Cosa resterà?

Cosa resterà di questo anno ‘20?
Cosa resterà di mille regole astruse, spesso incompatibili tra loro, sempre incompatibili con la vita quotidiana?

Le prime a sparire saranno le autocertificazioni, quelle in cui ogni 14 giorni dichiari che stai bene.
Anzi l’esercente di turno lo compila al posto tuo, te lo legge in faccia che stai bene.

Le altre autocertificazioni, quelle che effettui uno spostamento al fine inderogabile di effettuare uno spostamento (necessario) sono già morte da un pezzo.
Si sono evolute più veloci della luce, ogni 8 ore ne usciva un modello contenente la modifica su una riga.
Hanno bruciato le tappe: un’esistenza breve e intensa.

Il metro di distanza, in caso di attività fisica addirittura due o anche tre, sta facendo la fine dei miei rientri serali da minorenne: contrattavi un orario e poi di volta in volta ci aggiungevi 5 minuti. Il metro di volta in volta si accorcia di 5 cm. Siamo già molto prossimi a bucare la mia bolla di sicurezza personale.

I pannelli di plexiglas, immancabili negli scoop giornalistici, che lo immaginano ormai anche a letto tra marito e moglie, presto perderanno lucentezza, in quei rari casi in cui sono stati realizzati: già me li vedo tappezzati di adesivi appiccicati a casaccio.

Le strisce sul pavimento, applicate in maniera artigianale, si staccheranno e voleranno via: troveremo pezzetti di nastro giallo e nero ai bordi delle strade, li confonderemo con grossi calabroni schiattati.

Le file ordinate di persone fuori dai negozi, dalle banche, dai supermercati, dalla posta, al primo giorno di pioggia si faranno solubili.
Gli ingressi da un lato uscita dall’altro si confonderanno al primo che dimentica una cosa uscendo e inverte la marcia.

Le mascherine, già ritenute superflue all’aperto, ma che ancora penzolano sotto il mento ai più, finiranno come il casco appeso al braccio di certi scapestrati in motorino.
In un paese dove ancora c’è gente che fuma o che non allaccia la cintura di sicurezza alla guida, incurante dei danni concreti e immediati che reca a se stesso, figuriamoci quanto facile diventa ricordarsi di portarsi dietro un accessorio inutile e fastidioso.

I termoscanner che ti rilevano una temperatura corporea di 33 • vengono adoperati con malcelata sufficienza dal malcapitato addetto.

I guanti monouso (ha ha ha, mi fa troppo ridere monouso: cioè li usi una volta sola: chi mi spiega quando inizia e quando finisce la volta?) beh quelli comunque appartengono già al museo (degli orrori: pensa a tenerli addosso qualche ora, quando li levi …).

Le canzoncine della durata di 40 secondi per aiutare il lavaggio delle mani? Dai chi le canta ancora?

Resisteranno i flaconi di gel, quelli si: agli ingressi troveremo ampia disponibilità di quei dispenser che non riescono ad erogare e che non sono stati consumati; oppure resisterà la presenza di quei gel oleosi che ti impiastrano le mani e non vedi l’ora di lavartele per davvero.

Resisteranno come le bandiere arcobaleno con la scritta PACE, rimaste appese dai primi anni del nuovo secolo, stinte al punto di non distinguere più i colori.

Resisteranno gli arcobaleni disegnati dai bambini, a cui avete raccontato che andrà tutto bene e chissà se lo credevate davvero: sono ancora tutti esposti ‘sti disegni, come i babbi Natale ancora appesi al terrazzo al 25 di gennaio.

Ho il presentimento che resisteranno anche tutti gli aumenti, applicati per far fronte all’emergenza covid, che ad emergenza conclusa ci si dimenticherà di far rientrare.

Fase 2,5

Ho avuto un iniziale momento di rifiuto, in cui mi sono uniformata al divano.

Mi sono trasformata in runner, mio malgrado, quando essere un runner era più azzardato che arruolarsi da brigatista rosso.

Ho scoperto l’interval training: ho familiarizzato con i TABATA, gli AMRAP, gli EMOM.

Ho sperimentato i plank, gli squat, i jumping jack, lo skip nelle loro variegate forme.
Ho rivisitato il concetto di push up, che per me era solo un capo di biancheria, e scoperto che gli affondi bulgari non si vendono in gioielleria.
Sono passata a chiamare crunch gli addominali.
Ho odiato il mountain climber per poi farci pace, una volta passata alla guerra coi burpees.

