutta risposta aveva bofonchiato ‘sì… saxi …e giara!’.
Avevamo trascorso tutto quel mese e anche il successivo a elucubrare su cosa potesse significare.
(Qualche mese più tardi ci aveva rivelato l’arcano: era una locuzione dialettale per dire sassi e ghiaia.
Peccato, le nostre interpretazioni erano di gran lunga più divertenti!)

Lo sport occasionalmente ci portava anche in trasferta, e noi condividevamo sempre la stessa stanza ma con noi due in camera c’era sempre anche qualche altra persona.
Una volta era Stefania, una ragazza più giovane di noi che ci avevano ‘affidato’ e che noi avevamo calato dal poggiolo con l’aiuto di lenzuola annodate tra loro; a metà della nostra impresa uno degli accompagnatori aveva bussato alla nostra porta e noi spaventate avevamo mollato la presa, lasciando Stefania schiantarsi al suolo (non si trattava di un vero e proprio primo piano ma di un semplice piano rialzato). Da questo episodio l’avevamo soprannominata ‘la bistecca’.

Un’altra volta avevamo una domanda scabrosa da porre alla nostra compagna di stanza di turno e avevamo costruito tutto un preambolo al quesito in cui le parole si alternavano pronunciate una da lei e una da me: avevamo impiegato almeno un’ora per ripetere quella recitazione e ci scappava da ridere ad ogni tentativo.

Un’altra volta ancora, lei si era assentata per intrufolarsi nella stanza vicina. La nostra sorvegliante aveva fatto irruzione in camera e non trovandola mi aveva chiesto dove fosse. Con una faccia di culo impassibile avevo risposto che non lo sapevo proprio, strano, credevo fosse in bagno, e intanto ero uscita nel terrazzo, fingendo di cercarla, in realtà a darle un segnale che doveva rientrare.

Durante una sorta di mini vacanza con tutta la squadra nella vicina (ora ex) Jugoslavia avevamo fatto dell’album Blues di Zucchero il nostro leit motiv; in particolare avevamo riarrangiato la canzone ‘Con le mani’ e ad ogni ora si sentiva riecheggiare una di noi che intonava ‘con le mani sbucci le cipolle’ e l’altra che le faceva coro uacciucciù.

Dalle medie eravamo passate alle superiori; l’impegno natatorio iniziava a scemare ma la nostra amicizia continuava uguale. Pur essendoci iscritte in due istituti diversi, io conoscevo tutti i suoi compagni e lei i miei. Le nostre conversazioni arricchivano un database di informazioni che a confronto la CIA o il KGB sono dei dilettanti.

Ci frequentavamo anche al di fuori della piscina, io conoscevo la sua famiglia e lei la mia; era venuta anche lei quando mia mamma aveva accompagnato me e mia cugina al concerto di George Michael all’Arena di Verona. ‘Se vuoi porta anche un’amica’ mi aveva detto, e io lo avevo proposto a lei. Diversi anni più tardi sarò io a ritrovarmi inclusa in un suo pranzo di famiglia al mare.
Anche se poi il cantante degli Wham aveva annullato l’esibizione per un mal di gola, per me era stato comunque un pomeriggio memorabile.

Alla domenica anziché andare alle gare avevamo iniziato a frequentare una discoteca che si trovava a poche centinaia di metri da dove lei abitava; allora ero io a raggiungere la sua casa in bicicletta per recarci insieme al Blondie, rigorosamente a piedi perché non faceva proprio IN che due giovani donne arrivassero su due ruote, nemmeno motorizzate, in un locale. Poi le due ruote motorizzate le avrebbe fatte sue, prendendo la patente della moto qualche anno più tardi.

La vita trascorre, le nostre strade si diversificano ulteriormente. Entrambe abbandoniamo il nuoto ed è lei che mi convince ad inserirmi nella locale squadra di pallanuoto femminile. Qui ancora una volta lei si ritaglia un ruolo, al contrario di me che non riesco a calarmi nella veste, anzi nella calottina, di pallanuotista. Di lì a poco l’abbandono di entrambe.

Io inizio a frequentare l’università e lei inizialmente l’ISEF; ma dopo aver messo in pratica una rianimazione presso la stazione di Padova, aveva preferito puntare l’Accademia delle belle Arti di Venezia; entrambe comunque disertiamo quasi completamente l’ambiente della piscina; ciononostante la nostra amicizia continua, andiamo anche in vacanza in Camargue assieme con i nostri rispettivi compagni.

