Il mio vademecum zen

Alcuni trucchi che ho imparato e che con me funzionano; li condivido, ma non prendeteli come dogmi, si tratta più che altro di un mio memorandum.

    Nessuno ce l’ha con te, nessuno ti vuole del male: la spiegazione più semplice alla maggior parte dei comportamenti è quella a minor consumo energetico, ovvero la stupidità. Diceva la mia mamma che va preferito il cattivo allo stupido perché il primo, una volta a settimana si riposa. Fare del male agli altri, deliberatamente, è un’attività che richiede impegno: nessuno spreca così le sue forze, a meno di un movente forte. Molto più semplice che un comportamento che ti ferisce sia semplicemente una noncuranza.
    Se qualcosa ti fa star male, cose che il tuo prossimo ha detto / non detto o fatto / non fatto, la reazione migliore è lasciar perdere: ogni volta che ritorni a pensarci, anziché soffrirne, pensa ad un tergicristallo che spazzola il parabrezza mentre piove; l’azione incriminata deve essere come quelle gocce d’acqua che scendono copiose: spazzate via. Mantieni la concentrazione sulla guida, punta dritto verso il tuo obiettivo e non dissipare le tue energie nel rancore.
    Sei esattamente qui ed ora, fattene una ragione: HIC ET NUNC! È inutile sospirare che staresti / eri stato / starai meglio altrove o con altra compagnia; vivi il presente, osserva ciò che ti circonda, ascolta le persone, apprezza ciò che è.
    Due persone che parlano tra loro a bassa voce e ogni tanto ridacchiano, non stanno parlando male di te, semplicemente parlano dei fatti loro.
    Azzera la contabilità della reciprocità: può accadere che qualcuno goda della tua stima pur senza ricambiarla; non è motivo sufficiente per sminuire il tuo sentimento.
    Accetta i complimenti: fino a poco tempo fa mi mettevano in imbarazzo, la prima interpretazione che attribuivo loro era l’esatto contrario. “Mi dice sei bella ma è sarcasmo, in verità mi sta dicendo che sono un cesso, lo fa per prendermi in giro”. Poi ho abbandonato la ricerca della dietrologia: prendo ciò che mi viene detto per sincero, e ciò che non mi viene detto per quello che vale, ovvero nulla. Perché qualcuno dovrebbe dirmi che faccio bene quando intende il contrario? Eventualmente si può anche stare zitti. Da quel momento ho iniziato ad accettare i complimenti con un semplice grazie.
    Se qualcuno è (verbalmente) aggressivo nei tuoi confronti si tratta con buona probabilità di un atteggiamento di autodifesa: non cogliere illazioni.
    Fai i complimenti: se riconosci un merito al tuo prossimo perché non dirglielo? La mia spiegazione era che ovviamente il mio prossimo lo sapeva già e non serviva che aggiungessi la mia voce al coro, avrei solo annoiato; invece dire una cosa positiva, anche se scontata, fa sicuramente bene a chi la ascolta e potrebbe anche aprire un canale di comunicazione finora assente.
    Non sentirti in dovere a fare / non fare: fai esattamente ciò che ritieni opportuno, e non perché devi o non puoi esimerti. Non c’è dovere nel contraccambiare un invito, un regalo, una telefonata, un messaggio: rispondi solo se è ciò che desideri fare, richiama o invita a tua volta solo se ti va; oppure sorprendi qualcuno con un regalo inatteso, se ti va di farlo.
    Segui le persone positive, evita quelle negative: chi ha un atteggiamento disfattista non sarà mai contento di nulla, rischia di rovinare anche la tua esperienza; al contrario le persone positive ti aiutano a trovare del buono in ogni cosa.
    Evita le discussioni: non portano da nessuna parte. Quelle sui social in particolare sono fine a se stesse: puoi comunque scrivere tutto il tuo bel post di argomentazioni e anziché cliccare invio … cancellare tutto.
    Non aspettarti nulla: solo così ciò che arriverà sarà sempre superiore alle attese, solo così deluso non puoi rimanere.
    LEAST BUT NOT LAST: Sorridi: sempre, comunque. Chi ti vede sorridente è più propenso a considerarti sotto una buona luce.

Impara a vedere gli altri come sono realmente. Se vedi gli altri come sono realmente, senza prendere nulla in modo personale, niente di ciò che dicono o fanno ti potrà ferire. Anche se mentono, va bene così. Stanno mentendo perchè hanno paura che tu scopra che non sono perfetti.

(Don Miguel Ruiz)

Campionati italiani nuoto master 2018: Palermo

Mi ostino a riprodurre la moviola tecnica e rischio di smarrire tutto il resto, faccio da impermeabile ai ricordi quelli belli, che ogni viaggio infondo ti arricchisce.

Da bambina quando venivo redarguita, se tornavo ilare nel giro di poco davo la sensazione di non aver compreso il senso del rimprovero.

