I compiti per casa *

Pare che oggi sia l’argomento del giorno. Mi pare una buona occasione per ripescare questo vecchio post.

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Alle prese con i compiti per casa.
Li deve fare Sofia, non io, ho sempre ribadito. E continuo ad essere della stessa opinione: io, a mio tempo, li ho già fatti.
Premesso che ai miei tempi nel fine settimana non ne venivano assegnati, e io non facevo tempo pieno, però vabbè se funziona così mi adeguo.

“Sofia fai da sola poi quando hai bisogno mi chiedi aiuto”

“Ok”
Un minuto di silenzio.

“Mammaaaa… Cosa devo fare?”
Pora stellina, per assegnarti i compiti hanno scritto cosa devi fare, peccato che tu non sai ancora leggere…
“Matematica ( uno / nessuno / centomila)

Colora un pesce, colora tutte le conchiglie, colora pochi frutti / colora molte foglie.”

Beh facile dai!

“Disegna pochi frutti / disegna molte foglie / disegna nessun gatto / disegna uno scoiattolo”

Uno scoiattolo???? Uno … Scoiattolo? Certo che se uno deve imparare ancora a leggere e scrivere gli scoiattoli li disegna a occhi chiusi, come no.
“Mammaaaaaa… Come si disegna uno scoiattolo?”

Ecco, secondo sabato di compiti e già non sono più in grado di aiutare. 

Consapevole che l’importante non è disegnare lo scoiattolo, ma che sia uno (e per fortuna non erano due o addirittura tre), abbozzo su un foglio a parte uno sgorbio che va bene per tutti gli animali a venire tanto somiglia ad uno scoiattolo che a una scimmia o una tartaruga.

Sofia lo copia disegnandolo identico sopra l’albero della scheda.
Passiamo a inglese

“Metti il check sopra il disegno corretto”

Sulla pagina ci sono quattro vignette di animali in macchina e scooter.

Io vorrei farvele vedere e aprire un sondaggio su quale sia secondo voi il disegno ‘corretto’.

In una di questa vignetta un animale è disegnato a rovescio.

Devo consultare altre mamme più attente di me per scoprire il significato di ‘corretto’ che si riferisce … No non ve lo dico e poi posto la foto: in casa nessuno (nè adulti nè bambini) aveva capito cosa significasse ‘corretto’.

E siamo solo all’inizio!

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La foto dell’esercizio non c’è, in compenso oggi ho scoperto il motivo per cui ai miei tempi non si facevano compiti nel fine settimana!

Ambiguità del silenzio 

Esistono due tipi di silenzio.
Il primo è il silenzio vuoto, quello di quando non c’è veramente nulla da dire, e magari non c’è nemmeno chi lo dovrebbe dire.

È il silenzio imbarazzante di due persone, o più, che esauriscono gli argomenti e si guardano in faccia, poi guardano in giro, poi iniziano a pensare cosa dire, qualunque cosa, mentre la mente annaspa, turbina a vuoto come una pompa a secco.
Questo silenzio si può paragonare al coperchio di una pentola vuota e fredda: messo lì perché quello è il suo posto, ma senza alcuna funzione attiva.
Poi c’è il silenzio pieno: pregno di significati, di cose non dette, di rabbia, di amore, di gratitudine, di disistima, di gioia e di dolore.

È un silenzio assordante nel suo frastuono, è il coperchio di una pentola di fagioli che bolle.

È versatile nelle sue funzioni: può tacere un’ingiustizia o confermare un’evidenza.
Eppure i due si somigliano come due gocce d’acqua, gemelli omozigoti.

Ma dentro sono profondamente diversi: l’uno privo di qualità, privo di aggettivi, privo di qualunque aspetto.

L’altro così malizioso, elegante, assertivo, rispettoso, poliedrico.