Quando raggiungo il traguardo della laurea è lei a disegnare il mio papiro: una collezione di aneddoti  e una caricatura così realistica da superare mille fotografie, di cui conservo ancora una copia incorniciata.

Di nuovo mi riporta nell’ambiente natatorio che avevo lasciato: ci iscriviamo nella squadra di salvamento e ritorniamo a gareggiare esattamente come quando eravamo adolescenti. Ai campionati italiani assoluti ci perdiamo la formazione della nostra batteria perché troppo prese a chiacchierare in camera di chiamata.
A me era anche nato il sospetto, ad un certo punto, che avessimo mancato l’appello, e avevo chiesto informazione ‘A che batteria siamo?’ e una mi aveva risposto ‘diciotto’; però ero così assorbita dall’argomento che avevo interpretato la risposta in ‘risolto’ e così avevo tranquillizzato la mia amica in modo che potesse proseguire serena con le sue dissertazioni. Poi una volta esaurite le partecipanti avevamo fatto presente che avremmo dovuto gareggiare anche noi , così ci avevano inserito in extremis (le batterie si avvicendavano dalla più veloce alla più lenta) in una batteria completamente estranea al nostro livello, formata tutta di dodicenni, e ci avevano penalizzato con la decurtazione di 50 punti ciascuna. Ritornare al gruppo tra il disappunto del coach e l’ilarità dei compagni di squadra era stato imbarazzante, e sarebbe rimasto negli aneddoti .

Sempre noi due insieme alla visita medica di idoneità sportiva, ormai adulte; ci fanno entrare in coppia a sostenere l’elettrocardiogramma; avevamo il ricordo del su e giù per lo scalino, invece ci ritroviamo di fronte ad una cyclette. Mentre una pedala l’altra soffia per la spirometria e viceversa. Quando viene il suo turno il medico le dice che non è necessario spogliarsi, è sufficiente scoprire il torace. E così trattengo le risate che mi scoppiano dentro a vederla praticamente vestita dei soli stivali, dato che la gonna era poco adatta alla pedalata, a faticare su quell’attrezzo, molto più simile ad una guerriera amazzone che ad un’atleta in cerca dell’idoneità sportiva.

Quando mi sono sposata mi ha ‘accompagnata all’altare’ facendomi da testimone e organizzando un memorabile addio al nubilato: aveva chiamato tutti i miei amici, indipendentemente dal loro sesso, anche quelli provenienti da fuori città e offrendosi di ospitarli in casa sua nonostante un gatto insolente. La festa si è svolta in totale allegria pur senza tutti quegli orpelli fallici di pessimo gusto che tanto vanno di moda quanto io non apprezzo.
Quando lei ha battezzato i suoi figli, io sono stata la madrina di uno di loro.

Due vite sempre più distinte nella quotidianità ma che conservano immutato quel sentimento di amicizia nato trent’anni fa.
Chi lo avrebbe mai detto che oggi che io e quella bambina dalle bionde trecce, gli occhi azzurri e poi saremmo ancora qui a raccontarcela?
Tanti auguri alla mia amica che oggi compie 40 anni!

Psicologia del parcheggio *

Parcheggiare in centro è sempre un problema, ma il più delle volte è un problema facilmente risolubile.
Procedo lentamente, un po’ perché non ho nessuna fretta, un po’ perché ogni settimana cambiano i sensi di percorrenza e devo capire da che via accedere al parcheggio, uno grande a pagamento.
Dietro di me sento delle auto strombazzare, sembra che chiedano strada.

Non riuscendo ad interpretare il motivo della loro esigenza di precedenza e un po’ infastidita da tutti questi clacson decido istintivamente di imitare l’auto che mi precede, un fuoristrada, ed accostare a destra, lasciando loro strada.
Vengo superata da una mezza dozzina di auto con clacson spiegati e bandiere fuori dal finestrino.

Ok che ho perso la cognizione del tempo e dello spazio, ma oggi, giovedì, giocano la partita? Al mattino? Ah no, leggo COBAS sulle bandiere, deve trattarsi di una qualche manifestazione.
Passano tutte le auto e poi dietro di loro il traffico normale. È li che decido che è giunto il momento di reimmettersi in carreggiata. Ma il fuoristrada ingrana la retro, riducendo lo spazio a mia disposizione. Faccio altrettanto, ma dietro ho un’auto parcheggiata, e il tizio davanti continua ad arretrare. 
Sterzo e controsterzo, in un paio di manovre riesco a sgusciare dal mio pretereintenzionale parcheggio.