Allora me ne stavo corrucciata un altro po’, alla ricerca della dose di tempo corretta dopo cui riprendere il gioco.

Probabilmente mi trascino questo atteggiamento, per certo è ora che me ne liberi, chè la memoria non è più così salda, se non scrivo molti dettagli evaporano.

Il Valerio Catullo è piccolo, ma è un aeroporto a tutti gli effetti: un non luogo, uno di quei posti standardizzati, uguali in tutto il mondo.

Se perdi il biglietto del parcheggio fai meglio a ritrovarlo, se metti liquidi nel bagaglio a mano, anche se il bagaglio va in stiva, te li fanno lasciare giù.

Poi una volta a bordo, sui low cost, ogni minuto di volo è buono per venderti qualcosa: un panino? Un profumo? Un biglietto della lotteria? Un po’ di aria da respirare?

Il sud, le isole in particolare, hanno questo clima eccezionale che fa caldo giorno e notte ma non lo soffri, è ventilato.

È un caldo che respiri, che ti dà energia, che ti fa sentire partecipe dell’estate, non ti opprime alla ricerca di un climatizzatore.

Trovo che la gente del luogo sia raffinata ed accogliente: lo è la signora che mi vende il biglietto della navetta prestia & comandè; lo è l’autista del bus; lo è il gestore del locale in cui andiamo a cenare, che sembra appena sceso da una passerella di Dolce & Gabbana, con quel taglio di capelli corto ed asimmetrico che incornicia un viso dallo sguardo intenso, sullo sfondo di una carnagione che racconta una vita a contatto col sole, ma senza litigarci.

Il gruppo a cui mi sono unita, quota parte di una squadra romana, mi mette subito a mio agio; non avevo dubbi, la simpatia della loro parlata mi dà sicurezza, ma poi ogni caso va verificato.

Un conto è socializzare sul web, la simpatia online è una cosa; poi c’è il feeling dal vero, la conversazione che ingrana, le risate genuine.

Partecipo ai CI, campionati italiani, da ormai 15 anni, ho mancato qualche edizione per causa di forza maggiore, ma si tratta di un appuntamento per me imperdibile.

Una delle edizioni che ho perso è stata quella del 2010, Sofia aveva pochi mesi; in quell’anno ad Ostia aveva presenziato Raul Bova. Vabbè.

Negli anni le persone vanno e vengono (Raul però non si è più visto) ma lo zoccolo duro persiste, gli argomenti di conversazione non mancano, da racconto nasce racconto.

E questo che fine ha fatto? E quell’altro?

Unioni, nascite, trasferimenti; anche vicende spiacevoli ahimè.

Una minitalia della vita.

La prima notte scorre tranquilla, al mattino successivo sono in piscina già di buonora.

Un impianto enorme, pulito, spazioso; non è di recente costruzione ma si mantiene decisamente bene.

Gente che non incontri da un anno, ma che ti saluta come se fosse stato ieri l’ultima volta. Tranne quei ‘ti trovo in forma, ma sei dimagrita?’ che valgono da soli l’intero viaggio, e che richiedono un lasso di tempo sufficiente a rilevare la differenza.

La vasca si popola durante il warm up, ecco il momento che ho tanto atteso per un anno intero. Mi piazzo in tribuna esterna, in un posto che abbandonerò presto perché non posso rimanere sotto il sole tutto il giorno. Un vecchietto dietro di me, con la pelle color del latte, si cosparge da capo a piedi di un unguento denso che lo rende ancora più bianco; poi si cala un copricapo che gli protegge la testa.

Io mi avvio in camera di chiamata, forse quell’unguento avrebbe giovato anche a me, siamo numerosissime sotto un gazebo striminzito, per sedersi bisogna cadere giusti come i pezzi del tetris.

Gara secondo il mio pronostico, chiacchiere, foto… sta andando tutto bene.

Ho appuntamento per le 13 per la premiazione del concorso letterario a cui ho partecipato e, inaspettatamente, sono stata selezionata come vincitrice assieme ad altre due.

Arena, sponsor ufficiale della manifestazione, ha indetto anche un altro concorso, una sorta di puzzle in cui chi ha la tesserina che combacia con una sagoma incisa su un totem, puó incontrare i tecnici della nazionale per un colloquio e chiedere consigli.

Le due premiazioni hanno luogo contestualmente così ho visto da vicino due personaggi famosi nel settore.

Nel kit che ho vinto c’è un costume, ma la taglia non è la mia: chiedo di provarne un’altra allo stand Arena.

Mentre mi specchio e rifletto sulla vestibilità, un’altra donna ha bisogno del camerino, mi chiede se può condividerlo, e anzi se la posso anche consigliare.

Ora pensate a quante volte succede di andare in un negozio di abbigliamento e intrufolarsi in un camerino occupato: come minimo la persona che sta dentro aggiusta un po’ la tendina e vi manda a quel paese.

