La carta argentata

A casa la cioccolata non mancava mai, ce ne era di tutti i tipi: fondente, perlopiù, ma anche al latte – per i bambini – o bianca.
E non mancavano i cioccolatini: Ferrero Rocher, Mon Cheri, gianduiotti; ma i prediletti, quelli che duravano veramente quanto un gatto in tangenziale, erano i Baci Perugina.

Il giorno di San Valentino era la scusa buona per far pervenire in casa una mini riserva di baci: la nonna li regalava alle nipoti, il papà alla mamma, e tutti li mangiavamo.

Quando si scarta un bacio, si mangia prima il cioccolatino o prima si legge il biglietto?
Ognuno ha le sue procedure.
Il mio papà ad esempio era uno che partiva a mangiare la pizza dai bordi: ritagliava tutto il cordone, lo masticava piano e poi, quando ormai la marinara era fredda, ne mangiava il cuore.
Con le mele usava fare un’altra lungaggine: torceva il picciolo in senso alternato, facendo con il frutto una specie di giostra, e quando lo stress test arrivava a rottura, e solo allora, sbucciava il frutto per mangiarlo.

Con i baci, è ovvio, iniziava dalla lettura del messaggio. Poi prendeva la carta stagnola, quella argento con le stelle blu, e la lisciava fino a farla apparire praticamente nuova.
Per ottenere un risultato migliore partiva da uno scarto certosino, attento che l’incarto non si rompesse.
Le operazioni prendevano una decina di minuti, e durante questo tempo il suo cioccolatino rimaneva appoggiato sul tavolo, con la nocciolina prominente e la base quadrettata a fare da appoggio.
Mentre lui lisciava gli altri si spartivano il tubo così quando ormai a loro rimaneva solo il ricordo del gusto lui assaporava la sua meritata parte.

È stato così fino a che un giorno mia sorella gli ha sottratto il cioccolatino mentre lui ci presentava la sua bella cartina: si è presa il bacio dal tavolo e ne ha fatto un solo boccone, lasciandolo all’asciutto.

Ogni tanto racconto alle ragazze questi aneddoti.

L’altra sera Viola mi si è avvicinata mentre sparecchiavo la cena, con un pezzo di carta stagnola in mano.
Porgendomelo non mi ha detto di buttarlo, mi ha detto ‘te lo do così ti ricordi del tuo papà’
Non capivo, le ho chiesto in che senso.
‘Perché è tutto liscio’.

Buon San Valentino

IL MANTELLO DELLA VISIBILITÀ

Qualche sera fa ero a cena con un’amica in un piccolo ristorante del centro; locale affollato in giorno infrasettimanale nel periodo pre natalizio.

A noi hanno assegnato un tavolino nella zona centrale, separato appena da quello adiacente.

Sala piccola, devono sfruttare bene gli spazi: si mangia bene e livello sonoro accettabile, quindi tutto perdonato.

Il locale dispone, ovviamente, anche di servizi igienici; e poi ci sono i fumatori costretti ad uscire all’aperto per assecondare il proprio vizio. Si crea quindi un piccolo andirivieni di persone perché la toilette e l’uscita si trovano agli estremi opposti. E noi nel mezzo come un’isola col fiume di gente che passava attorno.

Una tizia urta appena lo spigolo del nostro tavolino e si sofferma per scusarsi. La mia amica crede di riconoscerla e la saluta. Fine della serata tranquilla.

La tizia si ferma e ricambia il saluto in maniera esagerata, maaaa ciaaaaaooooo.

Lei e la mia amica si studiano un po’ per capire dove si sono viste, si propongono un paio di luoghi e poi l’altra dichiara che non abita a Vicenza, ma a Trieste.

Cioè abita a quasi 200 km, no a Padova o a Verona: a Trieste, che dista da Vicenza come Milano, solo si trova ad est invece che a ovest; poco probabile che si potessero mai essere già viste, nè in palestra nè in posta nè altrove.

Una volta rotto il ghiaccio la tizia si presenta, con tanto di biglietto da visita completo di tutti i recapiti. Si chiama Lorenza, è di professione commercialista ma sta intraprendendo un’avventura nel mondo della moda, ci racconta.

Ha creato una linea di mantelli ed ha talmente tanto lavoro che cerca dei terzisti. Noi per caso ne conosciamo? No? Se dovessimo sentire qualcuno abbiamo il suo numero per avvisarla.

Indossa proprio uno di questi meravigliosi mantelli; anche se proviene dalla direzione del wc, e non dell’area fumatori, se lo è messo, probabilmente deve fare una sfilata.

Viste le temperature il mantello, con collo di pelliccia, è eccessivo, a maggior ragione se non devi uscire all’aperto.

Recentemente ha partecipato alla settimana della moda a Cortina.

Mentre racconta tutto questo in maniera teatrale, la sua amica, una donna con un carré di capelli rossi, seduta a un tavolino più in là, ammicca nella nostra direzione, e io interpreto che sia impaziente di riavere la sua commensale.

