La più amata

Teresa Ciabatti entra nei 12 finalisti del premio Strega 2017 con un libro intitolato ‘La più amata’, che tradotto in linguaggio corrente potrebbe essere ‘La cocca di papà’.

Non ricordo in base a quale segnalazione ho scelto questa lettura, e forse dopo aver tentato di leggere il libro vincitore del premio Strega 2016, La scuola cattolica, avrei dovuto avere delle riserve.

Invece no: lo stile è molto scorrevole, fatto di un flusso di coscienza intriso di dialoghi non introdotti dalle virgolette.

Tutto fluisce attraverso il pensiero dell’autrice senza che sia necessario specificare di volta in volta chi ha pronunciato una frase o l’altra.

Lo dico senza mezze misure: a me dover rileggere un passaggio perchè non ho compreso il significato urta i nervi, e spesso è motivo di abbandono di una lettura.

Questo non accade nemmeno una volta, piuttosto succede che si ripeta il racconto di una stessa situazione in due passaggi diversi, giusto per rinforzare il concetto.

La storia è una sorta di autobiografia, la vita dell’autrice. In realtà i riflettori sono puntati molto di più sulla vita dei suoi genitori: ora che sono morti trova il coraggio di raccontarne le vicissitudini.

Il padre di Teresa era un primario ospedaliero molto stimato ad Orbetello; la madre, anch’ella medico, proveniva da Roma.

Teresa, che ha anche un fratello gemello, Gianni, ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza molto agiate dal punto di vista economico.

Eppure l’intero racconto è inquietante: Teresa si interroga su molti aspetti della vita professionale di suo padre, sulle sue amicizie, sui suoi viaggi, sull’appartenenza alla massoneria.

Teresa è cresciuta in un’enorme villa con piscina sull’Argentario; ogni sua richiesta veniva soddisfatta, ogni capriccio assecondato. In una prima fase sembra portare riconoscenza e stima verso suo padre, che le concedeva tutto ciò e interveniva in suo favore per aiutarla di fronte a qualsiasi evenienza.

Da un certo punto in poi, molto presto nel racconto, inizia a riportare i suoi disturbi della personalità, l’altalena ponderale, i rapporti difficoltosi di amicizia.

Ricostruendo le vicende a partire dai dettagli di cui ha memoria, e arricchendole con quelli che le sono stati raccontati nel tempo, delinea un quadro angosciante del quale è protagonista suo malgrado.

Il libro è un’analisi lucida del suo passato, e un resoconto dettagliato del rapporto tra i suoi genitori: ma per quanto dettagliato è lacunoso in molti passaggi, che lei stessa dichiara di voler colmare per arrivare a comprendere la sua stessa identità.

Il racconto mi ha coinvolta molto: è sincero, è forte ed è sviluppato in maniera lineare, senza andirivieni nel tempo che il lettore potrebbe far fatica a seguire.

Mi rimane un dubbio: è possibile essere capaci di un’autovalutazione così distaccata? Si può giudicare se stessi e la propria famiglia in maniera così obiettiva? Perchè se è si, tanto di cappello. Se invece è no, ed è tutto molto romanzato, mi sento un po’ presa in giro.

Misteri misteriosi

Sono presente sui social dal 2008, quasi dieci anni. Dapprima mi sono fatta un profilo Facebook, poi Google+, poi Twitter, LinkedIn, Instagram… insomma a parte Snapchat li ho esplorati un po’ tutti, anche per curiosità.

Ogni social ha i suoi meccanismi, che sono dinamici: nel tempo evolvono, e di pari passo matura la persona che sta dietro al profilo.

Ciò che io stessa pubblicavo all’inizio, nei primi tempi di utilizzo, ora non lo pubblicherei più, o magari con parole diverse, o gestendo la visibilità in maniera adeguata al contenuto.

Un po’ alla volta ho capito come funzionano, soprattutto Facebook, quello più diffuso.

Ci sono però dei misteri, cose che tuttora non riesco a spiegarmi:

  • Quelli che si fanno il profilo doppio: Mario Rossi Paola Bianchi; oppure MarioPaola RossiBianchi.

Una volta c’era il duplex per condividere le spese del telefono, deve essere un retaggio di quell’epoca.