Automatismi *

Sarò noiosa, ma mi piace riflettere per iscritto e lo faccio.
Insomma da certe mie riflessioni a volte mi vengono delle illuminazioni che io me ne compiaccio proprio tanto, come quando scopri l’assassino a metà film: vai in fibrillazione e però guardi fino alla fine per avere conferma.
Ieri ad esempio, dopo un mese che spostavo (immaginariamente, si intenda!) la faccia di un papà che ha un figlio a scuola con Sofia, la collocavo all’ufficio postale? No non è un impiegato delle poste; in banca? No nemmeno della banca; al supermercato? Dal medico? In comune? No nessuno di questi… E pensa pensa pensa, e prova a proporre sta sagoma un po’ ovunque (premesso che la posta / banca / supermercato etc son posti che frequento raramente) ad un certo punto lo incrocio che esce dalla piscina… Eureka!!!
Si lo so, una cagata, ma per dire come mi elettrizzo con poco.
Premesso ciò ora esporrò la mia grande scoperta più recente: quando non conosci una canzone, e provi a cantarla, viene fuori un lamento straziante.

Poi man mano che la ascolti, impari il testo, impari le note, impari la ritmica.

Riprovi a cantarla ed è già più gradevole.

Però gli errori son sempre gli stessi: i punti in cui ti inceppi, stoni, sbagli strofa.

Per raggiungere la perfezione occorre solo ripetere tante volte; e quando il passaggio è segnato nella memoria, la voce prende corpo e puoi esprimere al meglio la tonalità.

Perché è solo quando certi meccanismi sono fatti propri che si può imprimere energia, altrimenti nella frenesia, se non si è automatizzato quanto di base, bisogna rimanere concentrati là e non si riesce ad aggiungere del proprio.
Pensavo che lo stesso vale per le gare di velocità: i punti deboli sono quelli, sempre gli stessi. Io per esempio continuo a commettere lo stesso errore nei 50 stile: di cambiare mano all’arrivo invece di allungarmi.

Ma serve a poco esercitarsi solo negli arrivi: questi devono essere inseriti nel loro contesto lattacido per poter essere automatizzati in maniera realistica.

Dubbi sessisti *

Come accade di frequente colgo uno stralcio di conversazione tra i passanti; mentre cammino vengo superata da una bici guidata da un uomo che porta il figlio sul seggiolino (al cinema, scopro poco dopo). 

Capto le sue parole ma prima di comprenderne il senso sono costretta a ripeterle tra me e me, come se fossero passate in fast forward…

Le riproduco in slow forward e ne esce un ‘…i maschietti il calcio, le femminucce la pallavolo…’. Premesso che si qualifica come la più grande cagata sessista in tema di educazione dei figli, seconda solo a ‘il gelato al cioccolato è per maschi, le femmine prendono quello al gusto fragola’, un dubbio sorge spontaneo e non mi abbandona: e il nuoto? È da maschi o da femmine?

Terminologia incisiva

Non credo nell’efficacia dei turpiloqui alternativi. Non mi sottraggo all’uso di espressioni forti, quando ci vogliono.

Un ‘porca paletta’ non ha la stessa forza di un ‘porca puttana‘, vuoi perchè gli manca la U, vuoi perchè la doppia T arriva troppo tardi.

Ancora meglio Puttana Troia, che rafforza la doppia T con un tripudio di consonanti, il TR, per poi ammorbidirsi nel dittongo finale IA.

Anche le Z, insieme con delle C o G belle gutturali, aiutano ad esprimere sdegno: Grazie al cazzo, brutta zoccola.

ChePPalle o anche ChecCoglioni, col ‘GL’ messo lì a oliare l’espressione.

Merda merda merda, reiterato: R e D producono clangore, emettono vibrazioni.

Un par di balle: ad assumersi le responsabilità sono la B e la R.

E il vaffanculo? Più F ci si mette e più è liberatorio, e poi si allunga sulla U a piacimento.

Oppure fottiti, bello secco, conciso, immediato.
Però con le bimbe cerco di evitare tutte queste espressioni, mi sembrerebbe di usare loro ‘violenza verbale’, e se mi capita di ascoltarle in loro presenza sospiro ‘Educational channel’.

