Il duello

Ed eccoci qua, l’una di fronte all’altro, faccia a faccia, noi due sfidanti: il vincitore, e il perdente; non è ammessa parità, uno dei due avrà la meglio ma ancora non sappiamo chi.

Rancorosi, feriti, divisi, avidi di rivalsa.
Sul volto dell’altro scrutiamo le disillusioni, esperienze passate che hanno lasciato il segno; ma le ferite sono ormai rimarginate, siamo pronti ad accettarne di nuove.

Chi prevarrà nella tenzone?

Chi di noi due prova sentimenti abbastanza sinceri da superare la prova?

Chi dei due ha pretese abbastanza forti da respingere tutti i colpi mortali dell’altro?

Un respiro dopo l’altro, poco per volta, la passione è morta, di una morte dolce, fatta di bugie; alcuni ricordi del tempo passato leniscono il distacco ma subito ci rendiamo conto che sono nient’altro che bugie.

Si è fatto tardi, la decisione viene lasciata al caso: non c’è più tempo per dimostrare una cosa che sarebbe destinata a durare per sempre.

Ed ecco lo scontro: Il primo affondo della spada non farà male, perchè è inaspettato, e anche il secondo ti sorprenderà; sarà il terzo a metterti in ginocchio, il colpo fatale: a quel punto tu inizierai a sanguinare e io urlerò. 

Urleró la mia rabbia commista allo stupore per la mia vittoria e il ribrezzo per il tuo sangue.

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Questa è la mia libera traduzione del testo della canzone Duel, per chi non l’avesse riconosciuta.

Si tratta di una canzone anni ’80 tuttora ascoltatissima; mi piace molto, e apprezzo in particolare la potente voce nasale della cantante del gruppo tedesco dei Propaganda.
È stata riportata in voga da Morgan, che nell’edizione 2012 di Xfactor l’ha fatta cantare a Romina Falconi; la concorrente aveva preso male questo incarico, perché era troppo giovane per conoscere il pezzo e non lo apprezzava.

Secondo me invece ne ha fatto un’interpretazione all’altezza dell’originale.

Duel di Romina

Do you speak Venetian? 

Leggendo questo post

https://nonsonoipocondriaco.wordpress.com/2016/06/30/k-e-il-dialetto/

ho maturato alcune riflessioni.
In casa mia si parlavano due diversi dialetti: il veneto da parte di madre e il lombardo da parte di padre; ma questo solo tra adulti, con noi bambine si parlava solo italiano.

Io infatti capivo perfettamente entrambi ma mi esprimevo solo in italiano, e mi vergognavo a parlare in dialetto perché credevo fosse retaggio degli adulti.

Dacché solo loro lo parlavano, lo ritenevo una cosa proibita, un po’ come il fumo delle sigarette.

Così riadattavo i termini e chiamavo scopacce le scoasse (immondizia) e bronce le bronse (braci), suscitando generosa ilarità; il che mi bloccava dal riprovarci.

Dirò di più, credevo si dicesse parlare ‘indialetto’ come se fosse una specie di linguaggio indiano.

Oggi ritengo che anche i dialetti siano formativi nell’apprendimento della lingua italiana, perché provvedono un’estensione dei costrutti grammaticali e logici.

I dialetti donano poesia, calore e colore alla lingua parlata e custodiscono una grande ricchezza per l’identità di un popolo.

A questo proposito è emblematica la famosa gag di Aldo Giovanni e Giacomo sulla cadrega: il test per valutare la provenienza del malcapitato Aldo vestito da Dracula.

Anni fa lavoravo in una zona pedemontana piuttosto decentrata rispetto alla città, dove si parla quasi esclusivamente dialetto; mi trovavo ad essere una delle poche a parlare in italiano; allora mi sono sforzata per integrarmi, di parlare dialetto, perché quando non lo facevo mi sentivo ascoltata come se parlassi in inglese.

Tra l’altro qua nel veneto è pensiero comune che il nostro dialetto sia molto simile allo spagnolo (l’unica possibile somiglianza in realtà è che vengono eliminate le consonanti doppie) ed avendo quell’azienda di cui dicevo alcuni clienti spagnoli mi capitava di ascoltare delle conversazioni telefoniche veramente esilaranti.