Il profilo è gratis, quindi non ne capisco il senso.

Chi lo ha sostiene che non ha segreti con il partner (con cui di solito condivide l’account) e mi verrebbe da dirgli che i social per definizione non sono posti adatti a gestire segreti per nessuno.

Avere un profilo doppio implica avere totale uniformità non solo di punti di vista, che può anche starci, ma di interessi. 

Tipo: se voglio partecipare ad un gruppo di utilizzatrici di coppette, tanto per prendere un argomento che distingue inequivocabilmente uomo da donna, questo può interessare solo al 50% il profilo.

  • Quelli che grazie per l’amicizia: anche questa è gratis, e non costa nemmeno fatica.

Quando ci viene presentato qualcuno per la prima volta si usa la formula ‘Piacere (di conoscerti)’. Vero che al primo incontro non si può essere certi che si tratti di un piacere, ma è una forma di cortesia.

Ma non si ringrazia per conoscere qualcuno. Se si chiede l’amicizia via facebook si presume che un qualche legame di conoscenza, magari blando, esista già. Quindi piacere sarebbe ridondante. Ma grazie? E grazie di che cosa? Forse quando si aggiunge un numero alla propria rubrica telefonica si ringrazia il titolare per avercelo concesso? A me sembra che ringraziare qualcuno per l’amicizia su Facebook corrisponda ad autoproclamarsi spammatori seriali: grazie al tuo contatto ho una persona in più da importunare.

  • Quelli che fanno gli auguri anche qua: come se ci fosse una check list da spuntare. 

Magari gli stessi auguri li hanno fatti al telefono due minuti prima. Oppure, più probabile, li hanno già fatti tramite qualche gruppo WA o via SMS. Forse credono che l’unione dei messaggi ne rafforzi il concetto. Io resto dell’idea che una telefonata allunga la vita, ma probabilmente ho una visione romantica della vita.

  • Quelli che saluti anche da parte di: no dai? Lo zio vuole salutare la nipote ma ‘non è su facebook’? 

Premesso che è questo un genere di messaggi che non ha ragione di essere pubblico, ma se tua nonna o la zia Esterina ti vogliono salutare, non possono proprio trovare un loro canale per farlo? Questo genere di soggetti mi ricordano quelli che incaricano altri di ‘metti la firma anche per me’ ai funerali. Gesto scaramantico.

  • Quelli che ti chiedono l’amicizia per non cagarti manco di striscio: sarò anche un’ingenua, ma se mi chiedi l’amicizia mi aspetto che ogni tanto ti scappi di leggere quello che pubblico.

Altrimenti è un po’ come abbonarsi ad una rivista e poi cestinarla senza nemmeno togliere il cellophane.

Oppure il senso della richiesta è avere un numero più alto di ‘amici’, come una virtuale gara a chi ce l’ha più lungo?

Parole di Vicenza (e dintorni): s-ciapo 

Mentre percorrevo la statale un nugolo di automobili lente si è immesso da una via laterale, approfittando del fatto che io avessi rallentato in vista di un semaforo rosso.

“Che s-ciapo de machine!” mi sono ritrovata ad esclamare.
S-ciapo si scrive col trattino per non mescolare la S e la C, il loro suono non si deve fondere come nella parola scivolare, non va confuso con il diagrafo italiano SC; il suono delle consonanti deve rimanere distinto, tipico della parlata veneta: anche mas-cio (che significa maiale) si dice così, con la S e la C ben disgiunte.
S-ciapo quindi non è sciapo, non è insipido. S-ciapo è un manipolo, un gruppo, un insieme numeroso.

Un gruppo di belle ragazze che girano assieme è spesso identificato come uno “s-ciapo de fighe”.

Invece un luogo isolato è “fora s-ciapo” (fuori mano) così come è “fora s-ciapo” un elemento che non si uniforma al gruppo.

Fora s-ciapo può anche essere il costo di una vacanza che va oltre il budget.

Il top di gamma di una serie produttiva può essere fora s-ciapo per le nostre tasche e una prestazione sportiva fora s-ciapo per le nostre capacità.

Fora s-ciapo denota comunque un senso di inferiorità.

Da cosa derivi non lo so, ma provo a immaginarlo: senza il prefisso della S privativa, ciapo è indicativo presente di ciapare, acchiappare.