Pare che ci siamo liberate di lei e nel frattempo ci servono la cena.
Noi col boccone in bocca e Lorenza ricapita al nostro tavolo, senza mantello stavolta, e ci propone di seguire il suo canale Instagram in cui lei posta foto di mantelline e video di sfilate.

Aggiunge che ha un figlio che a sua volta ha avviato una linea di moda, produce felpe. Anche lui ha un canale ig, che ci suggerisce di seguire. Controlla che lo facciamo.

Così se conosciamo qualcuno a cui possono interessare le sue mantelle o le felpe del figlio…

Rimane con noi mentre, masticando la tagliata, guardiamo le foto.
Riconosciamo la sua commensale in veste di indossatrice dell’altro modello di mantello, quello verde con ricamo nero; Lorenza invece, che è bionda, ne indossa uno nero con ricamo bianco.

Non ricordo come, anche questa seconda volta siamo riuscite a liberarci.

Trascorsi una decina di minuti era di nuovo lì, a chiedere consiglio su un locale dove poter andare a ballare. Di martedì. A Vicenza.
Non sappiamo aiutarla nemmeno in questo.

E così, avvolte nei loro mantelli trendy, Lorenza e la sua amica se ne sono andate.

Noi stiamo ancora pensando se conosciamo un terziario. O un terzista. O un terzino.

Identità

Grande liceo cittadino, interno giorno.

Varco l’ingresso di buonumore, baciata da una giornata di sole e con il timore reverenziale che si nutre verso le pubbliche istituzioni o gli studi medici, a prescindere dal motivo della visita.

Nel corridoio che segue l’atrio di ingresso, di fianco alla portineria, alcuni ritardatari della prima ora attendono silenziosi di poter accedere alla classe per l’inizio della seconda. Ripassano ognuno la propria materia senza eccessiva convinzione; qualcuno scrive su un quaderno in bell’ordine.

Io sono li per il ricevimento degli insegnanti: non sono più una di quegli studenti e non sono nemmeno una prof, nè mi sentirei di esserlo. Mi viene più facile calarmi nei panni dei ragazzi che capire l’oscuro mondo dei docenti.

Sono una figura ibrida, a metà della piramide di cui gli studenti sono alla base e i prof al vertice: sono un genitore, quindi sono un’adulta che però pende dall’oracolo che uscirà dal magico cilindro dei sommi.

Non mi interessa sapere che voti prende mia figlia, che il registro elettronico lo so leggere da me: sono li per conoscere gli insegnanti e farmi conoscere dagli stessi.

Ho prenotato ben quattro incontri nella stessa mattina, per ottimizzare i tempi.

Le prime due che mi ricevono non si dimostrano preparate: pur avendo avuto oltre un mese di anticipo per capire chi è lo studente di cui dovranno offrire un brevissimo resoconto, non sono riuscite ad arrivare pronte e annaspano sotto il mio sguardo, cercando di fare mente locale con il supporto del registro elettronico per capire chi è la ragazza di cui mi aspetto notizie.

Candidamente rivelano di non ricordarsi chi è.

Temo che con la fine dell’incontro la conoscenza non sarà reciproca: gli elementi di me che ho offerto a loro saranno evaporati col suono della campanella; rimarrà la loro impressione su di me.

Con il cambio dell’ora uno

sciame di adolescenti si sposta da un’aula all’altra.

Diversi ma tutti uguali; camminano a gruppi di tre o quattro, qualcuno da solo; zaino in spalla e un libro o due in mano.

Dai loro volti traspare preoccupazione – per una interrogazione o un compito – e la serenità dei loro anni; le due cose convivono senza collidere.

Alcuni chiacchierano sotto voce, molti tacciono: è un trasferimento garbato, forse un po’ assonnato.

Se mi chiedessero di descriverne uno, o una, proprio non saprei: si mimetizzano l’uno con l’altro, si uniformano, si confondono, si assomigliano.

Anche negli sgabuzzini dei ricevimenti c’è l’avvicendamento: è il cambio della guardia, i prof della prima ora raggiungono la classe ed arrivano quelli della seconda ora.

Alla postazione 5 c’è il mio vecchio prof di matematica. Quando era il mio prof era fresco di laurea, ora è prossimo alla pensione.

Non lo vedevo dall’esame di maturità, il mio. Meglio: non ci vedevamo, perché la cosa è reciproca.

Io ho ricevuto lo spoiler dal tabellone in cui era scritto il suo nome ma fatico un po’ a riconoscerlo.

Mentre attendo il prossimo turno, quello del terzo colloquio, mi perdo in chiacchiere con gli altri genitori e con un’amica di vecchia data che, coincidenza, attende di parlare proprio con lui.

Viene il turno della mia amica che mi cede spazio per un breve saluto.