In questo frangente invece, oltre ad essere una cosa normalissima, mi ha permesso di allargare la mia cerchia di conoscenze, è stata una specie di carrambachesorpresa, perché ci conoscevamo già senza sapere di conoscerci.

Il tizio dello stand sembrava anche un po’ impaziente che ce ne andassimo a chiacchierare da un’altra parte.

È questa capacità intrinseca di conoscersi già, questo magnetismo nello stabilire un contatto, questo riuscire a creare empatia dal nulla, da due chiacchiere scambiate sotto la doccia, sulla panchina di uno spogliatoio, sotto l’ombra che manca in camera di chiamata, su una tribuna affollata con l’andirivieni di mille persone; è questo che rende speciale ogni manifestazione, e i CI elevati a potenza; è questo che cerco nella vita di tutti i giorni e che sembra così raro.

Sono i dialoghi che nascono dal nulla e poi procedono ad oltranza, la capacità di riassumersi in pochi minuti, di ritrovarsi pur non essendosi mai visti prima.

“Come ti sei fatta male?” chiedo a una il cui collo del piede è visibilmente abraso; penso ad un incidente da piscina, una scaletta che ha ceduto nell’uscita, un tirante di piastra poco in vista, a me capita spesso di inciamparvi.

“È stata l’estetista” risponde “mi ha fatto la pedicure e con la raspa mi ha passato anche sopra il piede; un po’ le ho lasciato fare, poi l’ho fermata perché mi stava facendo male.”

E chi se lo immaginava che bisogna stare attenti all’estetista???

Viene anche il tempo della seconda gara, al pomeriggio.

Questa volta mi avvicino con tempi più misurati al gazebo; c’è un’addetta ai concorrenti agli esordi che mi dice che per gareggiare devo sfilarmi gli anelli.

Mi prende il panico, perché l’operazione mi richiede, in un pomeriggio assolato di caldo e mani gonfie, almeno mezz’ora a braccia sollevate e una saponetta intera.

Per fortuna la sua collega non lo ritiene necessario.

Gara al di sotto delle aspettative ma non me ne cruccio più di tanto perché probabilmente sono partita un po’ moscia di testa.

Dopo la gara accompagno una persona allo stand esterno, un’altra esposizione monomarca che ha disposto il suo banchetto in parcheggio.

La presenza di uno sponsor ufficiale relega gli altri stand a collocazioni minori.

Non c’è il camerino di prova, una delle donne che si prova i costumi indossa un paio di ciclisti con una tasca posteriore, forse dentro tiene un mazzo di chiavi: rimango ad osservarla un bel po’, non mi spiego come possa giudicare la vestibilità di un costume sopra un fagotto.

Nel giardino dell’impianto ci sono altri stand: uno che vende gelati e granite, ottimi; uno che vende assicurazioni, gestito dal marito di un’atleta che ha gareggiato con me in tutte le prove.

Dico atleta, perché di questo si tratta.

Mi sono rigirata un po’ sul sostantivo da usare per riferirmi alle partecipanti: ragazze? Si, per me lo sono, ma forse è impreciso. Signore? In verità si, ma per carità, no. Donne? Generico.

La verità, vi prego, sul loro nome!

Atleta è questa con la A maiuscola: di nazionalità olandese, medaglia d’oro a Pechino 2008 con la squadra di pallanuoto.

E atlete, per par condicio, tutte le altre.

La verità è servita!

La zona antistante l’ingresso, ampiamente ombreggiata, diventa la mia collocazione preferita. Di qui passano un po’ tutti, e memorabile il gruppo che sentenzia

‘Noi siamo forti, sono i tempi che mentono’.

L’autostima è la panacea di tutti i mali!

Al di là della strada esiste un’altra gelateria: se il banchetto dentro l’impianto vendeva gelati ottimi, questi sono superlativi. Provo dei gusti mai assaggiati: il gelso, il pistacchio, il cioccolato all’arancia.

La merenda si rivela provvidenziale perché si cena molto tardi, dopo una passeggiata per il centro illuminato come se fosse Natale, per la festa di Santa Rosalia.

La squadra a cui mi sono agganciata si è riunificata in un ristorante: è tardi, siamo in parecchi, accettiamo la proposta di qualche antipastino in attesa delle ordinazioni.

Il concetto di antipastino corrisponde all’equivalente delle mie cene dal lunedì al venerdì.

Poi arriva il piatto ordinato.

Mi sento sul punto di esplodere, ed ecco che il gestore, capelli lunghi e brizzolati raccolti in una lunga coda sulla schiena, ritorna spingendo il carrello dei dolci.

Li propone ad uno ad uno, narrandone gli ingredienti come se fossero i suoi figli.