Così lo stormo, il gruppo, essendo entità numerose, non puoi pensare di prenderle: s-ciapo inteso come ‘non ce la faccio a tenerli tutti insieme’; ma mi sa che è tirata per i capelli.

MEMORIAL ANDREA BETTIOL – XVI BIS

L’ottimismo è il profumo della vita è stato il mio mantra, concetto rinforzato dal SPF 10 infilato nello zaino già gonfio di felpe e biancheria.
Il Memorial Andrea Bettiol inaugura la fase ‘vasca scoperta’ per il Grand Prix del Veneto, gruppo di gare che si svolgono nella mia regione, entro il più ampio circuito di gare di nuoto master italiano annuale.
La data del penultimo weekend di maggio è ogni anno un terno al lotto meteorologico.

Sotto l’aspetto organizzativo invece l’appuntamento è una garanzia: impeccabile, anzi eccellente.
La vasca del Natatorium Treviso è un’ottima vasca, molto scorrevole, temperatura dell’acqua ideale e blocchi reattivi: in passato ho fatto anche qualche buona prestazione personale.
Quest’anno ho scelto di iscrivermi ad una gara per me insolita, una distanza medio lunga, la prima gara del sabato mattina. L’avevo già disputata negli anni precedenti e avevo fatto tesoro di un’esperienza: portarsi i calzini. Nelle prime ore del mattino la temperatura non è mai eccessiva e partire dal blocco con i piedi freddi è una pessima sensazione. Anche quei leggings che avevo preso a carnevale per fare Wonder Woman, che pensavo non avrei più utilizzato, sono ritornati utili per arrivare in temperatura fino al blocco di partenza.
Durante la prechiamata Martina, che fa parte dello staff, ci racconta che per la pasta del mezzogiorno, offerta a tutti gli atleti partecipanti, sono già tutti al lavoro. 

La sera prima hanno lavorato fino alle 1,30 perchè la manifestazione inizia già al venerdì pomeriggio.

Un’ospitalità completa quella della famiglia Bettiol, che non fa mancare proprio nulla ai partecipanti: dà da mangiare, da bere e li fà divertire.
Si tratta della 17esima edizione (anzi… 16 bis hanno preferito intitolarla): ma come? Mi sembra fosse ieri la prima volta che ho partecipato, era la 5a o 6a.

Si trattava allora di una gara a cui partecipavano poche persone, si svolgeva in una sola giornata, una gara di pochi intimi. 
Allora non c’erano tante delle cose che impreziosiscono oggi la manifestazione: non c’era un dj che sceglieva i brani da proporre in piano vasca; non c’era lo speaker Gilberto Zorat a presentare uno ad uno gli atleti con immutato entusiasmo e ad infondere a ciascuno in partenza una buona dose di energia (“siete pronte a scrivere il finale dei 400 stile?” ha chiesto alle partecipanti delle ultime batterie); non c’era il the caldo che ti viene offerto appena esci dall’acqua, graditissimo; non c’era Fabio Cetti ad immortalare con i suoi scatti i momenti salienti della competizione, e a rendere importanti anche quelli minori.
Per le prime edizioni la manifestazione aveva l’aspetto classico di una gara di nuoto; adesso, pur mantenendo lo standard che si richiede ad un evento ufficiale, offre molto di più. 

Attorno al piano vasca numerosi gli stand di materiale sportivo.
Tanto per fare un esempio, l’attuale stand Boneswimmer 15 anni fa era solo il saccone gigante di una ragazza di buona iniziativa che proponeva le sue creazioni a chi, incuriosito, si avvicinava a quel drappello di persone che attendevano di vedere cosa c’era infondo.
Adesso è un marchio conosciuto e rinomato nel settore per le sue fantasie sgargianti, con punti vendita sparsi in tutta Italia.
Ho approfittato delle ore tra i miei 400 stile e la seconda gara in programma, i 50 stile, per fare alcuni acquisti, incontrare vecchie amicizie e nuove conoscenze, osservare la passerella di altre atlete che si provavano nuovi coloratissimi costumi. 