Mi avvicino quasi in punta di piedi, chiedendo sommessamente se si ricorda di me.

“Vieni vieni qua” mi ordina, dandomi direttamente del tu.

Mi sento come se fossi stata chiamata alla lavagna per l’interrogazione; mi avvicino e mi scruta da vicino, abbassando gli occhiali.

I suoi lineamenti sono gli stessi di un tempo, solo i colori sono sbiaditi; è rimasto lo stesso e al contempo non è più quel ragazzo fresco di laurea catapultato in una classe di irriverenti maturandi, ma ha mantenuto lo spirito giocoso, l’accettazione dello scherzo da cui non si sottraeva.

Esordisce con “Tu sei…”, prosegue con una piccola pausa; poi dice il mio nome di battesimo, e dopo un’altra brevissima pausa il mio cognome. Precisi, puliti.

Si ricorda anche che corso di laurea ho seguito, gli manca solo di sapere cosa ho fatto poi. Qualche minuto di come stai e come sta, mi chiede chi ho in questa scuola e poi ci salutiamo, cordialmente.

Sono trascorsi alcuni giorni e io sono ancora commossa: se la norma è che un insegnante non sa riconoscere un suo alunno attuale, pur con l’anticipazione di ricevere la visita del genitore, lui che non poteva minimamente immaginare la mia comparsa ha saputo rinvenire a colpo sicuro nel database della sua memoria la mia faccia, trent’anni dopo.

Tanta, ma veramente tanta stima!

… mi disegnano così

Alcuni giorni fa mi sono guardata allo specchio inconsapevolmente: ero tra i miei pensieri e il viso ha incrociato una superficie riflettente.

Mi sono trovata al cospetto di una faccia che esprimeva forte disappunto, talmente forte che mi sono sorpresa.
Era dissonante dai miei pensieri, non ricordo attorno a cosa ruotassero, ma per certo non giustificavano quella smorfia schifata.

Oggi un biondino al supermercato ha letto con terrore il mio sguardo preterintenzionale. Stava dentro al carrello della spesa, sulla seduta rossa e con le gambe penzoloni verso il suo papà.
Mentre attendevamo la chiamata del numero per gli affettati, appena mi ha vista ha nascosto i suoi occhietti azzurri sotto la pancia del genitore, che prontamente gli ha chiesto se fosse la signora, cioè io, a spaventarlo.

Per sdrammatizzare il papà ha iniziato a richiamarlo e spiegargli che non gli facevo nulla; mi sono sentita in dovere di rassicurarlo, mimando un senso di sazietà e confermando che ero già a posto. Ho aggiunto che anche io ho due figlie e fatto marameo con la mano, ma non ha funzionato.

Di lì a poco è arrivata la madre, a cui il compagno ha riferito che il bimbetto era intimorito dalla signora, sempre io.
Lei ha voluto sapere cosa io avessi detto o fatto per spaventarlo così.

Io, la signora, stavo semplicemente depennando dalla lista ciò che avevo già deposto nel carrello, vostro onore.

Una vita in rosa

Attenzione, contiene spoiler.

Attenzione non è una recensione.

Attenzione è molto lungo.

Leggetelo solo se non volete andare a vedere il film Barbie (ma poi magari lo vorrete), se lo avete già visto o se non vi importa di leggere le anticipazioni.

Io lo scrivo per il piacere di poterlo poi rileggere a distanza.

Perché sono andata a vedere questo film?

La molla era scattata da un passaggio radiofonico in cui si annunciava Barbienheimer, ovvero l’uscita in contemporanea nelle sale di due film, Barbie ed Oppenheimer. Pare che molti si fossero prenotati per vederli entrambi la sera stessa della prima, per una maratona di oltre 4 ore di proiezione, roba per spettatori allenati.

Alla notizia avevo immaginato che potessimo suddividere la famiglia a metà e seguire le proiezioni in sale parallele, come già fatto lo scorso anno con Top Gun e i Minions.

In Italia però sarebbe uscito solo il film Barbie, intanto.

Quando le ragazze mi hanno chiesto di accompagnarle a vederlo mi ero immaginata un filmetto da bambine, e mi ero convinta di fare un’opera da mamma e portarle.

A supporto della richiesta mi avevano detto che per produrlo si era esaurito il colore rosa.

Poi ho iniziato a sentire diverse amiche che lo andavano a vedere o volevano andarci e mi è montata la curiosità.

L’unica delle tre che si è vestita di rosa per l’occasione comunque sono io.

Non avevo idea di cosa mi aspettasse, solo nel viaggio di andata Sofia mi aveva anticipato ciò che aveva desunto dal trailer.

Il film è ben confezionato e offre diversi livelli di lettura, adatti alle varie età.

È un film patinato, se fosse una rivista sarebbe Vogue.

Non ho colto le citazioni e i rimandi cinematografici a causa della mia ignoranza in materia.

