Là ci darem la mano

Di Bassano tutti conoscono il ponte degli alpini. È il luogo più affollato della cittadina. Al sabato sera poi si concentrano un po’ tutti li, è quasi difficile il passaggio.
Certo la vista è suggestiva: il ponte storico, appena ristrutturato, fa da sipario al fiume Brenta, che scorre sotto e riflette in un’immagine tremolante i caseggiati sulla riva, frastagliandone i contorni ma vivacizzandone i colori.

In molti scattano foto a questo sfondo, e molti altri mettono loro stessi al centro dell’obiettivo, con il fiume alle spalle.

Però le cose belle si nascondono ovunque, e non necessariamente dove l’affluenza è maggiore.
Dall’altro capo del centro storico, quasi nascosta in una nicchia, una ragazza cantava.
Di artisti di strada sono piene le vie, soprattutto quando la primavera avanza e le temperature e la luce migliorano la vita all’aperto.
Questa però aveva una voce che definire bella è riduttivo.
Aveva una voce bella in modo imbarazzante, e cantava con fare superlativo.

Non ci avresti scommesso, a vederla.
Di corporatura minuta, per nulla appariscente, anche un po’ trasandata nel vestire; i capelli sembravano passati in candeggina, la pelle bianca come il latte, gli occhi truccati appena di nero, un piccolo orecchino rotondo sul naso.
Giovane anzi giovanissima.

In una mano reggeva una cassa di dimensione ridotta, rosso corallo, da cui usciva la base.
Nell’altra mano il cellulare, con una cover gommosa dello stesso pantone della cassa, per controllare il testo.
Se la vedevi avresti detto che stava facendo per gioco, come ai neo laureati per fare festa, gli fanno cantare una canzone.

Lei dimenava le braccia per darsi il ritmo.
E dalla sua gola usciva un suono potente, deciso, quasi metallico, che altalenava tra i toni in maniera convincente.
Non conosco il titolo del brano, nè avevo mai sentito quella melodia in precedenza.

Non aveva pubblico, solo due o tre attorno a lei che parevano suoi amici.
Davanti a sè aveva steso un cappello rovesciato, ma non credo che il fine suo ultimo fosse veramente raccogliere denaro.

Quando l’ho superata e la sua canzone mi è rimasta alle spalle ho sentito un brivido: io credo di non avere mai avuto l’onore prima di ascoltare una simile interpretazione canora.

Mi sono fermata e sono tornata indietro, per ascoltare il resto.
Non ho avuto l’ardire di scattare una foto o registrare un video, ma credete, era incantevole.

Al termine non ho saputo trattenere un applauso, e gli altri tre si sono uniti al mio.
Una ragazza l’ha abbracciata.

Eppure il ponte degli alpini, e tutta la gente, stavano dal lato opposto, nonostante le bellezze si trovassero proprio qua.

La coda dell’arcobaleno

Aveva sentito dire che là dove finisce l’arcobaleno si trova una pentola piena di monete d’oro.

Se la immaginava grande come quella in cui Panoramix prepara la pozione; non una pentola di quelle moderne, adatte ai fornelli ad induzione, con qualche congegno sul coperchio per misurare la temperatura interna: al contrario si figurava un pentolone di un metallo sottile, dai bordi slabbrati. Tondeggiante e capiente, e soprattutto piena di ricchezza.

Era un giovanotto credulone Alfonso, credeva alle leggende, soprattutto se promettevano qualcosa di buono.

Così dopo la pioggia intensa, non appena il sole aveva ripreso a splendere e aveva incontrato mille gocce ancora sospese nell’aria, formando il caratteristico spettro di colori, Alfonso si era precipitato alla ricerca della sua coda.

Poco importava se bisognava attraversare il bosco, anzi ne avrebbe potuto approfittare per una passeggiata rinvigorente: respirare il profumo di umidità, di legno bagnato, di funghi; ascoltare il cinguettio degli uccellini; praticare un po’ di movimento e guadagnarne in salute.

Ma dopo ore di cammino la coda dell’arcobaleno andava sparendo, senza rivelare nessuna pentola nè, ovviamente, nessun tesoro.

L’unica sorpresa che gli era stata riservata era un ruzzolone sulle foglie scivolose, a causa del quale si era infradiciato fino alle mutande.