Perché per noi atlete master un costume nuovo “vale un po’ come una Vuitton per le donne normali”, ha spiegato Manuela a chi sbuffava annoiato dai nostri discorsi su colori e modelli.
Mi è piaciuta un sacco questa distinzione tra le donne normali e un gruppo che non saprei come definire, ma che qualcosa di diverso, forse un po’ più di una passione, ce l’ha.
“La stessa acqua per cui nutrite tanta passione vi spaventa se arriva dal cielo?” ha incitato i presenti lo speaker prima che partisse l’ultima batteria della staffetta 4×100.

La domanda in realtà andava rivolta a coloro che hanno scelto, mal per loro, di rimanere a casa spaventati dalla pioggia.

Io stessa sono rimasta priva di buona parte della compagnia della mia squadra, ma sono stata accolta ed ospitata sotto il tendone della compagine di una squadra concittadina della mia.
Avrei certo preferito potermi sdraiare al sole sull’erba, ma mi sono fatta delle risate così genuine che difficilmente dimenticherò: nel tentativo di mantenere un equilibrio precario alla ricerca di quelle poche zone rimaste riparate e asciutte, l’equilibrio invece è mancato.

Sono finite a bagno, nell’ordine, un paio di scarpe e un piatto intero di pasta, sparpagliato sulle gradinate appena dopo che il pic-nic era stato predisposto con pazienza certosina: farfalle tricolore ovunque, una nota cromatica in una giornata così grigia.
Negli anni alcune caratteristiche si sono mantenute intatte, come la commemorazione di Andrea, al termine del quale momento vengono librati in aria numerosi palloncini bianchi.
La manifestazione è passata dall’essere una delle tante gare del circuito ad essere una delle più ambite, è insomma cresciuta, maturata: un po’ come a prolungare la presenza di Andrea, che non ho avuto il piacere di conoscere, che al momento della prima edizione era un ragazzo e adesso sarebbe un uomo.

Una partita a carte

Il destino mescola le carte e noi giochiamo (A. Shopenauer)

La vita assomiglia molto a una partita a carte: inutile pianificare a distanza troppo lunga, perché non sai esattamente che carte avrai alla prossima mano nè che carte pescherà il tuo avversario.

Però non puoi calare gli assi a caso: devi stare attento a ciò che è sceso nelle mani precedenti e pensare quale è la tattica di gioco migliore.

Se la regina di cuori non è in mano tua, e non è ancora scesa, può essere nel ventaglio del tuo avversario o trovarsi ancora nel mazzo. E così la luna nera.

La casistica nella vita reale è ancora più vasta perché nella partita hai la certezza che prima o poi qualcuno pescherà il due di picche, mentre nella vita quotidiana potresti anche avere molta fortuna e non trovarlo mai.

Inutile quindi arrovellarsi su quando si farà che cosa, lo potrai decidere solo nella tua mano da giocare, ma allora sarà meglio non farsi trovare impreparati e aver valutato una sola opzione che potrebbe non essere disponibile.

Nessuno come noi

Cosa resterà di questi anni 80? Nel 1987 io sostenevo gli esami per la licenza media, mentre il racconto di Luca Bianchini si svolge un po’ più in là, in una terza liceo a Torino.

Gli ingredienti della storia ci sono tutti: amicizia, amore, inciuci. E qua e là, come lo zucchero a velo sulla torta, qualche fattore scatenante dei ricordi: il Moncler, il Pajero, Ciranda de Pedra, le canzoni dei Level42 e degli U2; sì lo so che si sentono ancora, ma allora erano fresche di incisione.

E poi lo scioglipancia di Wanna Marchi, lo Stone Island, i capelli cotonati, i Camperos, i telefoni pubblici a gettone, che ti capitava di trovare la cornetta ancora calda dall’utilizzatore precedente.

Le vicende di un gruppo di adolescenti mi riportano ad un tempo in cui per darsi appuntamento era necessario telefonarsi da casa a casa, ad un tempo in cui si faceva aerobica con gli scaldamuscoli, ad un tempo in cui le esperienze sessuali di ciascuno venivano graduate secondo bizzarre scale di taratura, ad un tempo in cui si aspettava il prossimo a compiere i fatidici 18 anni per andare alla sua festa, ad un tempo in cui durante i compiti in classe ci si lanciava biglietti appallottolati con le soluzioni.