Io credo che l’importante sia di non abbandonare la lingua italiana in favore del dialetto al punto da non riuscire ad esprimersi in italiano.

Quando uno parla un dialetto che non è il suo fa specie, sembra sia un film doppiato male.

Ci sono poi numerosi casi di stranieri che imparano a parlare dialetto ancor meglio che l’italiano e questo fa ancora più specie.
A volte sei talmente convinto che una parola rientri nel linguaggio comune, perché l’hai sempre sentita dire, che non ti rendi conto che italiana non è e ti capisce solo chi abita nel tuo stesso quartiere: si prenda ad esempio CESTE, parola prettamente vicentina che esprime noncuranza e di cui già a Padova, poche decine di km, ignorano il significato.

Oppure al contrario ci sono termini che pensi dialettali e non lo sono per nulla, come ad esempio la parola imbragatura, che facendo riferimento alle braghe = pantaloni, avevo sempre considerato dialettale.

Purtroppo la televisione e il cinema, nel caso del dialetto veneto, hanno un po’ caricaturizzato il linguaggio, attribuendo alla figura del ‘Veneto medio’ un’impronta da tontolone che ogni tre parole esclama ‘ostregheta’.

In realtà quel genere di personaggio esiste solo in tv e al cinema: ormai l’inflessione dialettale veneta è riuscita ad amalgamarsi bene con la lingua italiana e sentire personaggi di spicco locali parlare a livello nazionale è diventato meno imbarazzante. 

Gli estremi

L’inizio dell’amore è spesso simultaneo. Non così la fine: da ciò nascono le tragedie.

(Alessandro Morandotti)

Io non so parlar d’amore, come cantava anche Celentano, ma l’aforisma citato trova spiccate analogie con la gara:

L’inizio della gara è sempre simultaneo. Non così la fine: da ciò nascono le classifiche.

Eppure quei due momenti, l’inizio e la fine, pur non essendo entrambi simultanei, sono uguali un po’ per tutti i nuotatori; sono due istanti, nel senso letterale del termine, che racchiudono tra di loro l’intera prestazione, e si chiamano partenza e arrivo.

La partenza è quel momento carico di tensione, quando il ballo di gruppo che eleva tutti i concorrenti al livello del blocco, regolato dal ritmo dei fischi del giudice, si arresta: tutti fermi.
Il giudice dice A POSTO (o nelle competizioni internazionali TAKE YOUR MARKS) e da lì trascorrono alcuni interminabili eterni secondi prima che gracchi il via.
Quegli attimi, quando tutti gli atleti della batteria sono disposti a testa in giù, aggrappati allo spigolo anteriore del blocco, caricati sulle gambe, sembrano eterni.
Si tratta generalmente di pochi secondi, un paio, dipende dalla giuria di gara.
Ma a te che sei lì sembra ti scorra davanti l’intera esistenza: silenzio, tutte le energie sono dietro i padiglioni auricolari, pronte a captare il via, quel via che farà esplodere la potenza dello stacco.
La mente umana ha delle potenzialità incredibili, riesce a filtrare i rumori e ignorare tutto ciò che è diverso dal beep che si sta attendendo.
Intanto tu sei ancora lì, piegato, col sangue che va alla testa e quel goccio di acqua che hai bevuto mezzora fa tenta la risalita; se poi hai mangiato anche mezzo biscotto sei finito: o mi date il via o vomito, mi vien da riprendere gli starter più lenti.

Invece guai a distrarsi, che un secondo in più sul blocco è una gara un secondo più lenta.
Poi l’ingresso in acqua, l’impatto con l’acqua, l’abbassamento di temperatura corporea e a seguire la gara.
Nuoti nuoti nuoti fino a che …… eccola là: la parete, ammantata di giallo, rivestita di quella membrana a strisce verticali in rilievo che è la piastra, pronta ad attenderti, a registrare il tuo arrivo.
Non importa quanto affaticati si pervenga, alla piastra spetta sempre una potente pacca, quasi fosse colpa sua se, da quando è suonato il beep, ci abbiamo impiegato tutto quel tempo, e soprattutto tutta quella fatica, ad arrivare fin lì da lei.
Se lo merita quel sonoro ceffone, è rimasta inane, senza fare niente per venirci incontro, per alleviare il nostro sforzo. 