Non restava che fare ritorno a casa e cercare nell’armadio qualcosa di asciutto con cui cambiarsi.

(Esercizio di scrittura: #pentola #bosco #armadio)

Scema & +Scema

C’è che la linea internet da sabato ha dato forfait, ed è un guaio; si sopravvive un minuto senza aria, un giorno senza acqua, per sempre senza una risposta, ma quanto senza connessione?

Questo pomeriggio il tecnico è uscito, dietro segnalazione ma senza alcun preavviso; tocca correre a casa perché pare debba verificare qualcosa di non meglio precisato sull’attacco, o sul router chi lo sa, e bisogna aprirgli la porta.
Ma del tecnico nemmeno l’ombra.
Faccio un paio di verifiche ma è tutto rotto come prima.
Finalmente la connessione ritorna e chiamo il marito, che si era occupato di contattare il tecnico, per comunicarglielo.
Proprio in quell’istante sento suonare il campanello ed interrompo la telefonata prima di ricevere risposta; vengo istantaneamente richiamata, ma non rispondo, perché impegnata ad accogliere il tecnico.

Gli riferisco che è tutto ok, gli faccio vedere che Netflix è ripartito.
Lui allora mi chiede di verificare anche il funzionamento del telefono fisso, ed è così che dal numero di casa, con il cordless, mi chiamo sul cellulare.
Eureka, va tutto, grazie e arrivederci.

Ed è qui che il genio si scatena: richiamo il marito, che avevo lasciato senza risposta (potrebbe sopravvivere per sempre ma io sono puntigliosa): dal cellulare ripeto l’ultimo numero, registrato a suo nome.

Sento suonare il fisso e a questo punto mi spazientisco per la sua impazienza: possibile non riesca ad attendere che lo richiami?

Brillante idea, rispondo.
E mi aspetto di sentirlo, cioè di sentire lui, la sua voce, su entrambe le linee.
“Pronto? Pronto?”
Mah… è una voce femminile… Pronto?

La domanda rimbalza con un lieve sfasamento da un orecchio all’altro.

Ma chi è???? Chi parla???

AAH SI…. SONO IO!

Mi faccio la domanda, mi dó la risposta.

Rosso o blu? Questo è il dilemma

Negozio di bricolage una domenica mattina di quasi primavera. Clientela quasi esclusivamente maschile, tutti concentratissimi ad individuare tra gli scaffali la giusta brugola o il raccordo della misura cercata.

Nessuna musica allieta nè i dipendenti nè i visitatori.

Un tranquillo viavai di gente intenta a procurarsi il materiale per qualche manutenzione domestica, o forse per il lavoro settimanale.

Alle casse file importanti, anche 4 o 5 in attesa per ciascuna; ognuno ha pochi pezzi in mano o nel cesto, ma si formano delle batterie ordinate di gente che attende in piedi il proprio turno.

Improvvisamente un pianto interrompe il brusio sommesso che aveva regnato fino a poco prima.
Nessuno sembra curarsene. È un pianto che sembra più di noia, non è certo un capriccio nè un pianto disperato.

Proviene da un bimbetto che staziona sulle spalle del suo papà, in fila alla cassa come molti altri.

Nessuno sembra interessarsi alla causa; il bimbetto, sotto una cuffietta in jersey calata fino alle sopracciglia, non smette.

Dopo un certo numero di singhiozzi il papà, senza scomporsi, porge al figlio un ciuccetto di colore rosso.
Il piccolo lo accetta con la mano destra, se lo rigira un po’ mentre lo guarda da diverse angolazioni e anziché infilarselo in bocca ne estrae un altro dalla tasca del suo giubbetto con la mano sinistra, azzurro.

Brandendo entrambi i ciucci non accenna a smettere di piangere e, sempre singhiozzando, inizia a chiamare la mamma.

<<Mammaaaaa, mammaaaa>>.
ripete a ritornello.

Tra i presenti non sembra suscitare nessun interesse, nessuno si gira a guardarlo, nessuno interviene e soprattutto nessuna mamma sembra arrivare in suo soccorso.

Nemmeno il papà prova altri mezzi per quietare il piccolo, che con le manine sollevate esibisce i ciucci; sembra voler dire che i suoi bisogni sono altri, che la soluzione non era il ciuccio, è la mamma che lui vorrebbe: se voleva il ciuccio ne aveva già uno in tasca.