Non si racconta solo di ragazzi, nella storia ci sono anche vicende di uomini e donne; leggerle ora è guardare con occhio adulto coloro che all’epoca ci sembravano infallibili e che poi abbiamo scoperto essere umani.

Un doppio punto di vista sorvola l’opera: quello del lettore adulto che si rivede adolescente e quello del lettore adulto che rivede gli adulti dell’epoca da un punto di vista più maturo. Oppure quello del lettore giovane che scopre un mondo che sembra ormai remoto.

L’ambiente ricreato è fedelissimo: le Timberland, la dicotomia Spandau Ballet o Duran Duran, le felpe della Best Company, le musicassette che perdevano il nastro nel walkman, e per rimetterle in sesto si riavvolgeva con la penna biro, i Burlington, l’Henry Lloyd, la telefonia in duplex col vicino di casa, solo uno dei due telefonava.

E poi … i paninari – i metallari – i sorcini; e ogni volta gli stessi casini.

Io mi ci sono ritrovata in pieno, forse per capire gli adolescenti di oggi bisognerebbe sforzarsi di ricordare gli adolescenti che si è stati.

Nonostante alcune incongruenze (nessun programma di liceo prevede i logaritmi e Ariosto nel corso dello stesso anno scolastico) la trama è semplice ma ben condotta, condita anche di qualche colpo di scena.

Una lettura piacevole, senza pretese, per chi vuole fare un tuffo nel passato o chi vuole sorprendersi leggendo come ci si manteneva in contatto prima dell’avvento dei social network, di internet ma anche solo della telefonia mobile.

Passaggio di consegne

Essere una mamma o avere una mamma? Cosa si celebra la seconda domenica di maggio? Per alcune persone entrambe le cose, per altre nessuna delle due, per molti l’una o l’altra.

Quando rientravo tra quelli che avevano una mamma, vivevo comunque l’intera settimana (una data variabile tra l’8 e il 15 maggio) in clima di festa perché in quell’intervallo cadeva anche il suo compleanno; a volte le date coincidevano o si susseguivano, comunque lei ci teneva moltissimo ad entrambe.

Nello stesso periodo per la mia, di mamma, si è stampata anche la data del capolinea.

Quell’anno l’11, la data del compleanno, cadeva di lunedì, ed è stato il giorno in cui ha accettato il trasferimento nella struttura di accoglienza.

Posso solo vagamente immaginare il tumulto di pensieri che le esplodeva dentro. Una decina di giorni, tanto è durato l’esaurimento delle energie, che inesorabilmente scomparivano.

Io avevo deciso che volevo essere presente più che potevo, e mi portavo dietro Sofia, un fagottino di nemmeno due mesi che infastidiva l’infermiera per i suoi pianti vibranti. Zoccola, l’infermiera, così la tacciavo in cuor mio, e persistevo con le visite.

Dalla vita ho avuto molto, mi ritengo una persona fortunata, ma ho vissuto come una piccola ingiustizia il fatto che al parco, dove le altre neomamme, quelle che si erano conosciute al corso pre-parto che avevo scelto di non frequentare, si lamentavano delle fatiche delle notti insonni ridacchiando e facendo commarella, mentre io, esclusa da quel gruppo, spingevo non una carrozzina ma due. A volte cedevo quella più leggera a chi ci accompagnava e cercavo di destreggiare sul ghiaino la comoda, più pesante.

A metà di quella decade, tra l’11 e il 21, è esploso il caldo di una primavera che si era fatta attendere; poteva essere il 16, il 17 o il 18, il tempo si dilata enormemente in certi frangenti per poi ridursi a un pugno di ricordi; quella mattina sono arrivata ottimista, e lei mi ha accolta di buonumore.

“Aspettavo proprio te. Siediti e ascoltami bene”

Con estrema lucidità mi ha sciorinato una serie di istruzioni pratiche, dal come chiudere la sua attività professionale al nome del notaio da contattare per la successione ed altre.

Io trascrivevo numeri, nomi e informazioni mentre dentro di me sentivo esplodere l’incapacità di accettare una fine più vicina di quel che volessi ammettere. Sapevo ma non volevo, e finché a non ammettere eravamo in due mi sembrava che potessimo arginare l’inesorabile.