Magari nei giri intermedi si è anche beffata di noi, dandoci l’illusione di essere lì ad attenderci, col suo colore evidente, facendoci credere che la fine fosse vicina, offrendoci un soffice (rispetto al muro) contrasto per ripartire per la successiva frazione.

E immediatamente dopo la pacca, lo sguardo al partner della piastra: il signor tabellone elettronico, che spesso sembra giocare a nascondino, e a volte si lascia trovare recando sorprese sgradite, altre con notizie entusiasmanti.

Questi due momenti sono comuni a tutti i nuotatori: giovani e meno giovani, agonisti e master, uomini e donne, velocisti e fondisti.
Unica eccezione i dorsisti per i quali la visione è tutta a rovescio.

Un passo dopo l’altro

Il futuro arriva un giorno per volta, così come la laurea si consegue esame dopo esame, libro dopo libro, pagina dopo pagina.

Nemmeno a camminare o a parlare si impara da un giorno all’altro, nemmeno a stare in equilibrio su due ruote in bicicletta.

L’apprendimento è un processo graduale, così come il successo nel raggiungimento di un qualsivoglia obiettivo.

L’aereo non decolla da fermo: è vero che si ritiene decollato in quell’istante magico in cui le ruote si staccano da terra, ma non lo potrebbe fare se prima non avesse preso adeguata rincorsa e soprattutto, una volta sollevato, non può permettersi di spegnere i motori; così come se smettiamo di pedalare non possiamo rimanere in equilibrio su una bicicletta ferma.

Tutti questi processi dicevo sono graduali; invece siamo condizionati dal cinema, dalla televisione, dagli spot pubblicitari che, per esigenze di copione e di spazio, condensano tutti i passaggi necessari ad arrivare al gran finale, creando l’illusione che tutto è veloce, tutto è facile, tutto è magia.

Nella vita reale invece le cose arrivano un pezzettino alla volta, e così abbiamo la sensazione di essere sempre all’impasse.

Ogni percorso è fatto di salite e discese, è costellato di intoppi, di difficoltà: la strada che porta alla meta non è sempre dritta, nè tantomeno in discesa.

Per vincere un campionato non bisogna necessariamente vincere tutte le partite: ne è d’esempio il Portogallo ai recenti europei di calcio.

Durante il cammino siamo desiderosi di misurare il consenso, il riscontro ad ogni nostro passo.

Se stiamo facendo bene, se stiamo procedendo nel verso giusto non sono sempre lì tutti a farci il tifo; o magari lo fanno ma in maniera silenziosa.

(Altrimenti si chiama clacque).

Non è che il muratore a ogni mattone posato si aspetta una conferma: ci possono essere dei traguardi parziali, come il completamento di un solaio, ma la casa è completa quando arriva al coperto e anzi mancano ancora tutte le finiture.

L’importante è avere davanti chiara la meta, il punto di arrivo: come quando si va a correre, si punta al campanile della chiesa per avere la percezione della distanza percorsa o residua.
Può capitare nella corsa di cadere (succede anche a Mazinga: lotta-cade-si rialza) l’importante è ripartire, magari correggere l’andatura, imparando dagli errori.

Coraggio, ostinazione, caparbietà, tenacia, follia: tutti ingredienti necessari a coronare un sogno, qualunque esso sia.

La morale della favola (Le principesse) *

Ogni tanto mi capita di sentire qualche bizzarra analisi di correlazione tra causa ed effetto tra fenomeni, condotta in modo scientifico; tipo “secondo uno studio inglese chi dorme 8 ore per notte ha più possibilità di imparare a suonare il sassofono”.

(Disclaimer: non è vero, me lo sono inventata, è solo un esempio).