Ho inspirato ed espirato al ritmo dettato dalla voce suadente dell’insegnante di pilates o di ginnastica posturale.

Ho stretto amicizie su Instagram e Facebook con i personal trainer, ho seguito le loro dirette in differita, studiato i loro video, ricercato gli esercizi su YouTube e su Wikipedia per poi poterli riprodurre senza crearmi traumi o lesioni.

Ho preso in prestito il tappetino e gli elastici a Sofia. Ho provato a variare i ritmi di lavoro e riposo per capire quali fossero più efficaci.
Efficaci per cosa? Boh, lo scopriremo, perché non so ancora bene che senso abbia avuto tutto questo.

Adesso finalmente so che presto potrò tornare semplicemente a nuotare.

Cronache dal Covid

“Quarantena? Ma perché la chiamano così se i giorni di isolamento sono 14? Deca-tetra-ena sarebbe il termine appropriato.”

Così si scherzava in ufficio verso la fine di febbraio, quando il ciclone Covid stava per travolgere l’Italia, anzi il mondo intero, in un lockdown senza precedenti.
Nessuno credo si aspettasse una situazione come la attuale. Perché se c’è qualcuno che se la sarebbe immaginata, o quel qualcuno o si chiama Stephen King, oppure quel qualcuno ha bisogno di un bravo psicanalista.

Io stessa molte volte, dovendo fare delle scelte, di fronte ad azioni che hanno ripercussioni sul futuro cerco di prevedere più scenari e poi concludo con una decisione dettata dal ‘facciamo così’ adducendo la spiegazione “perché non sai mai cosa può succedere”.

Ecco, sul ‘cosa’ resto vaga, non so e basta; non mi immagino catastrofi o scenari apocalittici, giusto una black box, potrebbe anche essere la vincita alla lotteria (di cui non ho comprato alcun biglietto).
Non acquisto un anno di servizi pagando anticipatamente, perché anche se sono convinta di volerne usufruire, non si sa mai. Resto cauta, ma agnostica.

Chi avrebbe potuto figurarsi uno scenario come l’attuale? Chi l’avrebbe mai detto? Io no.

Ma ora che ci siamo dentro, che l’incredibile è diventato ordinaria quotidianità, ora che stiamo vivendo, su scala mondiale, una realtà che nemmeno a inventarsela, ora?

Devo innanzitutto premettere che appartengo ad una fascia privilegiata della popolazione, che non ha subito – almeno ad ora, del doman non v’è certezza – ripercussioni gravi dal punto di vista nè sanitario nè economico; che dispone di tutto ciò che è necessario, e anche di buona parte del superfluo; che si ritrova in un’abitazione confortevole e spaziosa, con una famiglia che ama.
Con due figlie che non vedevano l’ora di poter stare a casa, meglio ancora di dover stare a casa.

D’un tratto però mi ritrovo io catapultata su un’isola spazio temporale.
Per lo spazio è chiaro: ognuno a casa sua, si esce al massimo per 200 m.
Ma il limite più importante lo vivo a livello di tempo: è stato nettamente reciso il passato, e non riesco a intravvedere un segno di continuità col futuro.

Il passato mi fa male: se ci penso, se riaffiorano tutte quelle cose che stavo facendo e che sono state bruscamente interrotte, mi sento stupida.
Stupida ad aver costruito, pianificato, progettato, perché tutto quello che quotidianamente mi impegnava era da ritenersi superfluo.
Superfluo accompagnare le figlie a scuola, superfluo allenarsi, superfluo andare in gita a Venezia o in montagna o a Gardaland, superfluo uscire a cena con gli amici, superfluo festeggiare un compleanno.
Tutti i miei sentimenti erano superflui: l’emozione per una gara, la rabbia per le piccole ingiustizie, la stanchezza per giornate lunghe ed impegnative, l’allegria di una serata in compagnia a ballare.

Se penso al futuro ho paura: quando? come? e se non se ne uscisse? e se ne si uscisse per lo stretto necessario, col terrore continuo di avvicinarsi al prossimo?