Al massimo Porca Pupazza, che ha la doppia Z, e mi scarica un po’.
L’altra sera Viola era senza pannolino, siamo ancora in fase sperimentale. Le ho chiesto mille volte se voleva che la accompagnassi in bagno e niente.

Fino a che si è messa a gambe larghe e ha sgocciolato la sua pipì sul pavimento.

“Viola…PERDINDIRINDINA” ho esclamato a gran voce.

A dimostrazione che una simile espressione non incute alcun timore lei è scoppiata a ridere, che se non se la era già fatta addosso se la faceva in quel momento, e ha iniziato a ripetere DIRIN-DIRIN-DINA come a voler imparare il vocabolo.

Sembrava cantasse il ritornello musicale di ‘Don’t let me be misunterstood’ dei Santa Esmeralda.

Siparietto dalla quotidianità *

Sala d’attesa del ps, interno giorno. Due sorelle accompagnano la madre.

La donna, alla soglia dei 92 anni, siede su una poltrona con le ruote; le due figlie sedute di fronte a lei la intrattengono. Età delle accompagnatrici stimabile un po’ oltre i 60. 

Una delle due veste decisamente giovane, anche se non le si addice molto: cardigan nocciola con cuoricini panna sopra canotta in pizzi blu cobalto e gonnellina in tinta; calze pesanti e scarpe tipo country. Circa 20 kg oltre la portata massima. L’altra, più vecchia ma decisamente più sobria, e anche dai lineamenti più attraenti. Entrambe con occhi chiari. A fianco il marito della senior. 

A guardarli non si capiva chi dei 4 fosse il paziente in attesa di valutazione: tutti mostravano un segno di possibile problema (chi un apparecchio acustico, chi la sporgenza di un porth…) e tutti parevano altrettanto sereni.

Le due figlie e la madre parlavano a ruota libera; rigorosamente in dialetto con l’accento della zona sud ovest della provincia.

Riporto uno dei dialoghi:

Madre: “avete sentito che la Manuela (o Emiliana???) è andata a convivere?”

Il verbo convivere è pronunciato con una punta di ribrezzo.

Figlia jr, con una spavalderia sopra le righe che cerca di dissimulare lo stesso ribrezzo: “eh ma é di moda andare a convivere adesso mamma”.

Figlia sr, un po’ rassegnata “ormai in chiesa non si sposa più nessuno”.

Poi, per dimostrare di essere al passo coi tempi, riporta la notizia della suora di clausura che ha partorito una bimba e dichiarava di non sapere di essere incinta.

Madre, con una naturalezza allarmante, si informa serafica sull’epilogo della vicenda “e alora, sta putela, i la gai copá?”.

Quando si dice ampiezza di vedute.

La prova costume *

Ieri sera Sofia ha deciso che, essendo tempo di carnevale, si sarebbe vestita in maschera.

E’ andata a recuperare il vestito dello scorso anno, arrampicandosi su per il suo armadio e facendo cadere una sbarra appendiabiti.

Mi ha detto ‘non preoccuparti mamma, la puoi rimettere al suo posto’ e si è infilata l’abito.
Le va ancora bene (lo avevamo preso comodo); è un abito azzurro, da fata turchina.

In realtà se non mette il cappello può essere anche ritenuto da principessa. Se invece si infila le ali a farfalla che ha voluto comprare assieme al vestito, può sembrare una Winx.

Comunque, a fugare ogni dubbio, c’è la bacchetta magica.

Ha iniziato ad agitarla: ‘bibbidi bobbidi bu’ continuava a ripetere, e voleva che io e suo papà esprimessimo dei desideri, in modo che lei potesse operare le sue magie.