Vedendomi poco concentrata mi interroga e di fronte alla mia dimostrazione di disattenzione mi riprende scherzosamente chiedendo di ritornare accompagnata dai genitori.

Mi vien da ridere, spero proprio di non pagare così tanto la cena luculliana appena gustata! Ma non credo che lui si sia reso conto della sua gaffe abnorme.

Decido che il ritorno lo faccio tutto a piedi, in qualche modo devo pur smaltire tutto quel che ho mangiato. Il tragitto di andata lo avevamo fatto metà in autobus, non mi ero resa conto che fosse così tanta strada, mi ero distratta ascoltando quelli che cantavano Malgioglio, ‘mi sono innamorato ma di tuo marito’ in coro.

La risata, non sai da dove parte, perché il motivo non c’è; ma ti libera le endorfine.

Mi ricorda un po’ quando ho visitato Barcellona e la domenica sera i bus terminano le corse presto: tutto il paseo de Gracia a piedi, ma è stato bellissimo.

Potrei percorrere a piedi anche l’autosole se sono in buona compagnia.

La notte trascorre agitata: sarà l’orario, sarà stata la cena, sarà il caldo o il rumore che sale dalla strada.

Un po’ anche la tensione per la gara che attendo dallo scorso novembre: ogni volta che ci penso il cuore mi pompa più forte e sobbalzo.

La gara è prevista per il primo pomeriggio, me la prendo con molto comodo.

Arrivo in piscina col bus: insieme a me scende qualche altra atleta, a una di queste che cammina assorta in mezzo alla strada risparmio un investimento ma lei sembra non farci caso.

Organizzo tutte le mie cose, le chiudo in un armadietto e vado a sedermi al mio solito posto all’ombra.

Sono seduta da un minuto, mi sto rilassando e mi si accende una lampadina: la chiave!

La chiave del lucchetto dove è? Eh… dai… dov’è?

BEL COLPO ELENA! Grandissima mossa!

La chiave è nella tasca anteriore dello zainetto, e lo zainetto è dentro l’armadietto. La prima cosa a cui penso è la gara: mi tocca farla col costume normale. Cartellino e cuffia li ho con me.

Il secondo pensiero va ai documenti: senza di essi non torno a casa.

La soluzione c’è e si chiama cesoia: un gentilissimo signore la recupera dal ricovero attrezzi e mi accompagna allo spogliatoio: posso entrare? Mi chiede.

Entro in avanscoperta e ovviamente è saturo di donne nude: chi si infila il costume, chi lo leva, qualcuna in mutande che si spalma la crema.

Avviso che devo fare entrare un uomo ed è subito sommossa popolare; spiego cosa ho combinato e nel giro di due minuti ho il via libera. Con un arnese lungo quanto il suo braccio il picciotto fa saltare per aria il lucchetto e mi rimette in possesso di tutte le mie cose: il mio eroe!

Al bar ho prenotato una pasta al pomodoro, ma quando la ritiro mi trovo tra le mani una vaschetta contenente ciò che io definisco pasticcio. Sorvolando sulla porzione, che a casa mia basta per quattro persone, io avevo pensato ad una cosa più leggera possibile, solo mi sembrava eccessivo chiedere la pasta all’olio. Mi siedo sulla scalinata a fianco di altri due, un ragazzo e una ragazza, che lavorano in segreteria e stanno facendo pausa. Chiedo loro se quello che il bar mi ha servito è proprio una pasta al pomodoro o se si sono confusi. La ragazza mi propone lo scambio con la sua pasta, ancora intatta, che sembra più semplice.

Mentre ci confrontiamo i pasti passa di lì un altro signore che si ferma a conversare.

Inizia a considerare che quella che sto mangiando non si può ritenere una pastasciutta: mancano le polpettine di carne e le melanzane, almeno.

“E dire che io la avrei voluta in bianco…” dico sommessa.

“In bianco? Guardi… infondo a quella strada c’è l’ospedale, la pasta in bianco la fanno benissimo là.”

Ho imparato bene la lezione del gazebino, ora attendo da sopra l’avvicinarsi della chiamata alla gara per la mia categoria. Ai blocchi ci sono quasi subito le M65, si va in ordine di età decrescente. Un uomo con la reflex al collo mi usa come riparo per andare meglio a scattare le foto: sta per tuffarsi sua moglie, mi fa osservare che gareggia al fianco della Perla di Labuan.

E infine la mia gara, il mio 50 stile: sigh, quella vasca da percorrere a tutta forza; quella distanza minima che in genere agli ultimi metri arranco e invece mi son detta: già arrivata? Non ero abbastanza stanca, segno evidente che non avevo dato fondo alle energie. E infatti, amara scoperta, un tempo scatologico.

Sono passati gli anni di gioventù in cui davanti ad un risultato deludente lanciavo tutto per aria, ho maturato, o forse perso determinazione; il conforto degli abbracci, la gioia di vedere che a qualche altra è andata meglio, ricaccio in giù il groppo.