Tutto ciò che dico sono osservazioni personali.

È gradevole da guardare: è lezioso, quasi stucchevole, un film recitato da attori ma nitido come un cartone animato.

Ci sono coreografie, balli, canti; vita da spiaggia e da discoteca, passeggiate, momenti tra amiche.

Se dovessi annoverarlo in un filone farei fatica: non è un musical, non è una commedia, non è un film di azione.

Non ci sono storie d’amore, men che meno di sesso; non ci sono combattimenti, nè battaglie epiche.

Qualche inseguimento, amicizia non saprei dire.

Direi che è un film ironico, satirico, a tratti forse demenziale.

Per certo è un film intelligente, fatto dalle donne e destinato a chi lo vuole recepire.

Ho sentito molti, per la maggior parte uomini, rifiutarsi a priori di vederlo.

Capisco poco questa presa di posizione: credo sia una forma snobismo per un film che si suppone sdolcinato, melenso o forse fintamente femminista.

Non lo è.

I dialoghi, oltre alle immagini a cui si è fermata Viola e ai quali non poteva arrivare del tutto Sofia, i dialoghi dicevo, e i commenti fuori campo, sono il pezzo forte del film.

La storia si apre sul mondo ideale di Barbieland, abitato da un numero imprecisato di barbie ed altrettanti ken.

Tutti loro non hanno altro nome proprio, si chiamano proprio tutte Barbie e tutti Ken e si salutano ciao Barbie ciao Ken.

Si scambiano reciprocamente la battuta per alcuni minuti mentre il narratore descrive la perfezione della routine quotidiana e l’incongruenza con le leggi della gravità (le barbie non scendono le scale ma si lanciano dal secondo piano della loro abitazione, trovando sotto l’auto ad accoglierle).

Due di questi elementi, una barbie un ken tra i mille, vengono eletti a protagonisti principali: lei è Barbie stereotipo, lui è Ken e basta (Kenough). Di Alan c’è un solo esemplare, e forse e anche di troppo.

Il Ken prescelto è interpretato da Ryan Gosling, che conciato come è uccide ogni fantasia sessuale delle spettatrici.

Le varie barbie si distinguono: c’è quella col televisore sulla schiena, quella un po’ in carne (prodotta veramente dalla Mattel: ne ho preso una per le mie figlie e mi sono stupita; soprannominata subito Barbie galoni, che in veneto significa cosce grosse), e persino una barbie in sedia a rotelle (mi domando come possa essersi ridotta così se pur lanciandosi dal secondo piano le barbie ne escono incolumi).

Nella vita perfetta di Barbie stereotipo, da qui in poi semplicemente Barbie con la B maiuscola, un giorno si insinua una crepa: l’acqua della doccia mattutina è fredda, l’uscita di casa un po’ stentata, i piedi perennemente arcuati si appiattiscono, osserva un accenno di cellulite sulle cosce, le si manifesta il pensiero che esiste la morte.

(Non credo che le mie figlie abbiano colto il problema oltre al piede piatto, ben illustrato dalle immagini, perché non sanno cosa sia la cellulite o comunque non si pongono il problema).

La community la indirizza senza dubbio alcuno a colei che di vita vera ne sa più delle altre: un tempo era anche una lei una barbie perfetta, poi le sono stati tagliati i capelli e le è stato pitturato il viso, e pur mantenendo le movenze da barbie, con la gamba tesa e la spaccata sempre pronta, si è trasformata in una specie di mostro, soprannominata barbie Stramba.

Barbie Stramba spiega che nel mondo reale ogni barbie ha un corrispondente in forma di bambola; forse la bambina che gioca con lei ha iniziato a manifestare pensieri di morte e urge correre là e risolvere la situazione.

A me barbie Stramba ha fatto morire dalle risate perché è esattamente l’incarnazione di tutte le poche bambole che ho avuto e a cui ho lavato dapprima i capelli, ritrovandomele con una scopa di saggina rovesciata in testa, e a cui ho cercato di porre rimedio con un taglio avanguardistico; in più si mixa alle miriadi di bambole delle mie figlie a cui hanno colorato coi pennarelli occhi e bocca.

Barbie Stramba indirizza Barbie al mondo reale e le suggerisce di indossare, in luogo delle scarpe col tacco, un paio di comodissime Birkenstock; orrore, lei rifiuta ma l’altra insiste.

È un dubbio amletico che vivo spesso quando si tratta di uscire: eleganza o comodità? This is the question.

Barbie quindi parte verso il mondo reale e l’amico Ken (ma sarà poi amico? Lui vorrebbe qualcosa di più ma a lei non potrebbe interessar di meno; forse lei sogna Big Jim che però nel film non è stato scritturato) la segue e la accompagna.

Attraversano l’interregno con tutti i mezzi disponibili (auto camper bicicletta astronave) e raggiungono la vita reale.