Eppure ci sono persone che conducono studi ai confini dell’inutilità adottando procedimenti estremamente rigorosi.

Per esempio riguardo al significato e all’interpretazione delle favole classiche mi è capitato di sentir paragonare le scarpe di cristallo di Cenerentola all’imene; oppure il sangue prodotto dalla puntura dell’arcolaio della bella addormentata nel bosco, al menarca.

Che dal punto di vista psicanalitico, del subconscio e di tutta la tiritera che ci si può attaccare magari un senso lo trova.

Però secondo me i bambini e le bambine che ascoltano la narrazione delle fiabe non arrivano ad elaborare certe informazioni nemmeno a livello subliminale.

Ritengo invece altamente diseducativi alcuni messaggi delle favole tradizionali, ad esempio che Cenerentola al ballo vestita di stracci non può andare; se invece si veste di tutto punto sì, e il principe la sceglierà in sposa.
Per quanto io sia la prima a ribadire che bisogna presentarsi sempre al meglio delle proprie possibilità, odio la sciatteria, ma non mi piace che passi il messaggio che ‘chi è vestito male non arriva da nessuna parte, anzi resta chiuso in casa a piangere’.
Tra l’altro, che qualità ha questo principe a cui tutte ambiscono? Oltre che essere uomo di potere e ricco, eventualmente bello.
E le scarpe di cristallo: ma ti sembrano comode per ballare? Capisco i tacchi alti, slanciano la figura, ma una scarpa che basta un sassolino a scheggiarla e ti tagli il piede.

Prendiamo un’altra aspirante principessa: Biancaneve, la cui suprema ambizione è fare da colf per 7 uomini, nani per giunta.
La sventata apre la porta a una sconosciuta, rischia le penne, e attende (nel sonno) chi? Di nuovo il principe! E non appena apre gli occhi si innamora e se lo sposa. 

Ma non si dovrebbe piuttosto insistere sulla conoscenza di una persona prima di un passo così importante?

“Cappuccetto rosso: vai a portare le frittelle alla nonna malata.”
Frittelle??? quale alimento migliore per una donna anziana immobilizzata a letto?
“E soprattutto Cappuccetto rosso… non andare attraverso il bosco che ci sono i pericoli”.
Ma la mamma di Cappuccetto rosso non sa che non si deve dire cosa NON fare, che quello è il sistema migliore perchè un bambino faccia PROPRIO quello? che bisogna, per ottenere un risultato, suggerire COSA fare, proporre in modo costruttivo?
A questo punto quasi quasi preferisco i moderni Simpson e Griffin con la loro visione dissacrante della famiglia unita.
(* Questo post completa il discorso lasciato sospeso ne La morale della favola).

Allo ‘zoo’ *

Il nuoto libero è un po’ come lo zoo: ci trovi di tutte le specie!

Il fatto che io non mi stia ‘allenando’ non toglie che un 200 misto si fa come un 200 misto: con i primi 50 metri a delfino. 

Ne faccio un paio, giusto per variare un po’ gli stili. 

Al termine del primo si cala nella mia corsia una tizia che vedendomi arrivare mi suggerisce di ripartire, con aria un po’ impettita. 

Nasce subito una profonda simpatia e le rispondo che vado, certo, dopo che ho riposato un attimo.

Lei parte a stile libero, io aspetto un po’ e riparto a delfino per il secondo duecento misto. 

Vasca da 25 metri, arrivo per virare, chi nuota sa come ci si sente prima della virata a delfino: avidi di quel breve ristoro che la parete offre. Un ristoro fatto di una respirazione un po’ più lunga e un intervallo tra le bracciate che si sono accorciate come le giornate di fine ottobre.

E questa cosa fa? Mi afferra il polso sinistro! Sopprimo l’istinto di menarla con la mano che mi resta libera, che quando si è sotto sforzo si diventa istintivi.

Mi limito a guardarla con aria interrogativa: checazz??? 

Lei scocciata mi avverte che stavo quasi per colpirla in faccia. 