Che poi, per le distanze che uso mantenere io normalmente, sarebbe il problema minore. Ma é per il prossimo mio: l’altro giorno ho appena abbassato la mascherina per poter pagare con il riconoscimento facciale sul telefono; se avessi puntato una pistola quella dall’altra parte del banco sarebbe stata meno terrorizzata.

Non mi resta che godere del qui e ora: una quotidianità priva di ricordi e di ambizioni, vuota di sguardi ad un orizzonte impercettibile.

Una quotidianità fatta di figlie che si alzano quando vogliono e appena scendono mi vengono incontro e mi abbracciano, mentre prima le vedevo qualche istante al volo ed imbronciate per la levataccia.

Una quotidianità fatta di campanelli che suonano e corrieri che consegnano pacchi, spesso sbagliando ‘ah no mi scusi… era per Alessandro’.

Una quotidianità fatta di ricerca della concentrazione sul lavoro, che non è facile inserirsi in un ambiente nuovo con lo smart working, ma si cerca di fare del proprio meglio.

Una quotidianità fatta di appuntamenti fissi delle ragazze: la merenda, Fumbleland su Rai yo-yo, chissà che imparino un po’ di inglese, la sessione di allenamento via Zoom assieme a tutta la squadra.
Sentirle, mentre attendono l’inizio della fase di lavoro, che si mostrano cani, gatti, conigli e uova di Pasqua ti riempie la casa di allegria.

Una quotidianità fatta di allenamenti a secco, serviranno o no io ci metto l’anima poi si vedrà se al prossimo 50 stile le trazioni con gli elastici sono state efficaci.

Una quotidianità fatta di consegne a domicilio: il pesce al martedì, il messicano del sabato, la pizza e il gelato quando lo si vuole.

E se durante la settimana c’è il tele lavoro da ufficio, nel
weekend ci sono i lavori domestici, quale occasione migliore per tutto il decluttering per cui non si trova mai il tempo? E per sbizzarrirsi in cucina? E per riordinare e sistemare e pulire a fondo, che difficilmente si riesce a farlo?

Nei primi giorni di lockdown mi svegliavo di notte in preda al panico: qualcosa mi disturbava il sonno, aprivo gli occhi, ricordavo la quarantena, la reclusione, e non dormivo più.
Ora come una cosa che non puoi cambiare l’ho metabolizzata, dormo serena.
Accetto quel che è, consapevole che certi momenti sono un po’ un regalo.

Le relazioni col prossimo, pure a distanza, stanno per essere riscritte come su un quaderno nuovo. Non è vero che la lontananza le uccide: è vero che restano quelle che hanno un senso e la lontananza o la prossimità, nel senso fisico, diventano dettagli di scarso rilievo.

Quando si ripartirà? Non lo so, nessuno lo sa. Riprenderemo ad alzarci molto presto al mattino, a correre avanti e indietro per la città, ad organizzare, prenotare, ricevere ospiti a cena, uscire per una passeggiata o un aperitivo.
Ritorneremo a sottoporci a visite ed esami clinici, perché non è che esiste solo il Covid, e le altre malattie non sono andate in vacanza.
Ritorneremo a calzare un paio di scarpe e mantenerle addosso per l’intera giornata.

Ritorneremo a prenderci cura di noi stessi, ad andare dal parrucchiere, dall’estetista, dal massaggiatore, al ristorante ma anche più semplicemente a fare la spesa dove ci piace, a prendere il giornale senza correre il rischio di essere insultati, a gettare le immondizie senza passare per ‘furbetti’.

Ritorneremo a fare gite, a praticare sport, ad essere liberi, anche di rimanere a casa sul divano, quando lo desideriamo.

Nel frattempo viviamo. Confinati ma viviamo.