E invece. In quel momento mi sono sentita sola, alla deriva, davanti ad una spaventosa consapevolezza.

Ha aggiunto:

“Stai tranquilla, sono serena, non soffro; sono contenta di tutto ciò che è stato, solo mi dispiace che sia già ora. Sono contenta di voi” riferendosi a noi superstiti.

Io non lo so quanta forza e quanto coraggio siano necessari a formulare ed esporre un discorso simile. So che ad affrontarlo dal lato di chi ascolta mi ha richiesto uno sforzo immane. Ma per rispetto mi sono imposta di rimanere tranquilla.

Sono risalita in auto e guidavo verso casa in preda a un mare di lacrime. Il caldo mi accentuava ogni reazione. Ho raggiunto il garage e finalmente, complice anche la temperatura più fresca, sono scoppiata in singhiozzi.

Mi mancava il respiro, mi girava la testa, mi sentivo svenire.

Maria, la vicina della porta di fronte, mamma di un mio coetaneo amico di vecchia data, mi ha vista ed è venuta da me. Cosa hai? Ho farfugliato qualcosa, tanto lei già sapeva, ma mi ha lasciato sfogare. Poi mi ha detto:

“La senti? Tua figlia sta piangendo, ha fame! Adesso vai, vai a darle da mangiare!”

Ho ricacciato giù tutte le lacrime e ho ristabilito le priorità, imponendomi di guardare nell’unica direzione sensata: avanti. Credo che sia stato proprio in quel giorno, in una calda mattina di metà maggio, che sono diventata mamma.

Sharing is caring 

Non sono in grado di esprimere ciò che penso con le immagini; eppure un’immagine vale più di mille parole. Ma a volte anche da sole le immagini fanno fatica.
Mi sono imbattuta in una serie di vignette che mi ha colpita moltissimo; l’autrice Elena Aiello ha voluto rappresentare un concetto a me familiare e lo ha fatto in maniera ineccepibile, capirebbe anche un bambino.

Creatività è molte cose: è disegnare, dipingere, fotografare; è ballare e cantare; è cucinare, è cucire abiti. Ed è anche scrivere, raccontare.

Le vignette, che ho sintetizzato in un’unica immagine per ragioni di compattezza, raccontano la storia di Maria.

Maria ha preparato dei pasticcini da offrire ad una festa.

Maria ha investito delle risorse per preparare i pasticcini: ha acquistato gli ingredienti, ha impiegato del tempo, ha provato numerose volte prima a modificare le dosi degli ingredienti per studiare la crema migliore.

Maria ha offerto i suoi pasticcini agli invitati ma nessuno ha voluto provarli: viene ignorata. Maria è delusa, pensa che i suoi pasticcini non siano buoni, che sia quello il problema; difficilmente Maria preparerà altri pasticcini per la prossima festa.

Inaspettatamente una ragazza tra gli invitati assaggia un pasticcino, lo trova delizioso e lo esclama ad alta voce; gli altri invitati sentono il commento e sono incuriositi, così provano ad assaggiarli.

I pasticcini non erano il problema: certo non a tutti piacquero, ma di fatto andarono mangiati tutti.

Maria si sentì gratificata e approfitto dei feedback per migliorare la sua ricetta.

MORALE

I creativi sono come Maria:

* Investono il loro tempo e le loro risorse;

* Presentano il proprio prodotto nel modo migliore che conoscono;

* Hanno bisogno di feedback e di fiducia;

Se ti piace un prodotto e vuoi supportare un creativo molte volte ti costa solo un like, un commento o una condivisione.

Per te può non significare un granché ma per un creativo è un gran supporto.

Sharing is caring e adesso sai il perché.

Grazie Elena Pugger @artofelenaiello

Parole di Vicenza (e dintorni): Sguarattare

Recenti norme igieniche prevedono che nei wc dei locali pubblici non sia possibile mettere asciugamani ad uso promiscuo per asciugare le mani, ma salviette monouso o soffiatori di aria calda.

Spesso trovo le prime esaurite e i secondi non competono minimamente con l’unico efficace nel suo genere, il Dyson.

Così non resta che sguarattare le mani ovvero agitarle energicamente per sgocciarle, una specie di ballo di Simone (butta in aria le mani e poi falle girar…).