Un anno intero a guardare un obiettivo, sfumato.

Esco dall’impianto, ritorno a quella consolatoria gelateria, ritrovo altre persone, mi chiedono dettagli.

Rispondo, mi fanno sentire di cacca, in senso buono: è accaduto anche a me di osservare prestazioni al di sopra delle mie capacità, congratularmi e leggere rammarico invece dall’altra parte.

Essere delusi è una cosa, mancare di rispetto verso il resto della graduatoria un’altra.

Mi fanno il verso, oh poverina, che tempaccio.

Da adolescente, quando nuotavo da assoluta e non da master, mi hanno inculcato di guardare solo avanti, solo chi arriva prima di me, solo di provare a superarle. Le altre, quelle che stanno indietro, a te non devono interessare.

L’insegnamento è giusto, solo guardando avanti ci si può migliorare.

Però adesso, a 45 anni compiuti, uno sguardo d’insieme me lo posso concedere.

Ho gareggiato a fianco di atlete forti, dietro di me moltissime altre, che non ho motivo di credere che ci abbiano provato di meno.

Altre volte ho fatto di meglio e voglio continuare a provare, voglio rifarlo, voglio concedermi il dubbio che riprovandoci posso riuscire.

Questo dubbio mi tiene su una corda tesa, mi fa partire da casa nelle sere d’inverno per andarmi ad allenare; questo dubbio fa una pernacchia al divano e stringe la mano al mio sistema cardiocircolatorio; questo dubbio fa si che quando mi guardo allo specchio vedo me stessa e ne sono contenta, non ho bisogno di nascondermi o di camuffarmi, mi vado bene così.

Mi resta un rammarico: non aver fatto nemmeno una puntata a Mondello.

Parole di Vicenza (e dintorni): sorate!

Quale sistema migliore per ripristinare una situazione di equilibrio? Isolare!

Sorarse significa letteralmente ‘portarsi sopra’ ovvero sora.

L’effetto del portarsi sopra è quello di raffreddarsi, quindi per estensione calmarsi.

“Aspetta che ‘l se sòra”, pronunciato con la O molto aperta, significa ‘aspetta che si raffreddi’ e in genere si riferisce alle pietanze che sono rimaste sul fuoco e sono troppo calde per essere fagocitate.

Molto usato anche dopo una fatica: ‘me sòro un poco’ ovvero mi riprendo, mi raffreddo dalla sudata, mi asciugo.

Io l’ho sempre sentito usare anche per i panni, che vengono stesi a ‘sorarse’.

Da qui deriva un’espressione che a me piace molto che è una sorta di raccomandazione: sòrate! Ovvero calmati: lo si dice a persone agitate invitandole a raffreddarsi, a sbollire.

Mi piace perché non è offensivo, pur assomigliando per assonanza all’esclamazione napoletana con cui ci si riferisce alla sorella dell’interlocutore, alludendo velatamente alla sua facilità di costumi.

Un consiglio estivo ed affettuoso da usare con cautela verso persone troppo irascibili.

L’ukulele

– Se almeno io avessi mai visto un #ukulele…

Un rivolo di sudore si imperla dalla fronte di Priscilla e scende lungo la gota, perdendosi sotto il mento.

+ E che te ne importa di vederlo?

Chiede di rimando Andrea, seduto sulla sdraio, senza distogliere lo sguardo dalla Gazzetta dello Sport.

– Beh, se lo avessi visto, saprei come è fatto!

Priscilla stizzita sbuffa sporgendo il labbro inferiore, in modo da orientare il soffio verso la frangia, madida.

+ E come vuoi che sia fatto? È fatto come una chitarra, ma più piccolo, ha solo quattro corde.

Andrea imperturbabile continua a sfogliare il suo quotidiano rosa.

Bimbi zompettano sulla sabbia arroventata nell’ora più calda della giornata, mirando a raggiungere la battigia nel minor tempo possibile.

Qualcuno strilla, qualche altro ride, tutti sollevano la sabbia che finisce inesorabile sull’asciugamano di Priscilla.

– Ecco, vedi? Adesso mi hai dato la soluzione!

Priscilla a metà tra lo sbalordito e l’annoiato, volge lo sguardo all’orizzonte, semi accecata dal riverbero: il mare è calmo ma le radiazioni solari producono uno sbrilluccichio intenso.

+ Ma la soluzione di cosa?

Andrea mantiene lo sguardo fisso sulle pagine che commentano la partita di calcio giocata la sera precedente.

Un rigore che proprio non ci stava, un arbitraggio tutto sbagliato.

– Ah, niente, sto facendo un cruciverba, non ne vengo proprio fuori. Ma fino a pochi istanti fa pensavo che l’#ukulele fosse uno strumento a fiato, adesso ho scoperto che è a corde.