Qui si scontrano subito con le prime ostilità: percorrendo sui roller un viale incontrano degli operai in pausa pranzo che urlano apprezzamenti sul corpo di Barbie.

Lei si ferma a controbattere, dichiarando a gran voce che loro due sono privi dei genitali.

Ad altri importuni più invadenti, che le danno una manata sul culo, lei risponde con uno schiaffo, e vengono presi dalla polizia.

Rilasciati decidono di vestirsi diversamente e prendono dei nuovi abiti (ovviamente rosa) in un negozio; dovrebbero pagarli, ma nel mondo da cui provengono non esistono i soldi; non trovano soluzioni migliori che scappare. E di nuovo la polizia li cattura.

Si accorgono anche che quando bevono da un qualunque bicchiere il liquido che c’è dentro gli si rovescia addosso. Chi ha giocato almeno una volta in vita sua con le bambole troverà godibili i paralleli con la vita reale e con le incongruenze.

Mentre Barbie cerca (e trova) chi le ha fatto ‘il malocchio’, Ken prende coscienza del ruolo dell’uomo nel mondo reale, ben diverso da quello che viene riservato ai maschi a barbieland.

Tenta un riscatto della sua posizione imponendosi come medico (per esercitare la professione, nella sua idea, bastano un camice ed una penna a scatto; gli viene risposto che non funziona esattamente così, ed è una donna, di aspetto mediocre, a dirglielo). Nemmeno come bagnino lo vogliono perché, contrariamente alle apparenze di un fisico prestante, non sa nemmeno nuotare.

Barbie intanto viene intercettata dalla Mattel che vuole rispedirla nel mondo incantato dentro una scatola.

La gigantografia dei suoi polsi vincolati con le fascette bianche al supporto, lo confesso, mi ha instillato una buona dose di inquietudine: mi sono sentita io in trappola per lei, in un fotogramma ho rivissuto una costrizione a cui l’universo femminile viene sottoposto e la liberazione di Barbie è stata catartica.

Scappa Barbie per tornare a Barbieland, assieme alla ragazzina artefice della sventura e alla madre, vera responsabile del tutto; inseguita dal CdA Mattel, tutto al maschile (ma non c’è nemmeno una donna che lavora qui? chiede ad un certo punto la protagonista); anche Ken torna all’ovile, con una nuova consapevolezza.

Attraversano di nuovo l’interregno, cambiando abito per ogni mezzo di trasporto.

Ken, avviluppato in un pellicciotto fashion e molto kitch, è determinato a portare la rivoluzione a barbieland: organizza gli uomini, solleva le donne dai ruoli (mentre qualcuna esclama come è bello non dover decidere niente) e caccia Barbie dalla sua casa, che ora è diventata casa-villa-Mojo-Dojo (niente di cui sorprendersi di questi nomi: nella barbieland che sta dietro la mia cucina abbiamo casa Reshasa, casa Lislie e casa Noddle).

Lancia a Barbie tutto il guardaroba (oltre a possedere casa camper bicicletta ed astronave, barbie ha un sacco di capi di abbigliamento non strettamente necessari) dal secondo piano e costringe la sua (ormai ex) amica a trovarsi un’altra sistemazione.

Barbie stereotipo si trasforma in Barbie depressione e piange e si dispera; qui la struttura del film si rivela in tutta la sua bellezza con una voce fuori campo (quarta parete) che commenta ‘Bisognerà dire alla filmmaker che è poco credibile con un’interprete come Margot Robbie, che vengano recepite frasi come sono un cesso’.

La situazione ritorna sotto controllo, per farla breve, e nel finale Barbie sceglie di andare a vivere nel mondo reale dove, per prima cosa, ha appuntamento con la sua ginecologa.

In sala, durante la proiezione, mancava per un guasto l’aria condizionata e la mia poltrona per un altro guasto non si allungava.

Devo ritornare a vederlo perché un film così va gustato per intero!

(All’uscita c’era un gruppo di ragazzi giovani con la maglietta rosa, troppo carini, forse le nuove generazioni sono più libere da preconcetti.)

Là ci darem la mano

Di Bassano tutti conoscono il ponte degli alpini. È il luogo più affollato della cittadina. Al sabato sera poi si concentrano un po’ tutti li, è quasi difficile il passaggio.
Certo la vista è suggestiva: il ponte storico, appena ristrutturato, fa da sipario al fiume Brenta, che scorre sotto e riflette in un’immagine tremolante i caseggiati sulla riva, frastagliandone i contorni ma vivacizzandone i colori.

In molti scattano foto a questo sfondo, e molti altri mettono loro stessi al centro dell’obiettivo, con il fiume alle spalle.

Però le cose belle si nascondono ovunque, e non necessariamente dove l’affluenza è maggiore.
Dall’altro capo del centro storico, quasi nascosta in una nicchia, una ragazza cantava.
Di artisti di strada sono piene le vie, soprattutto quando la primavera avanza e le temperature e la luce migliorano la vita all’aperto.
Questa però aveva una voce che definire bella è riduttivo.
Aveva una voce bella in modo imbarazzante, e cantava con fare superlativo.