Sguarattare è la traduzione locale di scuotere, ma rende molto meglio secondo me la reiterazione per via di quel -ra- che viene introdotto, e anche la G al posto della C dà più energia al verbo.

Sguarattare è un’azione energica ma piuttosto casuale, imprecisa, il cui risultato finale può essere disastroso.

Un classico uso innocuo di sguarattare è quello che si fa col barattolo della vernice per rinvigorirla.

Oppure si può sguarattare lo shaker per preparare un buon cocktail.

Baby boss

In una domenica pomeriggio di maggio che sembra novembre: andiamo al cinema? Tramite l’app dello Space Village prenoto online due biglietti, uno per me e uno per Sofia, scegliendo orario e posti a sedere: che comodità non correre più il rischio di arrivare al cinema e non trovare il posto per lo spettacolo prescelto.

La rotellina sullo schermo dello smartphone gira un bel po’ e poi mi avvisa che ‘Timeout – operazione non riuscita’: fiduciosa ripeto immediatamente la procedura e ottengo lo stesso risultato!

Nella lista prenotazioni non risulta nulla, però per scrupolo verifico la casella di posta e trovo il biglietto in formato .pdf con l’orario della prima prenotazione. Tempo qualche minuto e ricevo anche la mail della seconda.

Avevo fatto una prenotazione per 2 e ora mi ritrovo con 4 biglietti in mano; manca circa un’ora all’inizio dello spettacolo; telefono al numero verde ma accettano solo nuove prenotazioni, nessun codice da digitare per le disdette.

Mi avvio per tempo al multisala, sperando che l’operatore dello sportello sia comprensivo e mi possa stornare l’operazione.

Imbocco le scale che scendono in garage per prendere l’auto, seguita da Sofia e… da Viola, che grida entusiasta ‘si va al cinemaaaa’ e imita la sorella maggiore. Il loro papà, già comodamente piazzato sul divano per seguire ogni curva del motomondiale, certo che Viola avrebbe fatto il riposino pomeridiano, si arrende all’evidenza e abbandona le velleità della domenica relax: tutti al cinema!

Il film di animazione racconta, senza una storia troppo strutturata, cosa accade in una famiglia di tre persone quando arriva un fratellino, confrontando la vita della famiglia a tre e a quattro, l’impatto sui genitori e sul figlio maggiore, paragonando l’alternativa ‘figlio unico’ a quella ‘fratelli’.

In cuor mio ritengo che fosse proprio un film adatto ad una visione comunitaria, sono contenta che Viola e Sofia lo abbiano visto insieme.

Viola si è divertita tantissimo, forse è quella che lo ha apprezzato maggiormente: già dai trailer incitava ‘un altro’ a proseguire la proiezione e non ha mai ceduto al sonno, ha seguito dall’inizio alla fine con immutato entusiasmo, anzi verso la fine si è messa in piedi sulla poltrona a ridere.

Anche Sofia ha apprezzato il lungometraggio e credo che abbia anche assorbito il messaggio.

Quando in famiglia arriva un nuovo elemento succede un po’ come quando si aggiunge un uovo all’impasto della torta.

Dapprima è un corpo estraneo, non c’entra nulla, il composto era già coeso, perchè introdurre un nuovo elemento? poi piano piano, mescolando con pazienza come canta Masha, l’ingrediente si amalgama all’impasto e lo migliora, conferendone elasticità e corpo, ed è impensabile di rimuoverlo. Ci si chiede anzi come si facesse prima, e come si potesse essere convinti che se ne poteva fare a meno, tanto è integrata la sua presenza.

L’ingrediente aggiunto per ultimo non è l’ultimo arrivato, è parte integrante del tutto e ha pari dignità con il resto.

A parte il messaggio, tornando al film, mi è discretamente piaciuto, ma l’ho trovato un po’ monotono, privo di trama, piatto. La versione italiana non vanta l’impreziosimento del doppiaggio di Alec Baldwin e la storia (il boss della grande industria di bambini mandato sulla terra sotto forma di infante) mi è sembrata un po’ forzata.

Bei disegni, belle musiche, pochissimo intreccio, qualche gag divertente.

Se sapessero come fanno i bambini non ne vorrebbero mai uno. Lo stesso si può dire per i wuster.