<<Mammaaaaa, mammaaaa>>.

Ma la mamma, nè nessun altro, arriva.

Rassegnato, e forse galeotto l’arrivo al proprio turno in barriera casse, infila il ciuccio azzurro in bocca e silenzia il suo stesso pianto.

L’altro, quello rosso, lo recupererà il papà dopo aver pagato, pronto per le prossime emergenze.

Rome swim Rome

Ho un’ora di anticipo sul treno di rientro, eppure non sono per nulla impaziente di girare la pagina finale di questa estate 2022.

Estate che mi è scivolata come sabbia tra le dita mentre a testa bassa ho continuato a provare di recuperare il disastroso tempo dei regionali.

Ho segnato l’iscrizione agli europei a maggio con un tempo di 30”50, che risaliva a febbraio 2021 e che non avevo mai più ripetuto.
Era un’iscrizione azzardata, che speravo mi ponesse al fianco di gente più forte di me che potesse darmi lo stimolo, mi facesse da lepre.

Niente, mi è andata male, sono finita in seconda batteria, quella che precede le papabili prime 10, ma in corsia centrale. Avrei potuto essere laterale tra le top 10 e invece no.

O forse non è stata sventura: a fianco da un lato una sconosciuta assente. Dall’altro colei che a Riccione, solo due mesi prima, si era presa l’argento staccandomi di nemmeno di due decimi.

Due decimi che mi erano rimasti sullo stomaco.

Migliore prestazione stagionale, prima di ieri, un 30”84, gli altri tempi tutti sopra il 31” fino ad un disastroso 31”81 (fratello minore del 32”) disputato appunto ai regionali.

Immagino che per i più parlare di decimi di secondo, addirittura di centesimi, di soglie psicologiche, di partenze reattive e arrivi decisi sia come discutere del sesso degli angeli o fare le treccine alle bambole.

Inezie, differenze minime, polvere di segatura, le cotiche del prosciutto che il salumiere leva e butta nello sfrido: un peso lordo minimo sacrificabile rispetto alla coscia intera.

Io per quel 31”81 ci ho pianto.
La rabbia e lo sconforto mi hanno tenuto compagnia per mesi.
Lo so che i problemi sono altri, che c’è il caro energia, la fame nel mondo, i bambini malati. Lo so.

Ma non posso farci nulla, quel tempo, quel risultato (e anche molti altri della stagione) mi pesava come un macigno, tanto da mettere in dubbio la sensatezza di iscrivermi al campionato europeo.

I master, a differenza dei nuotatori giovani, non hanno limite all’iscrizione, basta pagare. Per le competizioni di un certo livello esiste un tempo minimo, a portata di qualunque nuotatore di livello medio alto.

Ma appunto aveva senso investire tempo, energie e denaro in una avventura così?

Solo che gli europei proprio sotto casa sono un evento. Solo che chissenefrega del risultato, già esserci è un risultato.
Esserci significa nuotare nelle stesse vasche, nelle stesse strutture, con le stesse procedure osservate per i pro.
Pazienza che il foro italico è stato riservato agli uomini, le donne a Pietralata.

Esserci significa che il nome, la performance, il ranking, rimangono ufficiali negli archivi della LEN, la Ligue European de Natacion.

La volta precedente che avevo preso parte a un europeo era stata a Kranji nel 2007: nel 50 stile mi ero piazzata al 14 posto, avevo 15 anni di meno e avevo fatto 29”54.

Ritrovarsi all’11 posizione di partenza, prima delle escluse dalla top 10, con un tempo lungimirante di 30”50, aveva lanciato la sfida io vs me stessa.

Volevo rientrare nella top 10.
Così la boutade ‘ma si tanto è un 50’ si è trasformata in una sfida tranquilla: allenamenti seri fino a fine luglio, allenamenti ancora in vasca fino a ferragosto (compreso), allenamenti quotidiani tra le onde e le meduse da metà a fine agosto.

Poi ancora allenamenti in vasca: a casa e sul posto di gara.

La vasca di Pietralata non è suggestiva come quella del foro italico (che meraviglia la vasca interna: 50 m di lunghezza, profondità abissale, fondale in marmo, mosaici alle pareti) ma ha un enorme pregio, anzi due.