Non ci avresti scommesso, a vederla.
Di corporatura minuta, per nulla appariscente, anche un po’ trasandata nel vestire; i capelli sembravano passati in candeggina, la pelle bianca come il latte, gli occhi truccati appena di nero, un piccolo orecchino rotondo sul naso.
Giovane anzi giovanissima.

In una mano reggeva una cassa di dimensione ridotta, rosso corallo, da cui usciva la base.
Nell’altra mano il cellulare, con una cover gommosa dello stesso pantone della cassa, per controllare il testo.
Se la vedevi avresti detto che stava facendo per gioco, come ai neo laureati per fare festa, gli fanno cantare una canzone.

Lei dimenava le braccia per darsi il ritmo.
E dalla sua gola usciva un suono potente, deciso, quasi metallico, che altalenava tra i toni in maniera convincente.
Non conosco il titolo del brano, nè avevo mai sentito quella melodia in precedenza.

Non aveva pubblico, solo due o tre attorno a lei che parevano suoi amici.
Davanti a sè aveva steso un cappello rovesciato, ma non credo che il fine suo ultimo fosse veramente raccogliere denaro.

Quando l’ho superata e la sua canzone mi è rimasta alle spalle ho sentito un brivido: io credo di non avere mai avuto l’onore prima di ascoltare una simile interpretazione canora.

Mi sono fermata e sono tornata indietro, per ascoltare il resto.
Non ho avuto l’ardire di scattare una foto o registrare un video, ma credete, era incantevole.

Al termine non ho saputo trattenere un applauso, e gli altri tre si sono uniti al mio.
Una ragazza l’ha abbracciata.

Eppure il ponte degli alpini, e tutta la gente, stavano dal lato opposto, nonostante le bellezze si trovassero proprio qua.

La coda dell’arcobaleno

Aveva sentito dire che là dove finisce l’arcobaleno si trova una pentola piena di monete d’oro.

Se la immaginava grande come quella in cui Panoramix prepara la pozione; non una pentola di quelle moderne, adatte ai fornelli ad induzione, con qualche congegno sul coperchio per misurare la temperatura interna: al contrario si figurava un pentolone di un metallo sottile, dai bordi slabbrati. Tondeggiante e capiente, e soprattutto piena di ricchezza.

Era un giovanotto credulone Alfonso, credeva alle leggende, soprattutto se promettevano qualcosa di buono.

Così dopo la pioggia intensa, non appena il sole aveva ripreso a splendere e aveva incontrato mille gocce ancora sospese nell’aria, formando il caratteristico spettro di colori, Alfonso si era precipitato alla ricerca della sua coda.

Poco importava se bisognava attraversare il bosco, anzi ne avrebbe potuto approfittare per una passeggiata rinvigorente: respirare il profumo di umidità, di legno bagnato, di funghi; ascoltare il cinguettio degli uccellini; praticare un po’ di movimento e guadagnarne in salute.

Ma dopo ore di cammino la coda dell’arcobaleno andava sparendo, senza rivelare nessuna pentola nè, ovviamente, nessun tesoro.

L’unica sorpresa che gli era stata riservata era un ruzzolone sulle foglie scivolose, a causa del quale si era infradiciato fino alle mutande.

Non restava che fare ritorno a casa e cercare nell’armadio qualcosa di asciutto con cui cambiarsi.

(Esercizio di scrittura: #pentola #bosco #armadio)

Scema & +Scema

C’è che la linea internet da sabato ha dato forfait, ed è un guaio; si sopravvive un minuto senza aria, un giorno senza acqua, per sempre senza una risposta, ma quanto senza connessione?

Questo pomeriggio il tecnico è uscito, dietro segnalazione ma senza alcun preavviso; tocca correre a casa perché pare debba verificare qualcosa di non meglio precisato sull’attacco, o sul router chi lo sa, e bisogna aprirgli la porta.
Ma del tecnico nemmeno l’ombra.
Faccio un paio di verifiche ma è tutto rotto come prima.
Finalmente la connessione ritorna e chiamo il marito, che si era occupato di contattare il tecnico, per comunicarglielo.
Proprio in quell’istante sento suonare il campanello ed interrompo la telefonata prima di ricevere risposta; vengo istantaneamente richiamata, ma non rispondo, perché impegnata ad accogliere il tecnico.

Gli riferisco che è tutto ok, gli faccio vedere che Netflix è ripartito.
Lui allora mi chiede di verificare anche il funzionamento del telefono fisso, ed è così che dal numero di casa, con il cordless, mi chiamo sul cellulare.
Eureka, va tutto, grazie e arrivederci.