Priscilla riprende a leggere da capo tutte le definizioni degli incroci obbligati, galvanizzata dalla nozione appena appresa, che apre uno spiraglio sulla risoluzione dell’enigma.

+ Si però io continuo a non capire… con questa meravigliosa giornata di sole cosa ci rimani a fare sotto l’#ombrellone? Perché non ti tuffi in mare?

Andrea non vorrebbe lasciarsi travolgere dall’irrequietezza di Priscilla, ma l’esercizio comincia a richiedere più energia di quella che ritiene lecito profondere.

– Oh ma insisti anche? Ho il ciclo, lo vuoi capire? Non sono attrezzata per andare a farmi un bagno, e nemmeno una passeggiata sul bagnasciuga.

Priscilla si è irrigidita, la sua voce è diventata stridula.

Sul tavolinetto rotondo che decora l’asta dell’#ombrellone ci sono un flacone di crema solare, uno spruzzino e la carta bordeaux di un gelato mangiato.

+ Scusa ma sono di coccio: non ti puoi infilare un #tampax come fanno tutte le altre donne? Mi sembra che stai complicando una cosa tanto semplice.

Andrea spara le ultime cartucce prima di rovinare nel burrone della discussione accesa.

– Beh ma guarda… hai una bella faccia tosta sai? Io cerco di lasciar correre ma tu… ti avevo giusto chiesto di ritornare a prendere la coppetta!

Priscilla ormai ha sciolto ogni riserva, e dissotterrato l’ascia di guerra.

+ Eh… e io cosa ho fatto? L’amarena non va bene? Preferivi forse panna e cioccolato, è questo il problema?

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Un racconto di fantasia creato a partire dal suggerimento di tre parole chiave #ukulele #tampax #ombrellone

A-E-I-O-U … ypsilon!

“Ti mando un vocale

Di dieci minuti

Soltanto per dirti

Quanto sono felice

Ma quanto è puttana

Questa felicità

Che dura un minuto

Ma che botta ci dà”

Se la felicità dura un minuto e il vocale ne dura 10, a me non tornano i conti: che cosa c’è nei restanti 9? Se dopo un minuto l’effetto è scemato, i 9 minuti di botta come si articolano?

Ho un rapporto controverso con i messaggi vocali.

Riceverli mi dà calore, perché senti la voce dell’altra persona, e senti parole, le inflessioni, gli stati d’animo per esteso, non quelli condensati nelle emoticon.

Le faccine preconfezionate non dànno nessuna garanzia di sincerità: ti mando a quel paese ma poi 😍 … 🙃… sto scherzando…

Se ascolti la voce puoi cogliere infallibilmente tutte le 50 sfumature di vaffanculo; o di ti voglio bene; col messaggio scritto ti resta sempre il dubbio.

Riceverli mi imbarazza, perché io sono abituata al dialogo: parli tu – pausa – parli tu – pausa – parli tu; se sto ascoltando quello che dici a me ad un certo punto sorge spontaneo controbattere ‘ti capisco’, ‘immagino’, ‘ma no dai ti sbagli’, ‘lo vorrei anch’io’, ‘piacerebbe anche a me, ‘no quel giorno ho un impegno’.

Mi viene così naturale che lo faccio, e subito mi rendo conto che sto dialogando con una segreteria, e mi sento abbastanza allocca.

Riceverli mi mette in apprensione: non puoi sbirciare, avere una vista d’insieme e poi rileggere, approfondire. Nessuna anteprima, solo il triangolino e la durata, dentro non sai se ti viene comunicato che è morto il gatto, la Cina ha dichiarato guerra alla Russia, arriva una zia a cena o semplicemente ciao.

Inviarli invece? A inviarli ho imparato da poco.

Imparato è un parolone, diciamo che ho fatto un paio di prove tecniche, riuscite in senso lato.

Sono arrivati a destinazione è più corretto.

Dopo il secondo andirivieni di fumetti col triangolino mi domando che senso ha rimpallarsi messaggi registrati quando ci si può comodamente telefonare.

Anche trasmetterli mi imbarazza perché ciò che dico mi sembra di raccontarlo ai 4 venti, si perde l’intimità.

Qualche sera fa ho visto una che teneva il cellulare di traverso.

Subito pensavo che avesse rotto lo smartphone e che stesse imprecando nel tentativo di ripararlo, ma era troppo serena. Non parlava fortissimo: sembrava che soffiasse via delle briciole, come se ci avesse mangiato sopra dei cracker.

Dopo un po’ ho sentito che parlava, faceva anche delle smorfie, e ho realizzato allora che lo usava proprio come si usa un microfono, o un registratore, e stava mandando vocali in serie.

Faceva discorsi lunghi, piuttosto disarticolati, con tante pause, che non erano dei silenzi ma oooooh, mmmmmhhhh, eeeehh.