PANDEMIA: SUGGERIMENTI UTILI (aka CONSIGLI NON RICHIESTI)

  1. Restare concentrati su ciò che si fa: per chi come me ha la fortuna di lavorare ancora, è un ottimo sistema di mantenere la mente funzionante e lontana dal catastrofismo imperante. Se siete in ferie, o qualche altra forma di congedo non meglio definita, trovatevi un’attività casalinga che vi impegni il più possibile.
  2. Mantenere la normalità: anche se ci hanno tolto tutto, anche se non usciamo quotidianamente per andare al lavoro, anche se la palestra è chiusa, anche se andare a comperare il giornale è diventata un’attività ai limiti della legalità, anche se non abbiamo più una routine da sostenere, rimaniamo noi stessi. Vestiamoci, pettiniamoci, mettiamoci in ordine. Prima di tutto rimanere se stessi.
    Noi siamo qualcuno a prescindere di tutto ciò che facciamo ogni giorno.
  3. Individuare il lato positivo della questione: io ad esempio dormo sicuramente di più.
  4. Peace and love! Non appigliamoci ad ogni pretesto per scaricare la tensione: non è colpa di nessuno, non vale la pena di prendersela col governo che emette decreti come fuochi d’artificio, con le insegnanti che cercano di sperimentare loro malgrado la didattica a distanza, con il vicino che esce a pisciare il cane, con coloro che hanno contratto il virus perché potevano stare più attenti.
    Inutile scatenarsi in filippiche contro questo o quell’altro. Se trascinati in diatribe, levarsene.
  5. Non prendiamo i canali social come una pattumiera in cui riversare il nostro livore: piuttosto che scrivere un messaggio negativo o polemico o allarmistico meglio tacere.
  6. Cercare di tenere il morale alto: cacciare via le lacrime, l’ansia, il panico perché non servono a nessuno, anzi fanno male a noi stessi per primi.
  7. Diffondere pensieri positivi e di produzione propria. Inutile rigirare video, audio, memes scritti da altri di cui nemmeno si conosce l’origine; meglio raccontare del profumo di primavera che entra dalle nostre finestre, della forma che assumono le nuvole, dell’aria che si scalda, del colore del cielo sopra la nostra testa.
  8. Non reagire a qualsiasi hashtag come delle marionette: ore 18 tutti a cantare, ore 21 tutti a pregare… a che ora andremo tutti a pagare / vagare / cagare?
  9. Non prendere niente per oro colato. Niente. Verificare sempre l’autenticità della fonte o l’autorità di un ordine.
    E anche se la fonte è fidata e l’ordine proviene da chi di dovere mantenere il buon senso, ragionare con la propria testa: non ci si butta dal ponte nemmeno se lo grida il presidente della repubblica.
  10. Mantenere i contatti, quelli veri. Ora più che mai, adesso che i mezzi di comunicazione a distanza sono rimasti gli unici disponibili facciamone buon uso.
  11. Ultimo ma non ultimo… Lavarsi le mani!

Chi è stato?

Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.

(Arthur Conan Doyle)

La verità è che la verità non esiste; non esiste più dal momento in cui inizia ad essere ricostruita a posteriori.

La verità è un istante, un puntino, un fotogramma.

Quando la definizione della verità viene affidata ad un tribunale tutti ne escono sconfitti; non a caso verità non fa rima con giustizia.

Avevo già letto alcuni libri dedicati a grandi crimini mai perfettamente risolti: il delitto di Cogne, il delitto di Perugia, il delitto di via Poma.

Forse per questo Amazon ha pensato potesse interessarmi il libro di Vittorio Pezzuto sul caso di Marta Russo.

Ed ha pensato bene.

Il giornalista ripercorre le vicende processuali che sono seguite all’omicidio della studentessa romana; ne esce un racconto corposo e dettagliato, che riporta integralmente alcune parti del processo e degli interrogatori.

Pur essendo minuzioso e voluminoso, il saggio non annoia in nessuna parte.

La lunga lettura è stata avvincente dall’inizio alla fine, lo scritto alterna parti documentali a libere considerazioni dell’autore.

Ad ogni paragrafo mi ritrovavo a scuotere la testa ed esclamare ‘è pazzesco!’.

Che cosa è pazzesco? È pazzesco che io abbia sempre dato per scontato che coloro che erano stati additati come i colpevoli, e che sono stati processati come tali, lo fossero a prescindere dall’esito del processo.

Sostiene Pezzuto, argomentando in maniera esaustiva, che l’indagine abbia risentito della pressione mediatica derivante da precedenti casi irrisolti (Simonetta Cesaroni, Alberica Filo della Torre) e che abbia imboccato una via arbitraria, senza più recedere.

Emerge dall’analisi che potrebbe essere stato Giovanni Scattone l’autore del delitto, nella stessa misura in cui potrei essere stata io.

Il filone del racconto è quello della condanna di due innocenti.