Premesso che quando nuoto ho il massimo rispetto di chi è in corsia con me, e che l’avevo ben vista e che stavo per allungare, non per colpirla, la cosa che mi sorprende maggiormente è che al problema ‘sono ferma in mezzo al passaggio’ la soluzione più naturale sarebbe ‘mi levo’.

Invece no, a lei viene ‘fermo il mondo dietro di me’.

Sto per iniziare a discutere, e tra tutte le risposte possibili mi esce la frase portabandiera della disistima che ho del mio delfino “guarda che io so come si nuota”.

Ora che la nostra amicizia è consolidata, continuo a nuotare, e la supero diverse volte. 

Lei è molto carina, bel fisico, per nulla atletico, non ha muscolatura ma è proporzionatissima: elegante, ha movenze molto leggere sull’acqua. Ed è stronza.

Valuto di cambiare corsia ma a fianco a me ci sono 3 o 4 panzer che ogni 25 metri ne percorrono almeno 40.

Lo fa lei: bella mossa amica mia! 

Dopo pochi attimi la osservo in corsia laterale e capisco che tutta la sua boria in realtà è insicurezza profonda, forse anche un bel po’ di paura: un po’ come il gratta e vinci, che sotto la patina argentata confidi si nasconda una bella vincita ma hai timore a grattare via, perché senti puzza di sóla.
Rimasta da sola con un’altra tizia, molto più modesta, continuo la mia scaletta di 100 e 200 stile libero, mentre anche lei nuota indisturbata.

Al termine faccio un altro po’ di misto e alla tizia n• 2 si sostituisce un ragazzetto: il più scoordinato della terra.

Mi fermo, ho quasi finito, manca solo un bel 400 sciolto. Il ragazzo attacca bottone: “ma quanto forte vai?”.

Rispondo che è solo questione di abitudine.

“Facciamo una gara sui 50 metri?” mi sfida.

Che fare? Ma si facciamolo contento!

Partiamo una a fianco all’altro. Alla prima vasca procedo con andatura normale, praticamente sciolta, e lui arranca per starmi al passo. Viriamo.

Indecisa: lo lascio vincere? Ma anche no, ha voluto lui la gara!

Inserisco un po’ di battuta di gambe; arrivo infondo che lui si trova ancora a metà della vasca di ritorno.

Quando tocca il muro e mi vede già bella riposata, prende un respiro profondo e mi dice “complimenti, ma adesso fai ancora altro? Io esco ciao alla prossima”.

Mi sento come Giovanni di AldoGiovannieGiacomo quando sfida a salti mortali i bimbetti fuori dall’autogrill nel film ‘Tre uomini e una gamba’.

E così, da incazzata che ero con la prima tizia, me ne esco ridente e ilare.

Il potere di una nuotata!

(* Rivisitato da uno scritto del 2015)

Il carretto passava e quell’uomo gridava ‘gelati’

Girovagando per i social network capita di imbattersi, tra un gattino e un profilo con bandiera del momento, tra un tuffo dallo scoglio e un piatto di carbonara, di imbattersi dicevo in qualche immagine più suggestiva.
Osservando quella che ho riportato la sensazione immediata è quella di addentare il lemonissimo e staccare quel dentino di ghiaccio alla sommità.

Poi se continuo a guardarla arrivo avidamente alla fascia più scura in basso, meno acqua e più sciroppo.
All’epoca, così come adesso, assieme ai gelati ufficiali venivano venduti anche i ghiaccioli ‘normali’ quelli con la sommità tondeggiante, tipo l’arcobaleno, ma monogusto.

C’erano anche quelli con lo stecco di plastica, con inserti a tacca regolari che ne permettevano un gioco di incastri, se ne conservavi un certo numero: io modestamente avevo costruito un robot che avevo battezzato grattugiano, denotando già notevole fantasia per le forme e per i nomi.