Ed è qui che il genio si scatena: richiamo il marito, che avevo lasciato senza risposta (potrebbe sopravvivere per sempre ma io sono puntigliosa): dal cellulare ripeto l’ultimo numero, registrato a suo nome.

Sento suonare il fisso e a questo punto mi spazientisco per la sua impazienza: possibile non riesca ad attendere che lo richiami?

Brillante idea, rispondo.
E mi aspetto di sentirlo, cioè di sentire lui, la sua voce, su entrambe le linee.
“Pronto? Pronto?”
Mah… è una voce femminile… Pronto?

La domanda rimbalza con un lieve sfasamento da un orecchio all’altro.

Ma chi è???? Chi parla???

AAH SI…. SONO IO!

Mi faccio la domanda, mi dó la risposta.

Rosso o blu? Questo è il dilemma

Negozio di bricolage una domenica mattina di quasi primavera. Clientela quasi esclusivamente maschile, tutti concentratissimi ad individuare tra gli scaffali la giusta brugola o il raccordo della misura cercata.

Nessuna musica allieta nè i dipendenti nè i visitatori.

Un tranquillo viavai di gente intenta a procurarsi il materiale per qualche manutenzione domestica, o forse per il lavoro settimanale.

Alle casse file importanti, anche 4 o 5 in attesa per ciascuna; ognuno ha pochi pezzi in mano o nel cesto, ma si formano delle batterie ordinate di gente che attende in piedi il proprio turno.

Improvvisamente un pianto interrompe il brusio sommesso che aveva regnato fino a poco prima.
Nessuno sembra curarsene. È un pianto che sembra più di noia, non è certo un capriccio nè un pianto disperato.

Proviene da un bimbetto che staziona sulle spalle del suo papà, in fila alla cassa come molti altri.

Nessuno sembra interessarsi alla causa; il bimbetto, sotto una cuffietta in jersey calata fino alle sopracciglia, non smette.

Dopo un certo numero di singhiozzi il papà, senza scomporsi, porge al figlio un ciuccetto di colore rosso.
Il piccolo lo accetta con la mano destra, se lo rigira un po’ mentre lo guarda da diverse angolazioni e anziché infilarselo in bocca ne estrae un altro dalla tasca del suo giubbetto con la mano sinistra, azzurro.

Brandendo entrambi i ciucci non accenna a smettere di piangere e, sempre singhiozzando, inizia a chiamare la mamma.

<<Mammaaaaa, mammaaaa>>.
ripete a ritornello.

Tra i presenti non sembra suscitare nessun interesse, nessuno si gira a guardarlo, nessuno interviene e soprattutto nessuna mamma sembra arrivare in suo soccorso.

Nemmeno il papà prova altri mezzi per quietare il piccolo, che con le manine sollevate esibisce i ciucci; sembra voler dire che i suoi bisogni sono altri, che la soluzione non era il ciuccio, è la mamma che lui vorrebbe: se voleva il ciuccio ne aveva già uno in tasca.

<<Mammaaaaa, mammaaaa>>.

Ma la mamma, nè nessun altro, arriva.

Rassegnato, e forse galeotto l’arrivo al proprio turno in barriera casse, infila il ciuccio azzurro in bocca e silenzia il suo stesso pianto.

L’altro, quello rosso, lo recupererà il papà dopo aver pagato, pronto per le prossime emergenze.

Rome swim Rome

Ho un’ora di anticipo sul treno di rientro, eppure non sono per nulla impaziente di girare la pagina finale di questa estate 2022.

Estate che mi è scivolata come sabbia tra le dita mentre a testa bassa ho continuato a provare di recuperare il disastroso tempo dei regionali.

Ho segnato l’iscrizione agli europei a maggio con un tempo di 30”50, che risaliva a febbraio 2021 e che non avevo mai più ripetuto.
Era un’iscrizione azzardata, che speravo mi ponesse al fianco di gente più forte di me che potesse darmi lo stimolo, mi facesse da lepre.

Niente, mi è andata male, sono finita in seconda batteria, quella che precede le papabili prime 10, ma in corsia centrale. Avrei potuto essere laterale tra le top 10 e invece no.

O forse non è stata sventura: a fianco da un lato una sconosciuta assente. Dall’altro colei che a Riccione, solo due mesi prima, si era presa l’argento staccandomi di nemmeno di due decimi.

Due decimi che mi erano rimasti sullo stomaco.

Migliore prestazione stagionale, prima di ieri, un 30”84, gli altri tempi tutti sopra il 31” fino ad un disastroso 31”81 (fratello minore del 32”) disputato appunto ai regionali.

Immagino che per i più parlare di decimi di secondo, addirittura di centesimi, di soglie psicologiche, di partenze reattive e arrivi decisi sia come discutere del sesso degli angeli o fare le treccine alle bambole.

Inezie, differenze minime, polvere di segatura, le cotiche del prosciutto che il salumiere leva e butta nello sfrido: un peso lordo minimo sacrificabile rispetto alla coscia intera.