L’uomo del fuoristrada scende dall’auto e si rivolge a me con aria molto contrariata.

Inizio a supporre che per la manifestazione ci sia il traffico bloccato e che non posso procedere oltre. Il tizio mi pare parecchio agitato, quindi accosto, abbasso il finestrino e serafica chiedo cosa c’è.

L’uomo è veramente nervoso e inizia a dirmi con fare concitato che era arrivato prima lui e quel posto (il mio parcheggio involontario dal quale sono uscita a fatica) gli spetta di diritto.

Con una serenità quasi da kharma lo tranquillizzo che io non voglio parcheggiare lì, mi ero fermata per lasciare strada e mi sto recando al parcheggio.
L’uomo ci é rimasto di sasso, e oltre all’ascia di guerra è tornato a seppellire anche i suoi 32 denti.
Poverino, chissà con chi altro si sarà sfogato poi!

Addio Freddy

Il 24 novembre 1991, esattamente oggi di 25 anni fa, scompariva Freddy Mercurie.

Adoro i Queen, di cui lui era cantante, penso di conoscerne tutte le canzoni, anche perché a un certo punto hanno smesso di scriverne quindi mi hanno lasciato tutto il tempo per studiarle.

I Queen, che io sappia, sono l’unico gruppo che si autoreferenzia da una canzone all’altra, un po’ come fa nei suoi film Quentin Tarantino, uno dei miei registi preferiti: citano le fat bottom girls, a cui hanno dedicato una canzone, anche in I Want to ride my bycicle.
Tra le loro canzoni non saprei quale indicare come preferita: forse Bohemian Rapsody che ha i toni dell’opera lirica, inizia con la descrizione di un atto criminale in due semplici righe

“Mama, just killed a man

Put the gun against his Heidi 

Pulled the trigger now he’s dead”

L’omicidio, azione scellerata ed ingiustificabile, è in realtà semplicissimo da commettere: la durezza del risultato non ha nulla a che fare con la facilità con cui si svolge l’azione.

Nella canzone l’uomo, condannato a morte, si rivolge alla madre, colei che incondizionatamente lo ama, e la saluta, dicendole che se domani non lo vedrà tornare “vada avanti, come se nulla importasse”, spostando magistralmente tutto il dramma dalla vittima al carnefice.
O forse Somebody to love, che contiene la più lapalissiana delle verità “each morning I get up I die a little”, enunciato vero a prescindere, si invecchia un giorno dopo l’altro.
O forse We are the champions, che dopo una gara ci sta sempre bene (‘no time for loosers’!).
O forse I want it all che riassume benissimo i miei desideri (‘I want it all and I want it non ‘).

O forse Living on my own (da solista) con l’incipit ‘sometimes I feel I wanna break down and cry’ che richiama frequenti miei stati d’animo.

Ma probabilmente quella che mi si addice di più, che descrive perfettamente il mio modo di essere penso sia Don’t stop me now, perchè quando mi faccio prendere la mano viaggio inarrestabile come un treno in corsa, dritta verso la meta ‘I’m a satellite on my way to Mars’. 

Cromosomi *

Io pensavo di averne sentite tante; non tutte, tante. Invece più passa il tempo più mi rendo conto che non c’è limite. Dopo quella che “il gelato al cioccolato è da maschi, le femminuccie mangiano gelato alla fragola” intendo.

Invece no…

Oggi una ultra ottuagenaria signora vede Viola vicina ad un’altra bambina, di pochi mesi più grande. Viola era con me, l’altra bimba coi suoi genitori.

La signora chiede se sono gemelle. Come possa pensarlo non lo so, ma la domanda rientra nel limite di un ragionevole ‘parlo tanto per chiedere qualcosa e fare conversazione‘.

Poco dopo la stessa donna mi chiede se Viola è una femmina. E vabbè, non ha fiocchi, gonne, forcine nè abiti rosa. Forse non ha nemmeno sentito che la chiamo Viola. Rispondo con gentilezza di sì, è una bimba.

Allora interviene l’accompagnatrice dell’anziana donna come a scusarsi delle domande sciocche e afferma con sicurezza ‘eh certo che è una bambina… HA GLI OCCHI AZZURRI’.

Eureka!

Ho trovato!
Finalmente ho dato un nome a dubbi che da tempo mi ponevo: se uno è ospite, significa che ospita una persona o che viene ospitato? Entrambe le cose. È un enantiosemia.