Mi ricordo dell’usanza di affiancare due ghiaccioli e succhiare dal tuo per sentire il gusto dell’altro (in teoria un pochino di gusto sarebbe dovuto filtrare attraverso il ghiaccio; gusto di colorante in verità, ma non importa).
Non ricordo dove prevalentemente vedevo il cartellone, ricordo solo di avere mangiato tanti ghiaccioli.
I cartelloni pubblicitari funzionano un po’ come le carte geografiche appese in classe a scuola: non è che ti metti lì davanti e studi la posizione di un paese rispetto ad un altro fino ad impararla, solo che, guarda oggi guarda domani, ti entrano in testa, memorizzi l’immagine, impari.
Quando si vendevano i gelati Eldorado io in realtà mangiavo solo ghiaccioli et similia: ricordo quando hanno inventato il calippo, che non usciva mai dalla confezione e poi sgusciava via tutto d’un colpo; alla fine rimaneva un fondo sciropposo e liquefatto che era impossibile non sporcarsi le mani.

Ricordo anche la granita che bisognava grattare con la palettina, tanta pazienza, e cercare di non spezzarla!

Della stessa epoca sono le liquirizie haribo, costavano 50 £ ciascuna; ve ne erano di diverse forme ma quella a rotella era la mia preferita perché la srotolavo e mangiavo un lungo spago, durava di più insomma; e che strani erano gli adulti, volevano convincermi che la vera liquirizia era quel legnetto filamentoso e dal retro gusto amarognolo, oppure peggio quelle caramelline dure che ti lasciavano lingua e denti neri.  

I primi passi

Questa mattina mi hanno avvisato dall’asilo che Viola correndo è caduta; nulla di che.

Solamente un anno fa scrivevo queste parole:

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Quale emozione osservare i primi passi di Viola! 

Lo stupore di vedere quella che fino a pochi mesi fa era un ragnetto inerme ora muoversi autonomamente.

Osservare la concentrazione che produce per iniziare il movimento, che tra poco diverrà automatico e scontato mentre ora richiede lo stesso raccoglimento di un ginnasta olimpico che si prepara a un salto triplo; pensare quante altre ‘prime volte’ la aspettano nella vita (e ogni tanto ripenso al mio papà che mi ha insegnato a guidare: quante partenze a singhiozzo prima di capire la coordinazione frizione – acceleratore…)

La grinta di chi dopo due passi cade e subito si rialza, e subito ci riprova.

L’equilibrio malfermo sulle gambette ancora incerte, che sembra una gelatina in avanzamento.

La soddisfazione che le si legge sul sorriso, o meglio sul ghigno, nel riuscire ad aggiungere un passo alla sequenza precedente.

Il desiderio di autonomia che respinge eloquentemente ogni mano di aiuto.

Che buffa quando cerca tecniche alternative appoggiando le manine e sollevando la gamba.

Che tenerezza vedere questo esserino al di sotto del metro compiere queste attività, e che timore nel pensare quante altre ne imparerà in completa indipendenza….

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Ad oggi camminare è diventata un’attività superata, il verbo di uso comune per gli spostamenti è correre.

Ovviamente si tratta di una corsa tutta scoordinata, che lei pratica a passetti di ritmo irregolare e con le manine larghe, ridendo come se stesse scendendo a velocità vorticosa, con la certezza di arrivare incolume.

O con l’incoscienza, che oggi però ha iniziato a diventare coscienza.

Vieni c’è una strada nel bosco…

Esiste un posto a poche decine di km da dove vivo, un bosco nascosto di cui ho scoperto recentemente l’esistenza. 

Si trova sulle colline del Montello, si presenta al pubblico come un’osteria ma in realtà è un parco di divertimenti.

Una via di mezzo tra il parco giochi sotto casa e Gardaland.

Ho detto tutto… Ok, mi spiego meglio: è a tutti gli effetti un luna park ma funziona a elettricità zero.

È adatto a grandi e piccini, tante sono le alternative che offre: si va dalla classica giostrina con le seggioline che girano, a delle vere e proprie montagne russe, passando per le altalene, l’uomo vitruviano, i tappeti elastici, il tagadà, le gabbie e il taboga. 

Coinvolge un po’ tutte le età, vuoi perché anche agli adulti è consentito salire sulle attrazioni (in alcuni casi esclusivamente a loro) vuoi perché per alcune di esse questo si rivela necessario.