Il primo, forse legato anche allo stato di forma fisica, è di avere un’acqua leggera.
Il secondo è di avere sul fondo dei segni orizzontali intermedi.
Oltre alla classica linea nera longitudinale di mezzeria della corsia, oltre alle T che decretano la presenza del muro, da entrambi i lati, ci sono altre tre linee trasversali.

Una a metà vasca e le altre due a 15 metri dai bordi.
Una manna: la prima arriva che sei appena tuffata. La seconda non dista molto, e ti informa che sei già ai 25.
La terza è la più dura, ma la vedi. Il senso di fatica e pesantezza si acuisce ma l’occhio, quello che chiede la sua parte, la vede.

Ho parlato di soglia psicologica prima, riferendomi ai crono: stare sotto al 30”, stare sotto al 31”.
Ma anche in termini di distanza la psicologia fa la voce grossa. Quando non sei ancora ai 15 metri finali ma li vedi, e hai la percezione di essere in avvicinamento, ti sembra un po’ meno in salita.
Se poi di fianco, anzi un metro dietro, hai quella che ti ha soffiato l’argento agli italiani, allora sì che riesci a gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Partenza decisa (è stato rilevato anche lo stacco al via, 0,68; non so se sia buono, non ho riferimenti, non mi è mai capitata una misura precisa, e chissà quando si ripeterà; lo prendo per buono), arrivo di cattiveria, con la mano giusta stavolta, senza allunghi inutili.

Vittoria sulla batteria, tempo al display pari a quello di iscrizione, poi ufficializzato con 6 centesimi di più, in omaggio: 30”56.

Già va bene, poi si disputa anche la batteria finale e tirando le somme sono tra le prime 10, anzi meglio ancora: sono 8ava.

Certo che non è niente di fantasmagorico, per il podio mi ci sarebbe voluto un motorino: le prime 3 fanno tempi che non facevo nemmeno da M30 e men che meno da agonista.
Avessi anche ripetuto il mio miglior tempo di sempre, di quando avevo 10 o 15 anni di meno, non sarei potuta arrivare meglio che quarta.

Avevo consultato le start list, le avevo cercate in rete, questa è gente che non bluffa, fortissime e consce delle loro possibilità.

Ma chiudere così la categoria M45, ad un secondo da quella che ero 15 anni addietro, ad un tempo inferiore a quello con cui avevo gareggiato a Palermo nel 2018, primo anno di categoria quindi in teoria il più vantaggioso, è un bel modo di guardare avanti.

Il problema è che tutto il mio pensare al 2 settembre come obiettivo dell’estate ha spostato quello che è la realtà. Lunedì è il 5 settembre e si ritorna al lavoro.

Ufficiale e gentiluomo

Poco dopo le 6.00 il richiamo dall’altoparlante ci annuncia che siamo prossimi a terra. Con qualche contorsionismo ci disincastriamo dal Tetris della cabina e raggiungiamo il bar, dove tira un vento gelido di aria condizionata polare.

Poco alla volta tutti si risvegliano; chi ha usufruito del passaggio ponte si attarda un po’, raccoglie le proprie cose sparpagliate attorno. Qualcuno approfitta degli ultimi attimi di sonno, coprendosi testa e orecchie per attutire il disturbo del via vai.

Si vede già terra, eppure lo sbarco si farà ancora attendere.

Verso le 7.00 iniziano a chiamare gli automobilisti, suddivisi per garage.

Quelli più prossimi alla discesa defluiscono ai piani inferiori, gli altri attendono pazientemente sulle scale.

Ogni tanto si apre un nuovo garage e la folla si riduce, permettendo di discendere un altro piano.

Sull’ultima rampa sta disteso un uomo. La testa avvolta in un indumento, i piedi scalzi dalla pianta nerissima.

Indossa un paio di jeans sdruciti e una t-shirt consunta, che non copre le braccia macilente.

Attorno a lui bottigliette vuote, qualche effetto personale e tanta, tanta confusione.
Lui dorme, profondamente.

Gente che va e viene, bambini, cani, schiamazzi.

Tutti in piedi, lui disteso, dorme profondamente.

Bisticci di bambini assonnati, chiamate urgenti alla reception, risate da relax post vacanziero.
Lui dorme.

Passa un uomo dell’equipaggio, tenta di svegliarlo blandamente, gli dice che stiamo attraccando a Olbia, mentre siamo a Livorno.