Enantiosemia è il nome della figura retorica in cui una stessa parola assume un significato e anche il suo esatto contrario.

A me è sempre sembrata un ambiguità, e anche una carenza della lingua italiana.

È ben diverso rivestire l’uno o l’altro ruolo: da un lato sei caricato di un lavoro aggiuntivo, dall’altro ne sei sollevato. Eppure per entrambi è un momento di condivisione, e questo forse è il senso dell’unicità del termine.

E cacciare? Cosa significa? Significa mandare via o anche cercare di catturare. Un unico verbo per due azioni dal significato antitetico.

A ben guardare l’azione è la medesima e si esplica correndo dietro a qualcuno che fugge; se corri più veloce lo prendi, altrimenti ti scappa: si tratta cioè di modulare la velocità a seconda del risultato che ti prefiggi.

Un po’ più difficile capire invece come i giorni feriali siano quelli lavorativi, da lunedì a venerdì, ma anche i giorni di ferie: forse perché quando uno si prende le ferie se le prende nei giorni in cui dovrebbe lavorare, ha un suo senso.

Queste riflessioni mi hanno portato alla mente una locuzione che dalle mie parti si usa molto spesso, e che suona più o meno così: dai va là… vieni qua! Vieni dentro che ti scaldi fuori.
In questo caso non è un singolo termine che ha due significati ma sono parole di senso opposto usate con lo stesso significato, una enantiosemia a frase potrebbe definirla la settimana enigmistica: una snocciolatura di controsensi che mettono in evidenza le bizzarrie della lingua italiana.

Post di servizio

Novembre è il periodo dell’anno in cui, ai miei occhi, il mondo si spegne. Si corica, si addormenta e si risveglierà verso la metà di febbraio.

E così è per me.

Le giornate corte, la nebbia, il freddo, la pioggia, l’umidità. Blah.

Con me si assopisce anche l’inventiva, la voglia di scrivere, la fantasia per individuare argomenti poco soporiferi.

Potrei aprire i rubinetti e buttare giù a ruota libera, come in un incontrollato flusso di coscienza.

Ma no, non è nel mio stile.

Così ho pensato di utilizzare questa pausa per pubblicare pezzi scritti in altri tempi e che non hanno trovato il loro spazio al momento opportuno.

Lo dico per informare chi mi legge che, nei post contraddistinti con l’asterisco infondo al titolo, potrà mancare l’allineamento con la quotidianità esterna.

Potrebbero trattare di fatti accaduti anni fa, magari d’estate, magari quando le bimbe erano più piccole, magari quando io attraversavo un momento diverso, magari riferiti a situazioni ormai superate.

Oppure potrebbero essere storie a sè stanti, completamente slegate dalla realtà.
Credo che chi mi segue capirà, chi non mi legge pazienza, non ne subirà oltraggio.

I pezzi verranno comunque pubblicati in forma riveduta e corretta, e si alterneranno ad altri più attuali.
Generalmente non scrivo pezzi così informativi, ma questo mi pareva doveroso.

Una partita a scacchi

Risale ai banchi della scuola elementare il mio interesse per gli scacchi: avevo un maestro appassionato di questo gioco, avevamo costruito insieme la scacchiera, ci aveva aiutati, a partire da una tavola di compensato dipinta di bianco, a disegnare i 64 quadrati.

Li avevamo dipinti e rifiniti con un pennarello indelebile marrone, poi verniciati.

Infine avevamo numerato le righe e le colonne con i numeri e le lettere.

Il tutto come materia scolastica: un’ora alla settimana veniva dedicata agli scacchi.

Una volta pronta la scacchiera, l’ora di lezione veniva dedicata al gioco: ogni alunno aveva i suoi pezzi, e aveva imparato a collocarli sulla scacchiera; ognuno sedeva al suo banco e giocava il bianco, mentre il maestro giocava il nero contro ciascuno, a rotazione, così avevamo il tempo di riflettere sulla nostra mossa mentre lui affrontava gli altri compagni.

A volte riproducevamo partite famose, tratte da un libro sul tema; il maestro ci aveva spiegato che bisognava sfruttare il tempo a disposizione per ragionare sulle possibili mosse e prevedere quelle dell’avversario.

Non è una materia di studio convenzionale, ma credo sia un’attività educativa e stimolante al pari di altre.