Io per quel 31”81 ci ho pianto.
La rabbia e lo sconforto mi hanno tenuto compagnia per mesi.
Lo so che i problemi sono altri, che c’è il caro energia, la fame nel mondo, i bambini malati. Lo so.

Ma non posso farci nulla, quel tempo, quel risultato (e anche molti altri della stagione) mi pesava come un macigno, tanto da mettere in dubbio la sensatezza di iscrivermi al campionato europeo.

I master, a differenza dei nuotatori giovani, non hanno limite all’iscrizione, basta pagare. Per le competizioni di un certo livello esiste un tempo minimo, a portata di qualunque nuotatore di livello medio alto.

Ma appunto aveva senso investire tempo, energie e denaro in una avventura così?

Solo che gli europei proprio sotto casa sono un evento. Solo che chissenefrega del risultato, già esserci è un risultato.
Esserci significa nuotare nelle stesse vasche, nelle stesse strutture, con le stesse procedure osservate per i pro.
Pazienza che il foro italico è stato riservato agli uomini, le donne a Pietralata.

Esserci significa che il nome, la performance, il ranking, rimangono ufficiali negli archivi della LEN, la Ligue European de Natacion.

La volta precedente che avevo preso parte a un europeo era stata a Kranji nel 2007: nel 50 stile mi ero piazzata al 14 posto, avevo 15 anni di meno e avevo fatto 29”54.

Ritrovarsi all’11 posizione di partenza, prima delle escluse dalla top 10, con un tempo lungimirante di 30”50, aveva lanciato la sfida io vs me stessa.

Volevo rientrare nella top 10.
Così la boutade ‘ma si tanto è un 50’ si è trasformata in una sfida tranquilla: allenamenti seri fino a fine luglio, allenamenti ancora in vasca fino a ferragosto (compreso), allenamenti quotidiani tra le onde e le meduse da metà a fine agosto.

Poi ancora allenamenti in vasca: a casa e sul posto di gara.

La vasca di Pietralata non è suggestiva come quella del foro italico (che meraviglia la vasca interna: 50 m di lunghezza, profondità abissale, fondale in marmo, mosaici alle pareti) ma ha un enorme pregio, anzi due.

Il primo, forse legato anche allo stato di forma fisica, è di avere un’acqua leggera.
Il secondo è di avere sul fondo dei segni orizzontali intermedi.
Oltre alla classica linea nera longitudinale di mezzeria della corsia, oltre alle T che decretano la presenza del muro, da entrambi i lati, ci sono altre tre linee trasversali.

Una a metà vasca e le altre due a 15 metri dai bordi.
Una manna: la prima arriva che sei appena tuffata. La seconda non dista molto, e ti informa che sei già ai 25.
La terza è la più dura, ma la vedi. Il senso di fatica e pesantezza si acuisce ma l’occhio, quello che chiede la sua parte, la vede.

Ho parlato di soglia psicologica prima, riferendomi ai crono: stare sotto al 30”, stare sotto al 31”.
Ma anche in termini di distanza la psicologia fa la voce grossa. Quando non sei ancora ai 15 metri finali ma li vedi, e hai la percezione di essere in avvicinamento, ti sembra un po’ meno in salita.
Se poi di fianco, anzi un metro dietro, hai quella che ti ha soffiato l’argento agli italiani, allora sì che riesci a gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Partenza decisa (è stato rilevato anche lo stacco al via, 0,68; non so se sia buono, non ho riferimenti, non mi è mai capitata una misura precisa, e chissà quando si ripeterà; lo prendo per buono), arrivo di cattiveria, con la mano giusta stavolta, senza allunghi inutili.

Vittoria sulla batteria, tempo al display pari a quello di iscrizione, poi ufficializzato con 6 centesimi di più, in omaggio: 30”56.

Già va bene, poi si disputa anche la batteria finale e tirando le somme sono tra le prime 10, anzi meglio ancora: sono 8ava.

Certo che non è niente di fantasmagorico, per il podio mi ci sarebbe voluto un motorino: le prime 3 fanno tempi che non facevo nemmeno da M30 e men che meno da agonista.
Avessi anche ripetuto il mio miglior tempo di sempre, di quando avevo 10 o 15 anni di meno, non sarei potuta arrivare meglio che quarta.

Avevo consultato le start list, le avevo cercate in rete, questa è gente che non bluffa, fortissime e consce delle loro possibilità.

Ma chiudere così la categoria M45, ad un secondo da quella che ero 15 anni addietro, ad un tempo inferiore a quello con cui avevo gareggiato a Palermo nel 2018, primo anno di categoria quindi in teoria il più vantaggioso, è un bel modo di guardare avanti.

Il problema è che tutto il mio pensare al 2 settembre come obiettivo dell’estate ha spostato quello che è la realtà. Lunedì è il 5 settembre e si ritorna al lavoro.