Lui dorme, profondamente.

Scompiglio per l’annuncio errato tra gli astanti. Una famiglia in difficoltà a svitare il tappo della sua bottiglia di acqua.

Lui dorme.
Ormai dovremmo esserci, tra poco scenderanno tutti, sono ormai le 8.00.

Arriva un altro uomo dell’equipaggio, più alto in grado, prova a chiamarlo in modo perentorio.

“Signore, signore! Deve svegliarsi, siamo arrivati”

Niente, nessun segno di vita.

Una donna avvisa che già un collega aveva tentato la missione, senza successo.

Il tizio in uniforme bianca, con la spallina blu e le stelle dorate, i capelli neri raccolti in un codino, la barba che sa di pulito, non capisce.

“Un collega? Chi?”

La donna paziente gli risponde che non sa, un altro dell’equipaggio.

Nuovo tentativo più deciso del precedente: “Signore si deve svegliare” che però non sortisce alcun effetto.

L’uomo in uniforme inizia a spazientirsi e la tensione si fa palpabile.

Si accovaccia e prova a muoverlo, meditando a voce alta di chiamare la sicurezza.

Il tizio disteso accenna un lieve rotolamento, protesta da sotto la giacca che gli fa da turbante e mascherina.

Di nuovo un richiamo: “Signore deve svegliarsi”

L’altro prende forza e ribatte a voce impastata “ma io vivo qua” senza aprire gli occhi.

Disappunto tra i presenti, mormorii.
L’uomo in uniforme sta per rialzarsi e chiamare rinforzi.
Poi qualcosa lo attrae, ritorna abbasso e chiede “Ma tu… mica se’ Joseph???”

Ed è lui!
Carramba che sorpresa! L’uomo che dormiva si alza lentamente in piedi, con aria stralunata, la barba incolta, i capelli rasati, un occhio semi chiuso, peserà 50 kg.

“Joseph, che bello rivederti! Vieni vieni con me, che fai qua?”

I due si abbracciano e sembrano sinceramente felici di vedersi.

Il contrasto tra le due figure, il barbone e l’ammiraglio, si fonde: ora non sono più i ruoli che rappresentano, ora sono loro due, sono amici che non si vedono da un sacco di tempo.
Hanno recuperato ciascuno la propria dimensione umana.

“Vado a trovare i nipoti e tu?”

“E io ci lavoro! Vieni dai che ti faccio vedere un po’ in giro! Dove hai parcheggiato la macchina? Ti offro da bere!”

Il pubblico, non pagante, si scambia incredulo occhiate coi lucciconi mentre Joseph e l’ammiraglio si allontanano.

Sardegna 2022

Cosa riporto a casa da questa vacanza?

Rigorosamente in ordine random:

  • la sigla del tg1 delle 8,00 che riecheggia dalle finestre del vicino;
  • una cavigliera da ragazzina che ho trovato sul fondale mentre nuotavo;
  • un bel po’ di sabbia, sospinta dal vento incessante, e rimasta appiccicata agli asciugamani;
  • il monito che dentro un barattolo con la dicitura ‘zucchero’ potrebbe nascondersi altro (mamma come è salato questo the);
  • gli abitanti del centro che siedono sulla soglia di casa a fare salotto, direttamente sul ciglio della strada;
  • il sapore del sale chehaisullapelle chehaisullelabbra che dopo i primi 5 minuti di nuoto ti arriva fino in gola e hai voglia a sciacquare quando esci: non va più via;
  • che se vuoi la pasta senza formaggio devi precisarlo;
  • le seadas, il mirto, il pecorino, il pane carasau, il porcellino, i malloreddus, le sappuedas, il melone verde, l’acqua smeraldina e i tappi delle bottiglie che a Viola non piacciono;
  • il materasso del letto che pare un tagadà;
  • le visite alle miniere di Serbariu e al sito archeologico di Barumimi, la preparazione e la cortesia delle guide che ci hanno accompagnato, la totale mancanza di indicazioni stradali per raggiungere i luoghi;
  • il ballo della scopa che partiva in spiaggia appena si liberava un posto e tutti correvano a riaccaparrarsi la posizione migliore;
  • le folate improvvise che rovesciano gli ombrelloni e la gente che corre a riprenderli; noi siamo riusciti a rompere il nostro al secondo giorno: non male considerato che ci sono suppellettili in terracotta che resistono per millenni;
  • le figlie che socializzano con i coetanei (in misura diversa! ) e spariscono; poi ritornano (sempre in misura diversa);
  • l’esercente che non vuole rovinare il layout del suo plateatico e ci chiede di cambiare tavolino;
  • gli oleandri, le alghe, le meduse, l’acqua limpidissima su fondale bianco e sabbioso, un paesaggio insolitamente verde;
  • i reticoli di strade fittissimi con le auto parcheggiate ovunque;
  • la gelateria fantasma, sparita nel nulla dopo che avevo convinto il resto della famiglia ad una tappa;
  • il vento che mi pettina alla Mirko dei bee-hive e che quando si ferma rivela un caldo torrido quasi africano.