Eppure io non avevo mai nutrito dubbi a riguardo, ma la spettacolarizzazione del caso ha versato il suo contributo prevalentemente sul piatto dei colpevolisti.

A sostegno di ciò vengono riportati i titoli delle testate giornalistiche legati alle fasi processuali che si sono susseguite.

La giustizia italiana ne esce con un ritratto a tinte fosche: sembra che il modus operandi sia partire da un assunto, plasmare i testimoni per confermare le ipotesi, condannare i presunti colpevoli.

Se l’assunto iniziale perde veracità – anche le scienze più esatte hanno abbondanti margini di errore quando si calano nelle condizioni al contorno – bisognerebbe ricominciare tutto da capo.

Invece una volta messa in moto la macchina processuale, l’inerzia è troppo grande per permettere di rivedere posizioni ormai assodate.

La separazione delle carriere dei magistrati, inquirenti e giudicanti, assume un significato nitido.

Come in un romanzo i personaggi vengono ben caratterizzati.

Il mio preferito è il padre di Scattone, ingegnere che per amor del figlio si reinventa leguleio, e rinviene numerosi vizi formali e sostanziali nelle procedure.

Una ricostruzione che mi ha fatto riflettere; all’epoca degli avvenimenti anche io frequentavo gli ultimi anni del corso universitario, ero concentrata sul mio percorso, non avevo approfondito la vicenda e mi ero ‘fidata’ dei giornali.

A distanza di oltre vent’anni, e leggendo il libro, ho provato ad immaginare se un fatto simile avrebbe mai potuto accadere a Padova, e come avrebbe reagito l’ateneo.

Si è tanto discusso dell’omertà de La Sapienza, ma sembra piuttosto, stando alla ricostruzione, che si trattasse più di alienazione dai fatti: quando non si sa è opportuno tacere o pur di dire qualcosa è preferibile assemblare tre ricordi a caso?

Emerge chiaro il peso di una calunnia: se anche l’illazione si rivela infondata, una volta detta una cosa non si riesce più a considerare i fatti a prescindere da tale supposizione.

La storia la scrivono i vincitori: generalizzando viene da chiedersi quanto di tutto quello che ci è stato tramandato sia accaduto proprio così.

Chi sorveglia l’influencer?

(Quis custodiet ipsos custodes?)

Il 20 marzo è la giornata mondiale della felicità; il 20 marzo è nato Leone Lucia, il figlio della più famosa coppia di influencer del momento.

Coincidenze? Io credo di sì, ma la cosa mi ha spinto ad un’osservazione.

Ho visto circolare la foto del terzetto, mamma-papà-figlioletto, in maniera virale.

Ho letto commenti di riverenza, quasi venerazione nei loro confronti.

Considerazioni su quanto siano belli, ciascuno preso individualmente, ancora di più messi insieme.

Ammirazione per la mamma, così bella e in forma anche appena dopo aver partorito.

Vero, lei è bella, il piccolino pure (lui no, dai, siamo onesti).

Io però dopo i primi due secondi di impatto ho iniziato a chiedermi: chi ha scattato la foto? È bastato un solo scatto, o è frutto di numerosi provini? Lei è davvero al naturale o si è sottoposta a un maquillage pre inquadratura? Magari ha anche rifatto la piega ai capelli? Quanto tempo hanno dedicato alla foto ben riuscita? Quante persone hanno avuto attorno?

E allora mi sono calata un pochino nella situazione, ho pensato a quel momento così intenso, così intimo, così privato venduto sul mercato.

Mi sono chiesta a quale prezzo si possa rinunciare ad un’ora di simbiosi col proprio primogenito per lasciarsi ritoccare il make-up e suggerire la posa più plastica da assumere mentre il fotografo scatta.

Un momento esclusivo e personale condiviso col mondo intero, con una troupe di collaboratori attorno e poi con tutto il popolo del web pronto a criticare il minimo dettaglio.

E mi hanno fatto un po’ pena, i due influencer: è vero che io lavorando un mese forse non arrivo a percepire un decimo di ciò che loro ricevono da uno degli n sponsor che stanno dietro una foto, per una maglia indossata o una scarpa che rientri nell’inquadratura.

Ma in fin dei conti anche essere invisibile ha i suoi vantaggi.