Quando ho discusso la tesi di laurea uno dei miei pensieri principali durante la presentazione era quello che non dovevo addormentare la commissione con i vocalizzi tipici di chi sta formulando un pensiero.

Prima della mia avevo seguito altre discussioni e quel continuo mugolio mi dava proprio i nervi.

Fondamentale allo scopo è avere chiaro cosa si vuole dire, che è comunque diverso dal recitare un discorso a memoria, ma prevede una solida preparazione.

Ho capito quindi tre cose:

1) non riesco a mandare i vocali perché per mia natura prima dovrei scrivermi il testo;

2) quando si mandano i vocali non occorre tenere l’orecchio in posizione di ascolto (ecco perché ho tagliato testa e coda del messaggio nei miei tentativi);

3) i nove minuti che mancano ai thegiornalisti sono saturi di oooohhh, eeeeehhh, mmmmhhhh; ma allora… sono veramente dieci minuti di vocali!

Domande indecenti

“Quando trovi il tempo per scrivere?” è una domanda subdola, perché non è volta a conoscere la risposta (es. di notte o in fila alla posta o al cesso).

Non ho mai sentito nessuno passare davanti a un bar in orario aperitivo e chiedersi ‘dove lo trovano questi il tempo per uno spritz?’ o peggio vedere un fumatore appartato e porsi analoga domanda.

Scrivere è un vizio, come rosicchiarsi le unghie, quasi una specie di tic: osservi qualcosa e ti viene da buttare giù due righe, provi un’emozione e vuoi fissarla, hai un pensiero ricorrente e vuoi stigmatizzarlo, ti viene un racconto e vuoi condividerlo.

Fino a che non l’hai deposto nero su bianco ti senti prigioniero, schiavo di frasi in cui il soggetto rincorre aggettivi capricciosi, ninfe prede di un satiro.

Tossico in crisi di astinenza, ti accontenti del metadone degli attimi vacui tra un’attività e l’altra, di ritagli di tempo misurabili in frazioni di minuto.

I periodi si aggrovigliano se non li stendi, come i panni che restano nel cesto umidi: o li sciorini al sole oppure si impuzzano, prendono odore di stantio.

Come un pellerossa che schiva i dardi della tribù avversaria cerchi di mancare tutte le interferenze, i vari dove hai messo la mia maglietta?, da quanto tempo bolle la pentola?, che giorno è domani? e tutti gli interrogativi mistici ed urgentissimi che sembrano aver atteso quell’istante di quiete per palesarsi.

Solo riuscire a scrivere ti libera la mente da questi fantasmi; solo quando hai concretizzato il pensiero in inchiostro o in byte ti fa sentire di averlo messo al sicuro, al riparo, come un bambino bisognoso di protezione.

Ironia delle circostanze, quando il tempo lo trovi mancano completamente le idee: tabula rasa, nessun concetto, un cimitero di parole inermi, grida lanciate contro una parete troppo distante che non ricevono un eco di ritorno.

‘Quando trovi il tempo di scrivere…’ si completa del suo corollario malcelato ‘… che io non trovo nemmeno il tempo di leggerti?’.

Che poi, la fila in posta, la seduta al wc, la notte… ce li avrai anche tu, no?

‘Quando trovi il tempo di scrivere?’ sottintende la coda di paglia del mancato lettore di non riuscire a stare al passo.

È come se per seguire i mondiali di calcio un appassionato non trovasse il tempo: il tempo si ricava per ciò che sta a cuore.

Ogni volta che qualcuno mi chiede ‘Quando trovi il tempo di scrivere…’ io recepisco un valore aggiunto che si traduce in ‘…tutte quelle troiate?’.

Allora mi spengo, mi limito, evito di intrappolare in soggetti, azioni, avverbi (pochi, Stephen King suggerisce di limitarne l’uso) e li lascio decomporsi nella mia testa per paura di disturbare chi non è interessato.

‘Quando trovi il tempo di scrivere?’ è una domanda avvilente perché dissimula disprezzo; ed è una domanda disonesta perché sposta il soggetto dell’incapacità.

Non fatemela più!

Luglio

Abbiamo bisogno di segmentare, suddividere in cicli, creare dei cippi intermedi al nostro percorso; che invece è unico, tortuoso, lento e imprevedibile.

Celebriamo ripetutamente momenti miliari che non distinguono il prima dal dopo, solo cadevano li, come i chilometraggi dell’autostrada, un numerino su un cartello verde ogni 1000 m e intanto il tran tran è sempre il solito.

Capodanno, fine anno scolastico, prima delle ferie, quando si cambia lavoro… bisogna trovarsi, si deve uscire a cena, ci si vuole salutare; che ansia, che sovrapposizione, che tour des forces.

Dove saranno tutti nascosti? In qualche località remota?