Quando iniziano, le partite sono tutte uguali: stessa scacchiera, stessa disposizione dei pezzi, due avversari uno in fronte all’altro.

Non esistono tanti modi di aprire: o muovi il (i?) pedone(i) o muovi un cavallo. 

Prima inizia il bianco, poi risponde il nero.

Le prime due o tre mosse non consentono molta libertà di scelta. Ma presto la configurazione si articola, le posizioni dei pezzi assumono collocazioni diverse; di mossa in mossa aumenta il numero di disposizioni possibili.

Allora entrano in gioco l’astuzia dei giocatori, la loro esperienza, la loro fortuna nell’azzeccare la reazione dell’avversario, la prontezza di riflessi nell’osservare possibili trappole, da tendere o nelle quali non cadere.

Via via le forze si sbilanciano: uno perde la torre e un cavallo, l’altro entrambi gli alfieri… fino a che si riesce a mettere in scacco il re o a creare una situazione di stallo.

Così la partita finisce.

Per chi è affetto da una sorta di bulimia verso il gioco, è già ora di iniziare una nuova partita, e sovrapporre la noia della fase iniziale a quella finale.

A pensarci bene, la dinamica che ho descritto può adattarsi anche alle relazioni interpersonali: ci si incontra, come due pagine bianche l’un* per l’altr*.

All’inizio ci si rapporta in modo convenzionale, ma presto la conoscenza reciproca di punti di forza e debolezze, di affinità e incompatibilità, delinea a chiari tratti un equilibrio o uno sbilanciamento.

In alcuni casi la partita si chiude con lo scacco, in altri rimane in stallo, e ogni partita crea esperienza per la successiva.

La punteggiatura

Negli Stati Uniti esiste una giornata (il 28 settembre) interamente dedicata ad essa, umile programma di seconda elementare: la punteggiatura.
Purtroppo la diffusione dei messaggi di testo brevi (SMS, WA e tutte le forme di comunicazione che vorrebbero essere immediate) hanno sacrificato i segni di interpunzione fino a farli scomparire dal testo.
A volte però la presunta immediatezza apre il varco a clamorosi malintesi, e se per un punto Martin perse la capa, io spesso ci perdo la testa ad interpretare il significato di una sequenza di parole che mi ricorda molto il flusso di coscienza che chiude l’Ulisse di Joyce.

Per fortuna almeno gli spazi tra le parole hanno conservato una loro dignità, salvo difetti della tastiera.
Di recente mi è capitato di leggere vari appelli alla conservazione di questa casta in via di estinzione, così aggiungo al coro la mia voce.
– La signorina virgola: te la trovi lì a volte, che ti vien da chiederle “ti sei persa bella bambina? dov’è la tua mamma? vuoi che proviamo a chiamarla col megafono?”
I segni devono osservare un loro galateo: dopo l’ultima lettera della parola si accosta il segno di interpunzione, si lascia uno spazio bianco poi si inizia una nuova parola.
Invece ogni tanto delle virgole raminghe si incontrano qua e là, che sembrano i pezzetti di pane lasciati da Hansel e Gretel per ritrovare casa, e alcuni se li sono già mangiati gli uccellini.
– Il signor punto e virgola: più forte della virgola, per sua natura adatta a separare gli elementi in un elenco o ad introdurre elementi supplementari nel periodo principale; il punto e virgola permette di lasciare nello stesso paragrafo frasi distinte che mantengono elementi di significato in comune.
– La signora due punti: precede un elenco, o una spiegazione di quanto si è affermato, o introduce un dialogo.
– Il commendator punto fermo: approfittiamone, i punti sono gratis! Quando il periodo inizia a farsi lungo diventa più leggibile se viene spezzato in due parti; e, per distinguerli, un bel punto fermo.

Un po’ come la domenica che separa una settimana lavorativa dalla successiva.
– Sua altezza punto e a capo: fratello maggiore del punto fermo, stesso prezzo.

Quando i periodi sono già distinti alla nascita, meglio andare a capo e mantenere le distanze.
– Quei ragazzetti dei puntini di sospensione: sono tre, o comunque in numero dispari come le rose nel mazzo. Attenzione a non abusarne perchè rivelano… che non si sa cosa dire!