Tra il grano e il cielo

La mostra è già ampiamente pubblicizzata, nè ha senso che io mi metta a riassumere il contenuto dell’esposizione o la vita di Vincent Van Gogh.

Ho appreso lo scorso luglio che Vicenza avrebbe ospitato una serie di opere dell’artista olandese, e avevo deciso di visitare l’esposizione; non sono un’estimatrice della pittura in generale ma della gita del liceo mi era rimasta impressa la visita al Louvre e il dipinto della camera.

Il giudizio sulla mostra è assolutamente positivo.

La valutazione delle opere è puramente soggettiva, ma posso dirmi orgogliosa che la mia città ospiti una simile esposizione e che lo faccia in maniera ineccepibile.

Ho pianificato con buon anticipo la visita guidata, scegliendo dal portale la data e l’orario a me più comodi.

Ho evitato così ogni coda all’ingresso; con estrema puntualità ci sono state assegnate le auricolari, che ci hanno permesso di ascoltare attentamente la guida.

Martina, questo il suo nome, manteneva un tono di voce estremamente basso, così da non disturbare gli altri visitatori. Noi partecipanti del gruppo potevamo ascoltarla senza accalcarci addosso allo stesso dipinto, e anzi c’era modo di visionare le opere da vicino uno alla volta, con calma.

La mostra è allestita nella sala della Basilica Palladiana, opportunamente suddivisa in stanze. L’illuminazione crea il giusto ambiente, mantenendo un’oscurità generale e puntando i faretti a led sulle singole opere, che risultano evidenziate e valorizzate.

In un simile contesto di buio e silenzio, ascoltando la spiegazione di Martina e rimirando i disegni e i dipinti, più che visitare una mostra si ha l’impressione di essere al cinema.

La guida oltre che molto preparata, appariva anche appassionata a ciò che ci raccontava; più che di un artista di due secoli fa sembrava parlasse di un vecchio zio.

Ci ha condotti per un’ora e mezza circa attraverso le sale, organizzate in ordine cronologico, raccontandoci la vita del pittore e dimostrandoci di volta in volta il riscontro nella sua produzione artistica, condendo l’esposizione con dettagli e curiosità.

Van Gogh, in un certo periodo, dipingeva su carta perché usava le tele che il fratello gli inviava per farne biancheria per le donne di cui si era fatto carico; Van Gogh interagiva con la sua opera, il suo tratto marcato a volte scalfiva il supporto fino ad inciderlo.

Non attendeva l’asciugatura della pittura ad olio, adoperando una tecnica bagnato su bagnato che rendeva le sue opere molto materiche.

Van Gogh si è approcciato all’arte tardi: era un principiante che sperimentava ed imparava, i suoi primi disegni denotano grossolani errori di proporzione e di prospettiva. Nell’intenzione di dettagliare il viso e le mani dei suoi soggetti, elementi caratteristici della persona, li caricaturava fino a deturparli; in un disegno sembra che lo zappatore abbia sei dita.

Van Gogh non poteva permettersi modelli giovani ed esteticamente perfetti, quindi ritraeva chi aveva attorno, a mal parata anche se stesso; e poi la natura, il paesaggio, il lavoro (nei campi o in fabbrica), la vista dalla finestra dell’istituto psichiatrico in cui fu ricoverato: tutto ciò che lo circondava.

Il titolo della mostra, tra il grano e il cielo, si riferisce appunto alla produzione delle opere en-plen-air, parte preponderante delle tele esposte.

Van Gogh non era però in grado di ritrarre soggetti in movimento, per questo li faceva posare all’interno; lo testimonierebbe l’abbigliamento dei contadini, troppo leggero per la stagione.

Van Gogh utilizza i colori primari accostati a contrasto (il rosso al fianco del verde, somma di giallo e blu) per focalizzare un punto di interesse su un dipinto.

In merito alle tecniche sperimenta il puntinismo, l’impressionismo e altre modalità tipiche del periodo, senza mai sposarne nessuna.

Queste ed altre le peculiarità che hanno reso la visita coinvolgente; dal punto di vista personale mi restano due considerazioni: la prima è che l’arte non necessita di grandi temi, puoi creare un capolavoro anche con ciò che ti capita davanti nel quotidiano, anche se all’apparenza è insignificante, povero, scialbo; e anche se lo stile è imperfetto può uscirne un’opera d’arte.