Una vita come tante

Sapevo in parte cosa mi attendeva, anzi proprio perché lo sapevo ho voluto affrontare questa sfida.

Avevo letto numerose recensioni, avevo capito che si trattava di un libro lungo (oltre le 1000 pagine) e ho voluto approfittare delle vacanze estive per affrontare una lettura unica anziché tanti libri di media dimensione.

E poi ero incuriosita dall’immagine di copertina.

Sapevo che il contenuto era sventurato e non farò spoiler raccontando brevemente che si narra di quattro amici legati da sentimenti profondi. Uno di questi, Jude St. Francis, ha avuto un’infanzia tormentata, oltremodo difficile. A causa di ciò assume nel resto della sua esistenza dei comportamenti autolesionistici.
Gli altri tre amici gli vanno, seppur in misura diversa, in soccorso.

La storia copre l’arco delle loro esistenze dai tempi del college in poi, e questo giustificherebbe la mole di pagine.

Avevo già afferrato che si trattava di storie tristi, dure, difficili.

A nessuno di loro manca la disponibilità economica ed è anche fastidioso leggere tanto spreco di possibilità che la vita offre: vero è che i soldi non fanno la felicità ma tanto valeva aggiungerci anche un po’ di povertà a tutte ste sofferenze, visto tanto impegno per inventarsi le sfighe una dietro l’altra.

Temevo a dire il vero un po’ di accanimento, una tendenza a rimestare nel torbido, una serie di pagine per stomaci forti.

Invece mi sono ritrovata di fronte a tanta ripetitività, a storie narrate “dietro a un finestrino”, a lasciar immaginare anziché coinvolgere.

Da un autore mi aspetto che mi prenda e mi conduca anima e corpo dentro la situazione: non dirmi che piove ma portami sotto l’acqua e fammi inzuppare i vestiti, fammi uscire fradicio dalle tue righe, fammi rimpiangere di non avere un ombrello.

Invece tutta una serie di allusioni, di sottintesi, di riferimenti vaghi.
Tante liste di nomi, di giorni della settimana e di mesi che si succedono, di compleanni.
Tanti, tantissimi, giorni del ringraziamento.

Stephen King ha scritto un saggio, intitolato On Writing, nel quale dispensa consigli di scrittura.
Ricordo bene che uno di questi consigli invitava a tagliare le parti in eccesso. Raccontava che durante la stesura di un suo romanzo aveva trascorso delle settimane a scrivere una digressione molto dettagliata su un personaggio. Poi si rese conto che non faceva parte della storia e che anzi era superflua, che la vita di questo personaggio interessava solo a lui. Così la taglió, senza nulla togliere al romanzo.

Avrebbe fatto bene anche Hanna Yanagihara a fare altrettanto.

Top Gun Maverick – I miei 2 cents

Dicevano che era un gran film; dicevano che aveva effetti speciali; dicevano che Tom Cruise è inossidabile, che a 60 anni è rimasto tale e quale a quello del primo film, quando ne aveva appena 26.

Mi permetto di levarmi dal coro.

Il film, come ogni sequel, fa rimpiangere il primo.
Gli effetti, confermo, ci sono, e sono più o meno l’unico ingrediente.

Tom Cruise ha 35 anni in più. Si vedono, forse non tutti, ma si vedono. Per non farlo sfigurare troppo è stato selezionato un cast di basso profilo, per cui se andate a vedere il film per gustarvi l’occhio lasciate perdere. Vale anche per la componente femminile.

Maverick veste ancora lo stesso giubbotto e gli stessi occhiali a goccia; alla sua età ancora non ha imparato a infilarsi un casco prima di salire in sella a una moto.