Esprimono dubbio… incertezza… perplessità… reticenza… esitazione… confusione…

Insomma fanno un gran casino che chi legge non ci capisce più niente.
– Il marchese punto di domanda: esprime interrogazione e attende, se possibile, una risposta.
– Il granduca punto esclamativo: esprime un concetto forte! stupore! sorpresa! meraviglia!
A volte i due viaggiano in coppia, alternandosi.
– Le (amiche del cuore) parentesi: ospitano considerazioni a latere, un po’ come una voce fuori campo che dice la sua. Una parentesi aperta ne vuole una chiusa poco più avanti: io con l’occhio la cerco subito per capire quanto estesa è la divagazione, e a volte torno a leggerla in un secondo momento.
– Le gemelle virgolette: riportano dialoghi; o un titolo; o un modo di dire; o una locuzione particolare, traslata nel suo senso o scritta in maniera scientemente errata (a volte ci viene in soccorso anche il carattere corsivo, all’uopo).

Usate da sole per riportare quanto sopra solo nei documenti tecnici, per pietà.
Una menzione d’onore spetta alla riga bianca che separa i paragrafi. Non è un segno di interpunzione in senso stretto ma offre ampio respiro alla lettura. Anch’esso gratuito, minimo sforzo e massimo risultato.

La punteggiatura distingue un discorso piatto da un’orazione: è un insieme di suggerimenti diabolici per enfatizzare la lettura e rendere giustizia alla scrittura sottostante.

Come un disegno può essere in bianco e nero o a colori, così un pezzo scritto può ricevere struttura ed armonia dall’uso sapiente di virgole e rimandi a capo.

Sogni d’oro

C’è una conduttrice radiofonica che tiene una rubrica intitolata ‘Il risveglio’, arguto espediente per introdurre un pensiero al giorno, ogni mattina.
Non mi trovo in sintonia con i concetti che esprime, ma soprattutto sono molto scettica sul fatto che quando apre con ‘Questa mattina mi sono svegliata e ho pensato a…’ affermi il vero: quando mi sveglio alla mattina io, l’unica cosa che riesco a pensare è ‘Quanto manca a tornare a letto?’.

Mi riuscirebbe più verosimile la rubrica ‘Ieri sera prima di addormentarmi ho pensato a…’.
Ad ogni modo l’altra sera prima di coricarmi pensavo alla rivoluzione epocale che ci aspettava; e al mattino, quando mi sono svegliata, è stato il mio primo pensiero: sono corsa a controllare sul tablet e… NO, nessuna svolta.
Non sono esperta di politica internazionale, nemmeno di quella italiana; a onore del vero non mi intendo proprio di politica e se vogliamo dirla tutta non mi intendo di un bel niente.

Non so se era meglio lui, Donald, o lei Hillary.

A pelle preferivo lei, ma non è un dato di rilievo.

Anche se non mi spiego ancora come potesse presentarsi con il cognome del marito, per giunta pubblicamente e platealmente fedifrago.
Ciò che mi brucia è che ritenevo il mondo maturo per avere una donna presidente della Repubblica; invece no, sarà per la prossima, magari sarà proprio Chelsea, per restare in famiglia.

O magari avverrà in Italia. Magari.

Sogni.
Io fatico a risvegliarmi dai sogni, che già con l’alzata delle 4 avevo sbirciato gli exit poll e davano un lieve disavanzo. Alle 8 era diventato un divario significativo, ma non essendoci ancora l’ufficialità io speravo nel miracolo.

Sono una sognatrice cronica.
Nello stesso giorno la notizia della morte di Veronesi. RIP. Che restando in tema di sogni, anche in lui avevo riposto alte speranze: avevo accompagnato mia mamma all’IEO.
Da una situazione conclamata ci si poteva aspettare solo un miracolo, come dal significativo divario una rimonta della Clinton era altamente improbabile.
Ma fino a che non accendono le luci in sala per me un film non è finito, e io rimango seduta fino a che i titoli di coda non hanno smesso di scorrere, perché a volte capita che ci sia uno spezzone oltre la parola FINE.
Un viaggio della speranza quello a Milano, e non gliene faccio una colpa al vecchio Umberto; purtroppo però, l’IEO mi ha lasciato l’impressione di una gigantesca macchina da soldi. Che sicuramente in qualche caso porta al risultato ma, ahimè, ho avuto la precisa sensazione che non fosse quella la priorità.
Così questo 9 Novembre, che noi italiani scriviamo come 9/11 e che in maniera imbarazzante richiama un’altra tragica data, scritta a rovescio con la formattazione americana, non mi ha sorpreso quando si è concluso con l’ostruzione di una tubatura che ha allagato di fogna la casa di mamma.