Non è ciò che racconti ma come lo fai a rendere grande un’opera.

La seconda considerazione riguarda l’individualismo: non importa dove conducono le correnti del momento, ed è giusto assaggiare qua e là, ma alla fine il risultato migliore proviene da se stessi, dalle proprie idee e scelte.

Per concludere mi sento di caldeggiare la visita di questa mostra, che sarà visitabile fino ad aprile.

Se avete fatto la fila per visitare anche un solo padiglione di Expo 2015, giusto perché era in Italia, sappiate che vale molto più la pena di raggiungere Vicenza per vedere Van Gogh.

Nessun titolo

I recenti fatti di cronaca hanno messo in luce alcuni episodi di violenza sulle donne.

Quando un cane azzanna il padrone, e la notizia vola in prima pagina, state sicuri che nel giro di qualche giorno altri cani che azzannano il padrone emergeranno sulle prime pagine di altre testate.

Senza togliere gravità ed orrore a ciò che è accaduto, voglio pensare che ‘magari si riconducesse tutto a quei tre o quattro episodi di spicco’.

Cani che azzannano i padroni, e casi di violenza sulle donne, se ne verificano purtroppo molti di più.

Ma sugli ultimi due (Rimini e Firenze) vorrei spendere alcune considerazioni.

Sento che mi sto inerpicando su un terreno scivoloso e che il rischio di essere fraintesa è pesante, ma il mio intento non è mettere a raffronto i casi, nè esprimere giudizi basati su ciò che ci è stato raccontato.

Perché PER COME CI È STATO RIFERITO il primo caso è di una violenza e di una brutalità bestiale, il secondo appare più uno sconfinamento: era partito come un flirt al quale ad un certo punto le ragazze avrebbero voluto porre fine, o comunque concludere senza un rapporto sessuale completo.

Messa in questi termini il confine tra ciò che è normalità e ciò che è sopruso si riconduce ad una delicata questione di filosofia del diritto.

Inizialmente ho creduto alla versione ‘consenzienti’, e probabilmente entro certi limiti le ragazze lo erano.

Il bello è che credo anche alla deposizione dei due carabinieri che continuano a sostenere che lo fossero, perché secondo me loro ne sono convinti, in linea con la teoria vis grata puellae.

Ma non vedo alcun motivo per cui due ragazze dovrebbero esporsi e denunciare una violenza se questa non c’è stata.

L’episodio mi ha riportato a galla piano piano tutta una serie di accadimenti personali, di superamento del limite, che non ho mai avuto la forza di denunciare.

Nessuno di questi eventi è stato mai tanto oltraggioso come il caso a cui mi riferisco, ma sono certa che si sia trattato di illeciti perseguibili penalmente, reati contro la persona, la mia nel caso specifico.

Si tratta di fatti successi nell’arco di una vita.

Fatti che mi hanno fatto vergognare, mi hanno fatta sentire immeritevole di un’attenzione pulita, fatti che ho cercato di rimuovere e rinnegare a me stessa: se non ci penso non è mai successo, se non lo racconto non è mai accaduto.

Ad un certo punto, a forza di ricostruire, ho avuto l’illuminazione: forse non sono sola, forse anche molte altre donne, al pari mio, sono state a loro volta vittime di attenzioni sgradite, pesanti, di mani inopportune, di candid camera che risucchiano la privacy.

Possano anche loro confermare e dire che, in mancanza di prove inconfutabili, estremamente difficili da riportare, hanno preferito lasciar perdere.

Io credo che, ancora, in Italia sia la mentalità: quando il segno viene oltrepassato ma in maniera non abbastanza evidente o non troppo oltraggiosa, piuttosto che esporsi alla vergogna del dubbio, si tace.

Oppure si è talmente insicure, o immature, o semplicemente troppo giovani per sapere che quello appena subito è un reato a tutti gli effetti.

E che alcuni uomini ritengono di avere il diritto di comportarsi in modo prepotente, come i due carabinieri sono persuasi di essersi trovati di fronte a due ragazze consenzienti.

Invece non avevano nessun titolo per forzare la mano, per usare una locuzione generica.

Io ammiro queste due americane, di giovanissima età, che forse cresciute in una cultura più progredita della nostra, hanno avuto la forza di dire pubblicamente ciò che hanno esposto.