La storia d’amore è stata inserita a forza, senza corteggiamento, nè scene di sesso, nè lieto fine. Solo un furtivo incontro guastato dalla presenza dei figli.

Il lessico ha subito, rispetto al primo film, troppa innovazione: quando mai adoperiamo il verbo brieffare per dire ragguagliare?

Anche la colonna sonora è rimasta la stessa, Highway to the Danger Zone, potete leggerlo canticchiando così vi sentirete già al 50% calati nella parte di spettatori.

Unica nota positiva: ho apprezzato la presenza di personaggi femminili (uno a dire il vero, forse una quota rosa) perfettamente integrati nella squadra, senza che si cadesse nei soliti stereotipi per cui a un certo punto ‘la donna non ce la fa’. Si è un po’ superato insomma il concetto che Venusia esce, spara due tette e poi è costretta a battere in ritirata e lasciare correggere il tiro a quel superdotato di missili che è ufo robot.

“Non conta l’aereo signore… conta il pilota!!!”

La tomba di Omero

Giuseppe, o come dicevan tutti Beppe, raccontava della sua vacanza a Mykonos, o forse era Santorini, o magari era Rodi, non fa differenza, rievocando il momento della visita alla tomba di Omero.

Erano anni che precedevano questa sventurata estate del Covid, ma probabilmente risaliamo anche a prima delle torri gemelle, non fa differenza.

Perché Giuseppe, o come dicevan tutti Beppe, si trovava sull’isola per divertirsi: far tardi nei locali, bere aperitivi al tramonto, ballare sulla spiaggia attorno ai falò. Della mitologia greca e della storia antica se ne interessava fino a quel punto, quel punto molto prossimo allo zero.

Però qualcuno, di cui lui si fidava, o forse solo che gli era parso un tipo carismatico di una birra più avanti di lui, gli aveva suggerito la visita culturale alla tomba di Omero.
Che poi vuoi mettere? Torni dalla vacanza e tutti ti credono un cazzaro e tu invece no, cali l’asso dalla manica, hai anche visitato dei luoghi di interesse storico.

Da che parte è la tomba di Omero? È su per il monte. E allora parti con lo scooter 50cc che per quella settimana è il tuo unico mezzo di trasporto.
A Beppe piaceva fare l’effetto sonoro, riferendo la sua avventura.
Meeeeeeeee meeeeeee meeee

Chi è stato in Grecia nei mesi estivi sa: sa le temperature, sa la puzza che si leva da certe aree di sosta, sa il vento, sa le condizioni delle strade.

Meeeeeeeee meeeeeee meeee

In giro non trovi mai un cane, mai uno a cui chiedere indicazioni, perché qua dopo eterni chilometri non si vede nulla, nulla di interesse ma nemmeno di poco rilievo: nulla se non sterpi e mare.

Meeeeeeeee meeeeeee meeee

Sperare che il carburante basti altrimenti tocca farla in discesa sfruttando la forza di gravità.

Meeeeeeeee meeeeeee meeee

Ad un certo punto ecco un cristiano a cui chiedere indicazioni: excuse me… Omero’s Thomb???
Anche l’inglese ti sfodera Giuseppe, o come dicevan tutti Beppe!

E quello gli fa segno di proseguire salendo, aggiungendo che la visita merita assolutamente, very nice.

Meeeeeeeee meeeeeee meeee
Ancora nulla
Meeeeeeeee meeeeeee meeee
Nulla
Meeeeeeeee meeeeeee meeee
Nulla

Mah aspetta forse … ecco…

Meeeeeeeee meeeeeee meeee

Ci siamo: Omero’s Thomb, la tomba di Omero.

Beppe a questo punto del racconto riferiva la sua profonda delusione con un “erano quattro sassi e basta, capisci? Non sapendo cosa altro fare, ci ho pisciato sopra”.

E ridiscendendo dava indicazioni entusiaste a coloro che incrociava, omero’s Tombe that way, very nice.

Meeeeee meeeee meeeee ma molto più divertito.

Cosa si aspettasse di diverso da una tomba non l’ho mai saputo.

So che ogni volta che profondo più energie a visitare un luogo del piacere che ne traggo ripenso alla tomba di Omero.

Oggi è accaduto con il Dolmen di Avola.