Insomma era anche un po’ Aladino con la lampada magica.
Siccome tutto questo avveniva mentre cercavamo di cenare (compresa la sbarra appendiabiti che cadendo sul pavimento ci aveva fatto pensare al peggio), esprimevamo desideri un po’ a casaccio.
Il primo è stato ‘fai smettere di piangere tua sorella’ col suggerimento di offrirle il succhietto; ed ha funzionato.

Gasati dal risultato abbiamo espresso il desiderio che stanotte Viola non si svegliasse.

‘Bibbidi Bobbidi bù’ ha detto agitando la bacchetta verso sua sorella.

E poi? ha chiesto….. e poi boh!

Sempre ieri sera anche io ho deciso che dovevo affrontare la prova costume, azzurro anche il mio: il nuovo Arena carbon che stava lì impacchettato andava infilato; già lo avevo provato prima dell’acquisto, uno di test.

La taglia quindi era quella ‘giusta’.

Sì… giusta per la Barbie!

Ho avuto difficoltà da quando ho messo i piedi dentro i buchi per le gambe, già per arrivare al ginocchio ci è voluta tanta pazienza.

Poi è intervenuto san borotalco, e pareva di trovarsi su una pista innevata artificialmente, tranne per il caldo, che si stava facendo pesante.
Ho richiamato alla mia memoria tante scene viste in spogliatoio prima delle gare: pezzi di corpi umani (natiche, cosce, fianchi) che sembravano rispettare le leggi della fisica e della matematica, all’apparenza non sarebbero mai entrate in così poco tessuto, ma che miracolosamente entravano in spazi inferiori a quelli occupati naturalmente.
A suon di speranza e ottimismo, tanto ottimismo, sono arrivata infondo alla mia impresa.

Una volta addosso ho iniziato a pensare che la mia considerazione ‘se non vado più forte, almeno faccio bella figura’ è priva di fondamento.

Anche il mio costume è turchino, ma non viene buono nemmeno da Wonder Woman.

Morale: stanotte Viola si è svegliata ogni ora e mezza / due, altroché magia bibbidi bobbidi bu, e tra un risveglio e l’altro sognavo di smarrire il Carbon ancora prima di utilizzarlo una volta.

Motivazioni

Spesso mi sento domandare dove trovo la forza di partire da casa per andare a nuotare la sera, di inverno, dopo una giornata di lavoro, quando magari fuori è brutto tempo e il divano è così ospitale.

Nutro verso l’acqua sentimenti ambivalenti. L’impatto è sempre uno shock: che sia uno spruzzo, una passeggiata sotto la pioggia senza ombrello, una doccia in piena estate, un tuffo in piscina.

Passare dallo stato di asciutto a quello di umido o bagnato, volente o nolente, richiede di accettare un cambiamento repentino del proprio equilibrio termico. Anche solo camminare nella nebbia, con l’umidità che ti penetra nelle ossa.

Quando arrivo sul blocchetto (escluse le competizioni, quello è tutto un altro discorso) mi sento come un gatto sul punto di infradiciarsi tutto.

Dopo alcuni minuti di titubanza rinnovo l’atto di coraggio e mi butto: l’acqua imbeve il costume, entra nella cuffia; micro bollicine di aria si staccano dal corpo, la sento fluire.

Quando muovo le prime bracciate mi pare di essere bloccata, di non essere capace, di non ricordarmi come si fa anche se sono passati solo due giorni dall’ultimo allenamento.

Immersa nel silenzio, perché sotto acqua tutto è attutito, arriva solo l’eco di qualche partenza e qualche SCIAF SCIAF captato dalle bracciate altrui.

Tutti i pensieri iniziano a scivolare fuori dalla testa che si concentra sul da farsi, contando le vasche e dosando le energie o spremendole tutte. Gli arti sprigionano tutta la forza, comprese le tensioni negative. Inizia la lotta contro il cronometro.

L’affanno delle prime vasche lascia spazio ad un’euforia da iperventilazione.

Il sistema cardiocircolatorio inizia a pompare e ti scalda nel profondo.