L’uomo vitruviano è un’intelaiatura che imbraga una persona di statura minima 1,60 m e lo fa ruotare come quello che si vede sulle monete da 1€.

Ovviamente l’azione di rotazione devono imprimerla gli amici.

Le gabbie e il taboga sono giostre di comune diffusione, non occorre che le racconti.

Le altalene sono delle lunghe corde annodate in fondo a mo’ di seggiolino: le si afferra al volo e sembra di attraversare il bosco come Tarzan.

Ah sì perché, dimenticavo, tutto questo è avvolto dall’ombra dei pioppi e il sole filtra appena, non ci si arrostisce per niente, anzi: io avevo persino freddo.

Ci sono poi dei nastri rullati posti in discesa e si percorrono con una tavoletta di ferro, o slitta, sotto il sedere: chiaramente la slitta te la devi riportare su da solo.

Ci sono delle corde che hanno un contrappeso molto importante al di là di una carrucola; una volta che le hai messe in moto oscillano in verticale e ti ci puoi appendere: in genere il genitore aziona il meccanismo e poi suggerisce al figlio il momento opportuno per afferrare la corda.

Così ci si ripassa anche un po’ di fisica e si  stimola la coordinazione.

Il tagadà è una piattaforma circolare inclinata che se ti metti al centro (genitore) puoi innescarne il movimento mentre se stai sulla circonferenza (figlio) ti godi la rotazione.

I tappeti elastici sono fatti di corde elastiche intrecciate fittamente: ho visto un papà che accorreva alla richiesta di intervento della moglie da una qualche parte che non si vedeva e, forse pensando di passare inosservato, rispondeva ‘arrivo’ ma saliva a fare tre salti (o forse intendeva sfruttare l’energia elastica per lanciarsi ed atterrare come fanno i supereroi).

Unica eccezione al funzionamento non motorizzato sono le montagne russe che funzionano solo alla domenica pomeriggio e che hanno un motorino che riporta il bob sulla sommità.

Le incomprensioni sono così strane…

La musica italiana del momento è di intenso stimolo alla mia immaginazione.
C’è Jovanotti che a 50 anni suonati canta della sua ragazza che gioca a palla col mondo e trasforma un pomeriggio in un capolavoro, lasciandomi nell’eterno dubbio se sono rimasta io l’unica pellegrina che i pomeriggi li trascorre a lavorare.

A parte questo, il trio medusa (che ha inventato il programma delle travisate su radio dj) ha successo per forza di cose: certi cantanti non si spiegano proprio quando cantano!

In questi giorni passa molto alla radio la nuova canzone di Nek ‘Uno di questi giorni’ che ad un certo punto dice ‘… ne verranno di inverni agghiaccianti e torvi‘: beh, belle parole per una canzone estiva, considero disgustata.

Poi a suon di dai e ridai, passa e ripassa, senti e risenti ho capito anche io!
Si finalmente ho capito che in realtà dice ‘… ne verranno di inverni ABBRACCIAMI E DORMI…’.

Come a dire: c’è tempo per le difficoltà, prima o poi arrivano, ma adesso stai tranquilla, non ci pensare: abbracciami e dormi.
Ora, scusate, ma a me sembrava quasi meglio la mia di interpretazione! più sensata intendo: cioè…. con sto caldo…. si potrà dormire abbracciati? d’inverno sì… ma con sto caldo non ci penso nemmeno, io! Nek a quanto pare sì.

E l’ultimo singolo di Lorenzo Fragola che a un certo punto canta ‘ma il cielo ti resta grabbato negli occhi si sa’?

Grabbato: che neologismo, quanto è avanti questo ragazzo!

To grab letteralmente significa, in inglese, afferrare; si usa spesso quando si cattura un’immagine da pc, tipo quando si fa un printscreen, per poi incollarla da qualche altra parte.

Quindi il cielo che ti resta grabbato vuol dire che ti resta impresso, gli occhi lo catturano, lo afferrano, e la mente lo tiene in memoria.

Suggestivo, penso.

Invece no, non dice grabbato: dice AGGRAPPATO… che delusione!

(Però almeno il concetto è lo stesso!)