Forse si, volevano scroccare un passaggio ai due, ma questo non doveva farli sentire autorizzati a pretendere altro.

Io auspico che il resto della faccenda si concluda in modo da creare un precedente per cui sia chiaro che ogni azione che interessa la sfera intima fatta contro la volontà dell’altra, o a prescindere dalla sua volontà, costituisca un illecito; e che le donne vittime di queste azioni abbiano la forza per sporgere denuncia.

Un gioco da ragazze

Questa è la storia di Elena Saboori, 25 anni, studia Economia e vorrebbe imparare a nuotare.

Beh che ci vuole? Un po' di impegno, magari non andrà alle Olimpiadi ma può farcela, sì…

Ah… Aspetta, dimenticavo … Riformulo: Elena Saboori ha 25 anni, studia Economia e vorrebbe imparare a nuotare per partecipare alle prossime Olimpiadi di Tokyo 2020.

Ah ah ah… impossibile! Non ce la può fare… Invece io scommetto di sì, voglio credere che ce la farà!

Alla presentazione di Elena manca un dettaglio: vive in Afghanistan. 
In tutto il paese si contano 30 piscine (circa il numero di impianti che si trova in una provincia italiana di medie dimensioni) e solo una di queste consente l'accesso alle donne. 

Per poter competere Elena deve prima imparare a nuotare, ma chi glielo può insegnare? Le leggi talebane vietano alle donne di praticare sport, non esiste un'insegnante donna che le possa trasmettere i rudimenti. Niente paura, su YouTube si trova tutto, ci sarà pure un qualche tutorial che spiega come si fa, basterà aprire Google e digitare 'Aranzulla & crawl' no?

Elena non si perde d'animo e si guarda qualche video. Poi cerca di mettere in pratica ma si accorge che non è così semplice: una cosa è vedere i fotogrammi, un'altra è fare i conti con galleggiamento, spinta, propulsione, respirazione. Allora Elena aggiusta il tiro: non vuole più semplicemente imparare a nuotare ed andare alle Olimpiadi, ma vuole anche insegnare a nuotare alle altre donne, capisce che saper nuotare è anche una questione di sopravvivenza.

I rischi aumentano, gli attacchi terroristici si fanno più probabili, la sfida diventa incredibile. Anche perché, come se non bastassero le difficoltà descritte fino a qui, queste donne mica possono andare a nuotare con semplici costumi, no: devono essere coperte da testa a piedi, braccia-schiena-gambe comprese.

Ihsan Taheri, presidente della federazione natatoria afghana, loda il coraggio di Elena e sta dalla sua parte.

Hanno contattato un'azienda brasiliana per creare dei costumi adatti, nel frattempo le nuotatrici devono indossare calze nere e un top a maniche lunghe in lycra, sotto un normale costume intero.

A questo punto la mission impossible non mi pare più 'andare alle Olimpiadi', mi sembra che le difficoltà siano ben altre.

Se ce la farà, Elena sarà la prima nuotatrice nazionale afghana.

Io tifo per lei, non fosse altro che perché è mia omonima!

SI o NO?

Non capisco perché in molti si sentano in dovere di esprimere la loro preferenza pubblicamente, specie quando nessuno gliela ha chiesta.

Il voto, diceva mia nonna, è segreto. Poco importa se l’aggettivo è da intendersi in maniera possibilista, ovvero segreto perché non sei tenuto a dirlo.

Lei lo interpretava in maniera perentoria: il voto è segreto quindi non lo devi dire a nessuno.

Ognuno ha le sue valide ragioni per la scelta per cui opta, a mio avviso non c’è un completamente giusto o un assolutamente sbagliato.

Così per tutte le situazioni.

E io provo gran soddisfazione quando pongo una stessa domanda a due diversi interlocutori, uno di fronte all’altro, esprimendo un mio dubbio su un fatto oggettivo: mi piace quando entrambi, guardandomi con malcelata insofferenza per l’ovvietà della risposta a cui sono costretti, in coro e guardandosi in faccia scandiscono uno SI e l’altro NO.

Mi gusto lo spettacolo della sicumera dell’uno che prende la rincorsa e salta pogando contro la sicumera dell’altro, per ritrovarsi poi a terra, esattamente nello stesso punto in cui era rimasto, incolume, il mio dubbio.