Il bello è che ci si saluta, come un addio eterno, e ci si ritrova il giorno successivo allo stesso posto, cambiando semplicemente nome alle cose: la terza classe diventa quarta, il 2018 diventa 2019, le vacanze si dissolvono nella routine quotidiana come ghiaccio al sole.

Luglio sta nel mezzo, fulcro di un anno che è una leva perfetta: sei mesi di qua, sei mesi di là.

Luglio è l’incudine imperturbabile su cui batte il martello della frenesia.

Luglio è la riserva inaspettata di un serbatoio in esaurimento.

Sabbia nera

Scrivere un libro è un’impresa che merita rispetto, per questo mi sono ripromessa di non parlare più dei libri che non mi sono piaciuti o che mi hanno lasciata perplessa.

I primi tra l’altro generalmente nemmeno li completo; al secondo gruppo appartengono i libri scritti bene e gradevoli ma che hanno una trama che dal mio punto di vista non chiude il cerchio.

Poi ci sono quei libri che invece sono delle perle, dal punto di vista stilistico e narrativo insieme, e per quelli mi sento in dovere di spendere buone parole.

Sabbia nera è uno di questi: una storia poliziesca ambientata a Catania.

Definirlo in questi termini, però, è riduttivo.

Il vice questore Giovanna Guarrasi, detta Vanina, è un personaggio completo: intanto è una donna, che dei vari Montalbano ne abbiamo a sufficienza; è una donna forte ed umana al tempo stesso.

È ineccepibile nel suo operato: sa quel che fa e lo fa al meglio. Ma quando non è in servizio è vittima delle debolezze più comuni: non sa rinunciare al cibo e respinge a fatica la corte di un uomo coinvolto nel caso.

È animata da una sete di giustizia positiva, legata a vicende familiari di quando era più giovane, che influenzano anche la sua vita sentimentale attuale.

Riesce a incanalare il suo desiderio di rivalsa senza scadere nella vendetta, e questo le conferisce un aura eroica.

Per queste ragioni è fuggita da Palermo e si è trasferita a Catania.

Ho avuto modo di visitare entrambe le città e ne sono rimasta affascinata.

Il romanzo è ambientato a Catania, e la vicenda attorno cui si snoda il racconto ha avuto luogo nella notte di Sant’Agata.

Per puro caso la mia visita a Catania è caduta esattamente a Sant’Agata, ma non nello stesso giorno. Infatti la Santa viene celebrata più volte durante l’anno: il 5 febbraio, data dell’evento del romanzo; e il 17 agosto, data della mia visita.

Nonostante l’antitesi stagionale, le due celebrazioni collimano: dietro la venerazione di Sant’Agata si cela il timore reverenziale verso l’Etna e le sue imprevedibili eruttazioni.

Sabbia nera è appunto la condizione atmosferica che proviene dall’attività del vulcano: cenere in sospensione che arriva fino alla città, e sporca ovunque.

Il romanzo si apre proprio con la riprovazione di Alfio Burrano di essere costretto a lavare nuovamente la sua Range Rover.

Alfio ritrova nella villa della zia, da cui è mantenuto, un cadavere mummificato, che si scopre risalire a cinquant’anni prima.

Da qui partono le indagini, che si dipanano nel tempo in cui non esisteva il luminol, nella borghesia catanese, nei legami tra cosche, negli amori coniugali ed extra coniugali, alcuni dei quali si sono protratti, con le naturali trasformazioni, ai tempi odierni.

Una sabbia nera in senso lato si è depositata su questo caso, risolto in maniera poco accurata.

Vanina, trasferita a Catania da poco più di un anno, vive sola, ma è riuscita a crearsi alcune amicizie; la sua vita professionale si alterna a gite al mare, feste di compleanno, ritorni a Palermo, cene intime con gli amici e passione per i film.

La padrona della casa in cui abita che le fa trovare un piatto sempre pronto; Giulia, l’amica avvocato che la trascina nella movida; l’amico medico legale gay; il commissario in pensione Biagio Patanè che riprende informalmente servizio per tornare su quel caso chiuso troppo in fretta; la gola profonda Lo Faro; la collega vegetariana Marta Bonazzoli, misteriosamente arrivata da Brescia.

Tutti personaggi ben disegnati che fanno da spalla al vice questore e consentono lo scambio di deliziosi dialoghi, ricchi di ironia e squisitamente siculi.

Le vicende poliziesche sono la portata principale ma le descrizioni ambientali, gli intrecci sentimentali, gli spazi dedicati alle specialità gastronomiche locali sono un contorno superlativo.

Leggendo Sabbia Nera non ci si pone il problema di indovinare il colpevole, si cerca piuttosto di crogiolarsi in una lettura gradevolissima che ci scaraventa in piena Catania con un arancino sul piatto mentre ci racconta della vita e degli amori di don Gaetano Burrano.

Mentre leggevo continuavo a immaginarmi una versione cinematografica dell’opera, che a quanto pare è già stata prevista.