Le battute e le risate tra una vasca e l’altra; le sfide tra compagni di squadra ti fanno sentire un eterno adolescente.

La soddisfazione, a volte e mai regalata, di battere il cronometro.

Essere bagnato ti costringe ad essere te stesso, senza abiti, senza make-up, senza possedimenti: tu e nient’altro che tu.

Essere immerso ti fa ricevere la spinta di Archimede, una legge fisica meravigliosa, patrimonio dell’umanità.

Tu in assenza di peso: non esiste circostanza migliore per mettere in atto un’attività fisica; tutto lo sforzo trasformato in risultato, senza dispendio per mantenersi eretti.

Essere capaci di nuotare è il privilegio di praticare ad ogni età lo stesso sport, cosa che in altre discipline potrebbe rivelarsi pericolosa.

Quando finisco provo una sensazione di pulito totale, con la pelle ammorbidita, e la mente sgombra di pensieri; mi sento tonica e dopo la doccia ne ho conferma dallo specchio, perchè immediatamente dopo lo sforzo il tono muscolare è nettamente visibile.

Ogni volta a fine seduta considero compiaciuta ‘non credevo che sarei stata in grado di completare questo lavoro’, e sono già pronta, protesa verso il prossimo.

Per questo nuotare sta diventando un’attività imprescindibile da me stessa, non riesco ad immaginarmi di stare senza. Anche se ogni volta che devo buttarmi dentro è un piccolo dramma.

 

Tanti auguri a… La Settimana Enigmistica

Oggi la Settimana Enigmistica, il settimanale che vanta innumerevoli tentativi di imitazione, compie 85 anni.

E in 85 anni tutti questi tentativi sono falliti!

Non posso affermare di conoscere la rivista dal suo esordio, ed è diverso tempo che non mi ci diletto più, ma per tanti anni è stata mia fedele compagna nei periodi di ozio.

Ozio attivo, perchè tiene la mente impegnata.

Il mio approccio negli anni è cambiato: dapprima, appena faceva ingresso in casa, mi accaparravo gli ‘Unisci i puntini’, che mi davano l’illusione di essere in grado di disegnare.

Il giochino di fianco, quello di annerire gli spazi col puntino invece l’ho sempre trovato noioso.

Evidentemente ho sempre manifestato propensione per la definizione della forma che per il mero contenuto.

Poi è stata la volta dei cruciverba, quelli centrali, gli schemi grandi, meglio sopra tutti il Bartezzaghi, ma anche il Ghilardi.

Partivo dalle parole periferiche di due lettere, semplici sigle, per indovinare, aggiungendo piano piano vocaboli più lunghi, la parola centrale che occupava a tutta larghezza lo schema.

Un motivo per cui le imitazioni della rivista non hanno mai riscosso il successo della SE secondo me risiede proprio nella precisione e nella sagacia delle definizioni.

La definizione non ti lascia mai perplesso: puoi saperla o non saperla (molto più spesso la seconda), ma a posteriori non è mai ambigua; quando scopri la risposta ti batti la fronte ed esclami “Ma come ho fatto a non pensarci?”.

Anche il fatto di pubblicare le soluzioni nel numero successivo stimola il lettore a sforzarsi di trovare da sè una soluzione, e poi a comprare il numero dopo.

(Oppure puoi cimentarti sui numeri precedenti e consultare le soluzioni in tempo reale, ma a quel punto sei già un lettore assiduo).

L’impaginazione e la grafica si sono mantenute immutate negli anni, salvo l’uso dei colori nelle pagine interne da qualche anno a questa parte.

All’inizio era tutto rigorosamente in bianco e nero, solo si alternavano i tre colori di copertina, rosso verde e blu, a segnare lo scandire delle settimane, e a riconoscere a distanza il numero attuale dai precedenti.

Immutati nel tempo anche gli elementi ricorrenti nelle vignette dei rebus, che ho imparato a risolvere con parecchia fatica.

A tempo perso mi dedicavo alla ricerca delle 25 differenze tra due vignette apparentemente uguali, che quando arrivavo a 18 iniziavo a vaneggiare e notare difformità su dettagli identici; o al confronto tra disegni diversi ma con 7 particolari in comune.

Ho imparato ad apprezzare la fantasia poetica degli autori delle sciarade, dei lucchetti, delle zeppe e degli anagrammi.

E poi qua e là le vignette, che io supponevo essere barzellette e le raccontavo: memorabile la battuta ‘Mamma, mamma! Papà arriva’ che io avevo raccontato appunto a mia mamma, ritenendo che lei dovesse mettersi a ridere a crepapelle.

Invece non avendole spiegato che si trattava di una barzelletta raffigurata, lei si ostinava a non capire.

Un altro gioco che non lasciavo incompiuto era il bersaglio, con cui passavi da una parola all’altra con le regole più diverse.

Oppure, ma in una fase ancora primordiale, lo schema in cui si cancellano le parole in tutte le direzioni fino a lasciare poche lettere che formavano una parola risolutiva.

Ma il gioco che in assoluto amo di più, che se mi capita in mano un numero qualunque vado subito a cercare, sono gli incroci obbligati: definizioni semplici di parole che non sai dove mettere.

Un mix di fortuna ed intuito, complice qualche lettera straniera, o una definizione inequivocabile, che porta ad una soddisfacente risoluzione; perché le regole intrinseche di ogni gioco le apprendi solo giocando.

Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!

I traguardi più ambiti nascondono insidie che trascuriamo fino a che non li raggiungiamo.

Sottovalutiamo tutti i lati B di una questione che rincorriamo, fino a che non ci sbattiamo contro: un paio di scarpe nuove in vetrina non ci faranno mai male ai piedi, continueranno ad esercitare attrattiva sul nostro desiderio compulsivo di shopping fino a che, ahimè, dopo poche ore che le indossiamo capiamo che non possiamo portarle per tante ore.

Quando è nata Sofia ero bramosa di tutti quei traguardi che ogni genitore si pone: non vedo l’ora che cammini, non vedo l’ora che mangi autonomamente, non vedo l’ora che parli.
Salvo poi scoprire che quando cammina vuole comunque stare in braccio, ma pesa di più; e che quando mangia autonomamente diventa estremamente esigente e fa uno tsunami di cibo nel raggio di due metri.

Ma il dialogo conserva un fascino al quale è difficile opporsi, perchè apre le porte all’interattività.
Si passa da un rapporto monodirezionale ad uno bidirezionale; si passa dall’interpretare il pensiero altrui all’apprenderlo.
Con la differenza che l’interpretazione spesso finisce con l’assomigliare troppo al nostro pensiero, mentre la comprensione riserva delle sorprese.

Ieri sera mentre accompagnavo a letto Viola lei mi parlava, una raffica di discorsi, elementari ma completi.
“Questo è il mio letto. Io salto sopra il letto, salto nelle poccianggere. Anche Sciofia ha un letto. Anche Sciofia salta sul letto”. Poi sospende i salti perché devo infilarle il pigiama.
Allora mi chiede “Mamma, mi levi le codine?” E aggiunge “tieni i elastici, domani li porti a Lorena; Lorena mi fa le codine”.

Sono in fase di ascolto, mi sto crogiolando di piacere come se fossi distesa su una spiaggia assolata a respirare la brezza marina.
Come è normale che avvenga, Viola accetta di buon grado da altri cose che per me è impossibile farle accettare: se le dico di scendere dall’auto non vuole, ma se glielo dice Sofia scende subito. Se le dico di togliere i guanti e il berretto dentro un ambiente chiuso non vuole, ma se glielo suggerisce un estraneo lo fa subito. Così, tanto per dialogare le chiedo ‘ma perché le codine che ti fa Lorena non può fartele la mamma?’.

E come una pallonata a cannone sulla vetrina dei cristalli arriva la risposta

“È vecchia”.